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Autore: Aya88    18/01/2012    3 recensioni
A volte il passato può essere doloroso, ma si cerca ugualmente di andare avanti e si può giungere a pensare di averlo superato. Quando però ritorna insieme alla sofferenza e ai sentimenti negativi che l'avevano caratterizzato, le certezze acquisite crollano e per non crollare con esse è indispensabile il sostegno di chi ci sta accanto.
E' questo quello che capiranno i protagonisti, chi in un modo, chi in un altro, tra indagini poliziesche e banchi di scuola.
Prima long-fic, spero possa piacere a qualcuno.
Paring: KakaSakuNaru, InoShika, TsunadeJiraiya, AsumaKurenai.
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kakashi Hatake, Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Capitolo VIII
Capitolo dedicato ad Urdi, perchè una delle sue prime recensioni
mi ha fatto ideare tutta la prima parte, per la precisione la richiesta di un Kakashi in divisa^^





Quando si era svegliato, non appena le nebbie del sonno che gli intorpidivano i sensi si erano dissipate del tutto, Kakashi si era tirato a sedere sul letto soffermando lo sguardo stanco sulla visuale concessa dalla piccola finestra della sua camera. Il cielo era insolitamente terso per una mattina di metà gennaio, soprattutto dopo una settimana di piogge pressoché continue; di sicuro, fuori l’aria era fredda e pungente come al solito, ma scoprire un tempo sereno, quando invece il calendario segnava il ritorno di una triste ricorrenza, gli aveva lasciato un senso d’amaro in bocca maggiore di quello che già provava ogni volta in quel particolare giorno dell’anno. Non diversi erano i pensieri che gli affollavano la mente mentre sedeva alla scrivania del suo ufficio qualche ora dopo, scrutando di nuovo il paesaggio esterno con un’espressione seria e rassegnata. Che le condizioni atmosferiche dovessero intonarsi con il suo stato d’animo era dopotutto una pretesa stupida oltre che egoistica, un’ulteriore dimostrazione della sua incapacità di svincolarsi dal passato. In momenti come quelli avrebbe dovuto preferire giornate che gli ricordassero che la vita va avanti, che i ricordi dolorosi non possono condizionare in eterno, invece non vi riusciva; i tenui raggi solari e l’azzurro sgombro di nuvole lo facevano sentire come una nota stonata all’interno di una melodia.
“Oggi è uscita proprio una bella giornata, non è vero?” 
Una voce catturò la sua attenzione legandosi inconsapevolmente alle sue riflessioni; Kakashi non ebbe difficoltà a riconoscerla e si voltò quasi subito verso il proprietario.
“Buongiorno, Naruto.” Disse pacato, una maschera di normalità calata sul volto. “Almeno questo inverno ci offre qualche tregua ogni tanto…” 
“Già, speriamo che continui così. Comunque, volevo sapere dove è Sasuke.” Gli domandò il collega, arrivando direttamente al motivo primario della sua presenza.
“Dovrebbe essere con Izuki-san per la deposizione di una denuncia. Ma se hai bisogno di qualcosa, puoi anche chiedere a me.” Rispose l’Hatake, pur non avendo in realtà grande voglia di darsi da fare per aiutarlo, qualunque cosa gli servisse.
“Ah, no, non preoccuparti. E’ che ieri l’ho visto un po’ strano e volevo parlargli.” Spiegò Naruto, mentre si portava una mano dietro la nuca scompigliando leggermente i capelli biondi. “Sai se per caso è successo qualcosa di particolare?” Chiese poi, superato un attimo di incertezza.
“Beh, ecco, no. Non mi sembra, o quantomeno io non ho notato nulla di strano.”
“Capisco.” Farfugliò il poliziotto biondo. “Magari lo cerco più tardi. Grazie per l’informazione.” Continuò in modo più distinto, poi gli rivolse un sorriso leggero e sparì così come era arrivato. Kakashi rimase a fissare perplesso per qualche istante l’ingresso prima occupato dal collega; a volte quel ragazzo lo spiazzava, se da una parte riusciva a brontolare per un non nulla invadendo l’ufficio di interminabili chiacchiere, dall’altro in certi momenti si mostrava serio e sfuggente. Chissà, forse era stata proprio quell’oscillazione, quella compresenza nel suo carattere di tratti così diversi senza che ciò implicasse un’eccessiva sbavatura a colpire Sakura, pensò, con un pizzico di amarezza. Si appoggiò totalmente allo schienale della sedia sospirando. Nell’ultima settimana non si erano quasi mai scambiati una parola e, sebbene fosse naturale che lei passasse più tempo e parlasse soprattutto con Naruto in quanto partner nel lavoro e nella vita, non riusciva a liberarsi dall’opprimente sensazione che il timore di aver commesso un errore irreparabile fosse fondato, oltre che da quel costante strato di gelosia che era incapace di coprire e nascondere sotto ragionamenti razionali. Provò un attimo di sollievo rendendosi conto che almeno per quel giorno non avrebbe dovuto sopportare una fitta improvvisa nel notare il suo sguardo sfuggente, poi si pentì subito di quel pensiero; il motivo per cui la collega non era in commissariato non era affatto qualcosa di piacevole e come sei anni prima sentì di essere nel posto sbagliato; piuttosto che chiuso in un ufficio avrebbe voluto essere al suo fianco, chiederle di dare voce al dolore che c’era nel suo cuore, di condividerlo con lui in quel momento ed ogni volta che ne avrebbe avuto bisogno, come non aveva avuto il coraggio e la forza di fare quando Sakura avrebbe desiderato anche il suo sostegno. Il rimorso per le sue scelte sbagliate lo assalì con violenza, insieme alla amara consapevolezza che non si potesse riavvolgere il nastro e tornare indietro, e anche i ricordi non tardarono a dar man forte colpendolo a tradimento.

Mentre annodava la cravatta, Kakashi fissò il proprio riflesso nello specchio, che gli restituiva l’immagine di un volto segnato dalla stanchezza. Gli ultimi giorni erano stati lunghi e difficili; la morte improvvisa di Isoshi Haruno e di sua moglie, le indagini preliminari, le insistenti richieste dei giornalisti e le visite in ospedale l’avevano travolto completamente, agitando nel suo animo una miriade di sentimenti e nella sua mente mille domande. Si chiese se sarebbe riuscito a trovare un punto fermo in mezzo alla confusione che provava. Osservò poi la divisa che aveva addosso, mentre ne chiudeva la giacca che bottone dopo bottone aderiva sempre più al suo corpo. Da quando era entrato a far parte dell’investigativa non l’aveva più indossata, iniziando a lavorare quotidianamente in borghese, ma se dovevano essere come quella le situazioni in cui doveva rimetterla avrebbe preferito mille volte lasciarla a marcire nell’armadio. Ricordava ancora in modo chiaro il fastidio verso i poliziotti che avevano partecipato al funerale di suo padre, verso le loro uniformi così perfette, così eleganti nell’alternanza di bianco e blu, mentre il suo cuore di bambino ferito deformava e dipingeva di nero ogni cosa. Quel giorno lontano, con tutto il dolore che aveva dentro, non avrebbe mai pensato di seguire la stessa strada che aveva portato Sakumo Hatake a morire in una sparatoria; ma la vita, con il suo alto grado di imprevedibilità, l’aveva condotto ad una scelta differente e in quegli istanti si trovava a sopportare uno dei lati più duri del mestiere di poliziotto: il funerale di un collega, di una guida, ma soprattutto di un amico. Sperando che fosse una delle poche volte, se non addirittura l’ultima, recuperò il berretto sistemandolo sulla chioma argentata, ignorando i ciuffi ribelli che non si adeguavano alla costrizione dell’indumento, poi indossò i guanti bianchi poggiati sul comodino e uscì di casa. 
Qualche ora più tardi, sotto lo scrosciare di una pioggia inclemente, fissava con sguardo spento la bara di Isoshi Haruno che come quella di sua moglie veniva calata lentamente in una fossa, mentre i mazzi di rose adagiati al suolo, piegati dall’acqua sferzante, non potevano offrire nient’altro che un debole omaggio. Come quei poveri fiori, anche il carattere ufficiale che aveva contraddistinto la cerimonia funebre aveva avuto l’intento di onorare ciò che il commissario era stato, ma per tutto il tempo il valore che ogni gesto racchiudeva l’aveva sfiorato solo superficialmente, quello che invece l’aveva assalito e ancora non l’abbandonava era un forte senso di disagio. Non doveva essere lui a vivere quel momento, a dare l’ultimo saluto al suo superiore, o quantomeno non doveva essere da solo; Sakura, l’unica persona che ne aveva il vero diritto, era costretta in ospedale, in coma, ignara dell’evolversi degli eventi. Quello era il funerale di suo padre, dei suoi genitori, e si rendeva conto che in futuro il non essere stata presente le avrebbe dato la spiacevole sensazione di aver perso qualcosa di importante, per quanto doloroso. Strinse i pugni guantati con forza, nel vago tentativo di scaricare rabbia, dolore e frustrazione. L’ultima volta che aveva parlato con i medici, si erano mostrati ottimisti sul suo risveglio, sebbene non sapessero indicare con certezza un quando, ma pensarla immobile in un letto, priva di sensi, mentre la vita, la propria vita, scorreva senza la tranquillizzante e dolce consapevolezza del suo sorriso, lo costringeva a lottare contro un incombente senso di vuoto. Dal giorno dell’incidente, la paura di perderla si era conficcata in profondità nel suo cuore come una spina irremovibile; prima di quella interminabile settimana, non aveva ancora realizzato quanto si fosse legato a lei, quanto la sua presenza gli fosse divenuta indispensabile, aggirando le paure e i timori che lo attanagliavano al solo pensiero di aprirsi veramente all’amore. Mentre la fredda terra iniziava a seppellire il ricordo materiale dei coniugi Haruno, Kakashi pensò che incontrarli aveva smosso qualcosa dentro di lui, che solo pochi anni prima niente sarebbe riuscito a farlo uscire dal guscio che lo chiudeva in se stesso, rendendolo felice e creando le premesse per il nascere di un affetto sincero come quello che provava per loro e per Sakura e di ciò gli era grato; ma, proprio per quel senso di gratitudine e per la fiducia che avevano dimostrato nei suoi confronti, sentiva che sarebbe stato un imperdonabile tradimento farsi trascinare in modo incondizionato dal suo cuore, perché nonostante tutto gli era difficile credere che ogni suo problema relazionale si fosse davvero risolto, mettendo al riparo Sakura dal soffrire anche a causa sua.

Erano trascorsi sei anni e, nonostante quella volta si fosse illuso che qualcosa potesse essere sul serio cambiato, quel guscio protettivo sembrava essere ancora lì, percorso da diverse incrinature ma non frantumato, una difesa che continuava a paralizzare i suoi desideri. Ricordi e vecchie riflessioni avevano finito per far affiorare quella risposta che si era rifiutato di fornire alla sua coscienza il giorno prima; se anche in quel momento non ci fosse stata quell’insolente paura ad avvincerlo a sé, molto probabilmente avrebbe esternato i suoi sentimenti baciandola, nonostante la ragione non avesse tardato ad ammonirlo, ricordandogli come al solito la relazione con l’ispettore Uzumaki e il tempo perso. Si passò stancamente una mano tra i capelli. Qualunque cosa volesse, l’insicurezza che si trascinava dietro l’avrebbe sempre ostacolato e forse in quel caso era meglio così; ormai gli sembrava evidente che recuperare un rapporto con Sakura era qualcosa di difficile, perché per entrambi non sarebbe mai stata solo amicizia, come il recente comportamento di lei gli confermava, e se avesse forzato la situazione, tentando di lottare contro la sua debolezza, quest’ultima sarebbe sempre stata un’ombra che in una eventuale relazione avrebbe finito per causare alla collega inutile sofferenza. Con Naruto, invece, sembrava davvero felice e quella era dopotutto la cosa più importante. Sospirò debolmente; quella storia e il suo opprimente senso di dejà vu a lungo andare l’avrebbero fatto impazzire. Per la prima volta, si sentì sollevato all’idea che il suo incarico a Konoha fosse qualcosa di temporaneo; una volta risolto il caso di spaccio di droga, tutto sarebbe diventato per fortuna un ricordo destinato a sfumare gradualmente. A quell’ultima considerazione, seguì la suoneria del cellulare che interruppe definitivamente il flusso dei suoi pensieri, procurandogli un subitaneo moto di gratitudine. Recuperò il telefono per leggere il contenuto del messaggio appena arrivato e si ritrovò di fronte ad un invito da parte di Shizune: Dal momento che rischierei di aspettare in eterno, ti aspetto stasera verso le nove, nel bar davanti il commissariato, e non sono ammesse obiezioni, e nemmeno ritardi se possibile. A presto!
Il poliziotto sorrise di fronte alla determinazione e allo spirito di iniziativa dimostrato dalla donna.

Tutte le volte che ritornava ad Oto, Sakura evitava ogni deviazione da quelle che erano le tappe irrinunciabili della sua visita, si limitava ad incontrare sua nonna, aggiornandola con un resoconto più o meno dettagliato sugli ultimi avvenimenti, e a trascorrere del tempo sulle tombe dei suoi genitori, mentre il resto della città era come se non esistesse; la scuola, la stazione, i negozi del centro, il commissariato, tutti quei luoghi che avevano accompagnato la sua adolescenza erano avvolti da un cono d’ombra, dove la sua mente li relegava per non essere assalita con prepotenza da un ingestibile vortice di ricordi. Uno dei motivi per cui non si era opposta quando sua nonna aveva deciso di vendere l’appartamento dei suoi era proprio quello, non essere intrappolata contro la sua volontà da una rete di immagini lontane; preferiva custodirle nel suo cuore, attingendo ad esse ogni qualvolta ne sentisse il bisogno, piuttosto che dover sopportare il dolore sferzante delle cose improvvise e incontrollabili, come gli incubi notturni che nell’ultimo periodo avevano ripreso a turbarla. Nel corso di quei sei anni, erano sempre piombati senza preavviso, spezzando con bruschezza l’incoscienza del sonno e sfibrando il suo corpo; forse, solo quella volta, il loro ritorno aveva delle motivazioni lampanti che poteva indagare razionalmente, ma la situazione non si era rivelata molto diversa dal solito: capirne il perché non le serviva per ricevere il colpo dei ricordi senza conseguenze, per quanto potesse ragionavi sopra, venire travolta nel bel mezzo della notte dal dolore e dal senso di vuoto di allora, amplificati dal buio e dal silenzio della sua camera, l’angosciava e la sfiniva, rendendo le giornate di lavoro e la compagnia pressoché costante di Naruto un dolce sostegno a cui abbandonarsi con fiducia. Ringraziò mentalmente ciò che Konoha era ormai diventata per lei, poi cercò di ricacciare fuori dall’abitacolo i tristi pensieri che vi erano entrati non appena aveva imboccato la prima strada di Oto; l’unica cosa che doveva contare quel giorno era salutare i suoi genitori, come non aveva potuto fare in occasione del loro funerale. Era trascorso un altro anno senza di loro; ma, sebbene il tempo che ancora avrebbero potuto condividere insieme pesasse come un macigno, voleva che per una volta fossero i momenti felici del passato e le cose belle che le avevano trasmesso a prevalere, e non l’assenza creata dalla loro scomparsa prematura e che lo scorrere degli anni non avrebbe mai colmato davvero.
Sospesa tra malinconia e voglia di andare avanti, lasciò che anche quell’ultimo pensiero volasse via, sostituito dalla più pressante ricerca di un posto dove sostare, e non appena ne trovò uno disponibile si affrettò ad approfittare dell’occasione propizia. Liquidata la questione parcheggio, raggiunse l’ingresso del cimitero fermandosi come di consueto al chioschetto di fiori antistante; quando la vide, la proprietaria la riconobbe immediatamente e le rivolse un sorriso bonario, mentre le chiedeva se anche quella volta le orchidee andassero bene. Sakura assentì e in attesa che la donna preparasse i soliti due mazzi di fiori replicò alla sua gentilezza ponendole qualche domanda sulla giornata di lavoro, poi allontanandosi la ringraziò e la salutò cordialmente. Tutta quelle azioni abituali, pensò, il viaggio in auto, il perdersi nei propri pensieri e sentimenti, la ricerca del parcheggio, l’atteggiamento confidenziale della fioraia, tutto in qualche modo assurdo riusciva a tranquillizzarla, in uno strano equilibrio tra ricordi dolorosi e quotidianità. Scosse lievemente il capo per allontanare simili riflessioni e ribadì a se stessa che quel giorno doveva pensare solo ed esclusivamente al lascito positivo del passato, sperando nel fondo del suo cuore di poter trasformare quel proposito estemporaneo in qualcosa di duraturo. Percorse le stradine interne del cimitero con calma, i rumori confusi della città che sparivano risucchiati dal silenzio che avvolgeva il luogo, infranto solo dal fruscio del vento tra gli alberi; le tombe, l’una accanto all’altra, segnavano il percorso con i loro semplici e geometrici profili in contrasto con l’intreccio libero di linee e curve degli ideogrammi. Si fermò dove riposavano i suoi genitori, fissando per qualche istante i loro nomi incisi, nomi come tanti per chi passava casualmente ma carichi di ricordi per lei, poi adagiò i due bouquet sulle lapidi e chiudendo gli occhi recitò una preghiera silenziosa. Quando tornò a guardare le tombe davanti a sé, lasciò che giorni lontani riaffiorassero nella sua mente. Nonostante le difficoltà che implicava il lavoro di suo padre, gli orari talvolta improponibili, le assenze, i possibili trasferimenti, erano sempre stati una famiglia molto unita; al di là delle normali ed inevitabili discussioni quotidiane, aveva sempre potuto contare su di loro, sulla complicità preziosa di sua madre, capace di intuire subito le sue preoccupazioni, e sulle raccomandazioni sibilline di suo padre, che ogni volta sembrava aver già previsto da tempo quello che sarebbe accaduto. Per quel motivo avevano litigato spesso, perché i suoi interventi le apparivano costantemente fuori luogo, così come costantemente era stata costretta a dargli ragione. Si soffermò di nuovo sui caratteri che componevano il nome di Isoshi Haruno, chiedendosi se per caso, tra le tante cose, si fosse accorto anche di ciò che nutriva nei confronti di Kakashi. Nonostante l’atteggiamento amichevole e protettivo che l’uomo dimostrava verso il giovane poliziotto, restava pur sempre un collega e provare qualcosa per lui l’aveva fatta sentire a disagio, rendendo sempre più complicato il comportamento da tenere quando si trovavano tutti e tre insieme; ma, nonostante la difficoltà, l’esigenza più pressante era allora il suo adolescenziale sogno d’amore.
Si morse il labbro inferiore, le iridi smeraldine improvvisamente offuscate da un velo di malinconia.
Poteva ritornare su quei sentimenti ogni volta che voleva, ma la verità restava una sola: gli eventi avevano stravolto tutto, accelerando o forse troncando ogni sviluppo, e ciò che la lasciava più perplessa era non saperne la motivazione. 

Era ritornata alla vita da alcuni giorni, giorni in cui avrebbe dovuto respirare l’aria fresca a pieni polmoni, godere della luce del sole, per quanto tiepida, e ascoltare avidamente ogni piccolo suono, considerando tutto come un dono prezioso, invece continuava a desiderare solo di sprofondare ancora nel sonno senza coscienza a cui qualcuno aveva deciso con crudeltà di strapparla; avrebbe preferito mille volte l’oblio senza fine del coma piuttosto che il vuoto terribile che le si spalancava attorno soffocandola. Non appena era riuscita a realizzare dove si trovasse e a legare i ricordi confusi dell’incidente allo sguardo di sua nonna annebbiato dal dolore, l’immagine del suo mondo  era andata in frantumi insieme al suo cuore, e ogni slancio mentale fuori delle quattro mura dell’ospedale si trasformava in una passeggiata su quei frammenti, schegge di vetro che si conficcavano a fondo nella carne. Serrò gli occhi in una smorfia di sofferenza, la guancia pallida immersa nel cuscino: il colore del cielo, le cime degli alberi, tutto ciò che c’era al di là di quella stanza era un colpo sordo; la vita scorreva tranquillamente come se niente fosse accaduto e reimmergersi nel suo flusso le appariva impossibile, benché l’incontro quotidiano con il personale medico e le visite che riceveva le dimostrassero che non poteva fuggire dalla realtà per sempre. Prima o poi avrebbe dovuto affrontarla, ma in quel momento voleva solo cercare di dormire, e forse ci sarebbe anche riuscita, se non fosse stato per la televisione che l’infermiera aveva insistito per accendere, suggerendo che l’avrebbe aiutata a distrarsi, e a cui invece non aveva lanciato nemmeno uno sguardo. All’inizio stavano trasmettendo un programma di cucina, o almeno così le era sembrato prima di perdersi di nuovo in se stessa. Riaprì gli occhi per trovare il telecomando, forse abbandonato sul comodino, ma la sigla del telegiornale la spinse a volgere lo sguardo verso la tv con una improvvisa fitta di paura, paura di sapere. Dopo i pochi accenni di sua nonna, non aveva chiesto più nulla sulla notte d’incubo che aveva spezzato la vita dei suoi genitori, perché sentiva che scoprire i dettagli dell’accaduto sarebbe stato ancora peggio e non sapeva se l’avrebbe sopportato. Cercò il telecomando per spegnere, ma la notizia arrivò prima che potesse sedersi sul letto, allungare il braccio e afferrarlo: “Proseguono ancora le indagini sulla morte del commissario Isoshi Haruno. La polizia continua a sostenere il coinvolgimento diretto della yakuza nella sparatoria in cui l’ufficiale ha perso la vita insieme alla moglie. Stando alle ultime indiscrezioni sembrerebbe che la vittima, recentemente impegnata con uno spaccio di droga di una certa rilevanza, avesse ricevuto da tempo delle pesanti minacce…”
Sakura strinse i pugni con forza, mentre la voce del giornalista che continuava il suo servizio sfuggiva alla sua percezione e nella sua testa rimaneva solo l’ultima frase da lui pronunciata a pulsare dolorosamente; che c’entrasse la criminalità organizzata l’aveva capito fin dal primo sparo che era giunto ad infrangere il silenzio, strappandola al sonno verso cui il viaggio in auto l’aveva spinta, ma che l’attentato potesse trattarsi di un pericolo calcolato era un macigno che inaspettato cadeva sul suo cuore. Pensò con amarezza all’unica persona che ai suoi occhi avrebbe potuto fare qualcosa per impedirlo e che forse non aveva fatto proprio nulla, probabilmente per il rispetto delle regole. Abbassò il capo, lo sguardo vacuo che si perdeva tra le pieghe delle lenzuola bianche, mentre cercava di controllare la confusione che aveva dentro. Fu in quell’istante che bussarono e che la porta della stanza si aprì senza che se ne accorgesse; il giovane poliziotto dai capelli argentati appena arrivato capì subito che qualcosa non andava, così la chiamò avvicinandosi lentamente al letto. Per un attimo la ragazza si stupì di sentirne la voce proprio quando era entrato all’improvviso nei suoi pensieri, poi però l’angoscia e l’amara delusione ripresero il sopravvento, mescolandosi ad una nascente irritazione per la sua presenza.
“Dimmi che non è vero.” Disse, con una voce che le suonò assurdamente calma, mentre incapace di voltarsi e guardarlo continuava a fissare il nulla.
Kakashi rimase perplesso di fronte a quella richiesta repentina e vaga, ma non tardò ad intuire dalla televisione accesa che mandava in onda il notiziario delle dodici che dovesse collegarla ad eventuali informazioni sulla morte del commissario.
“Che cosa hanno detto?” Le chiese dopo qualche istante di silenzio.
“Minacce, che papà avesse già ricevuto delle minacce.” Rispose Sakura, la morsa intorno al suo cuore che diveniva sempre più stretta, incrinando ogni apparenza di autocontrollo; nel vano tentativo di attenuare il dolore e ricacciare indietro le lacrime chinò ancora di più il capo e chiuse gli occhi, prima di esplodere riversando contro di lui il terrore del vuoto e l’impotenza che l’assalivano costantemente dal primo giorno di quella nuova realtà.
“Dimmi che non li hai lasciati morire, dimmi che hai fatto qualcosa, qualsiasi cosa per evitarlo!” Proruppe rivolgendogli finalmente uno sguardo, ma con il volto ormai segnato dal pianto. “Papà si era affezionato a te, non eri un semplice collega per lui, ti… ti avrebbe dato ascolto se avessi insistito. Si fidava di te, io… mi fidavo di te!” Continuò tra la rabbia e la foga della disperazione.
Kakashi l’ascoltò in silenzio, apparentemente impassibile, ogni parola che arrivava veloce e precisa come un coltello affilato, ma pur nel dolore silenzioso che le parole della ragazza gli procuravano l’unico gesto che avrebbe voluto compiere in quel frangente era abbracciarla e stringerla forte, uno stupido e improduttivo gesto egoistico. Quanto a lungo sarebbero durati quei nuovi sentimenti che provava? Erano davvero così forti come aveva pensato in quei giorni? Avrebbero mai avuto la forza di sconfiggere le sue paure ed insicurezze? Troppe domande e nessuna risposta certa. Forse, anche con Sakura, la cosa migliore che poteva fare era quella che gli riusciva meglio, ovvero scappare prima di causare danni irreparabili, e magari, per una volta, il suo allontanarsi dagli altri sarebbe stato d’aiuto. Abbassò lo sguardo per qualche istante, poi si voltò a fissare lo squarcio di cielo e nuvole visibile dall’unica finestra di quella stanza d’ospedale; se avesse incrociato le sue iridi color smeraldo ferite, sapeva perfettamente che non ci sarebbe riuscito.
“Era in ogni caso un mio superiore, il mio compito consisteva nel rispettare le sue scelte.” Disse atono.
In realtà, sorprendendo anche se stesso, aveva cercato più volte di convincerlo ad organizzare una scorta, sebbene con scarsissimi risultati, ma la verità aveva ormai poca importanza; era disposto ad accollarsi la rabbia e se necessario anche l’odio di Sakura, se ciò poteva servirle per scaricare il dolore piuttosto che tenerselo dentro, come stava facendo da quando si era risvegliata dal coma a causa forse della mancanza di qualcuno ben definito con cui prendersela e sfogarsi.
“Mi dispiace.” Sussurrò, desiderando solo di sparire.

Mi dispiace.
Due parole che riecheggiavano ancora nella sua testa, come allora completamente prive di senso. Quel giorno l’aveva detestato con tutta se stessa, per ciò che apparentemente non aveva fatto, per la sua risposta secca e il suo atteggiamento indecifrabile e scostante, e gli aveva quasi intimato di andarsene, forse urlandogli contro, non lo ricordava più distintamente. Tuttavia, quando era rimasta sola, aveva sentito ampliarsi il vuoto che la circondava, incapace di capire se stesse peggio perché l’aveva delusa o perché in quel momento non riusciva più ad immaginare al suo fianco la persona che dopotutto amava. Aveva trascorso così due anni, in balia di sentimenti contrastanti, e il giorno in cui aveva scoperto come erano realmente andate le cose la situazione non era migliorata affatto; da una parte avrebbe voluto potergli parlare, dissipare i mille dubbi e le mille domande che la verità aveva fatto sorgere, dall’altra la mancanza di un sostegno in cui sperava si era colorata di risentimento, gli stessi sentimenti che aveva ritrovato pressoché intatti quando l’uomo era giunto a Konoha, senza riuscire a capire se dovesse legarli ad una amicizia o ad un amore.
Scosse il capo con un pizzico di amarezza; quale fosse la motivazione che aveva spinto Kakashi ad allontanarsi e che cosa quella ignota motivazione avesse impedito non doveva avere più importanza, doveva accantonare tutto e concentrarsi solo sul presente, presente che aveva nome Naruto. Credeva di aver messo definitivamente quel punto fermo già una settimana prima, ma evidentemente non era così semplice come sperava.

Giorno dopo giorno, quella settimana si era rivelata nient’altro che un accumulo di stress e inquietudine e la ragione era una soltanto, una ragione che era insieme un grosso punto interrogativo. Escludendo le questioni lavorative, non aveva con Shikamaru una conversazione che fosse tale dal giorno in cui si era decisa a metterlo di fronte alla realtà del proprio cuore; non si sarebbe certo aspettata qualcosa di molto diverso, in particolare dopo così poco tempo, ma il silenzio teso e imbarazzato, che calava improvviso a riempire il vuoto tra di loro, lo sguardo che evitava di incrociare troppo a lungo il suo, gli atteggiamenti distaccati, tutto quello era un peso difficile da sopportare, soprattutto se si soffermava a pensare che potessero rappresentare solo un preludio. Seduta sulla fredda gradinata della palestra, Ino avvolse le braccia intorno alle gambe, poggiando il mento sulle ginocchia, le iridi offuscate dall’amarezza. Di fronte a quel casino in cui si era cacciata con le sue stesse mani, buttarsi nel lavoro era paradossalmente un ottimo modo per rilassarsi, benché in quella fase delle indagini il compito che le spettava fosse estremamente delicato; doveva tener d’occhio i movimenti di Sabaku no Gaara cercando di scoprire il più possibile, come per esempio il suo complice e il modo di mettersi in contatto con i suoi fornitori, e non poteva permettersi di insospettirlo, il minimo errore e avrebbe mandato all’aria la fatica di due lunghi mesi. 
Tra il brusio dei ragazzi che chiacchieravano tranquillamente del più e del meno, o tentavano di ripetere in vista dell’ora successiva, e il rumore della palla che volava da una parte all’altra del campo di pallavolo, accompagnata da qualche urlo d’incitamento tra i giocatori, la poliziotta cercò di non perdere di vista lo spacciatore, così da ricondurre la propria mente sul giusto percorso e liberarsi dalla fastidiosa stretta allo stomaco che pensare a Shikamaru le causava. Senza sollevare il capo, posò di nuovo lo sguardo sul ciuffo rosso del ragazzo seduto a diversi metri da lei, due file più in basso; il giovane era circondato da alcuni compagni di classe, ma non concedeva loro molta attenzione, piuttosto sembrava stesse aspettando qualcuno o qualcosa con un certo nervosismo, perché, con le braccia conserte, tormentava una gamba percuotendola ritmicamente con le dita. Ino si rimise in posizione eretta, attese lo scorrere di qualche istante per non rendere troppo insolito il proprio atteggiamento, poi si sedette sul bordo chinando lievemente in avanti il busto e puntellandosi con le mani, in modo da poterlo osservare da una prospettiva migliore; fu così che riuscì a cogliere quale fosse approssimativamente la direzione del suo sguardo e seguendola si ritrovò ad osservare un familiare volto pallido.
Incapace di trattenere lo stupore, sgranò gli occhi e dischiuse le labbra; quando aveva accettato di infiltrarsi nell’istituto, aveva messo in conto tutte le possibilità, tutte tranne quella di dover sospettare anche del nipote del sindaco. Prima di giungere a conclusioni affrettate, però, e far rientrare quel particolare nel novero degli errori ingenui, tentò di valutare con scrupolo la situazione; dall’altra parte della palestra, il ragazzo sedeva su una panchina con il suo consueto album da disegno, e a parte lui c’erano solo Iruka-sensei, in piedi a pochi passi dalla rete per arbitrare la partita, e un altro studente intento forse a fare il tifo per i propri compagni.
La poliziotta recuperò il libro di storia che aveva portato con sé per qualsiasi evenienza ed iniziò a sfogliarlo con finto interesse, scrutando al di là del bordo della copertina che cosa accadesse. La sua attenzione era subito stata catturata da Sai perché era l’unico che appariva indifferente a ciò che lo circondava, interessato solo alla sua matita e al suo foglio, insomma un atteggiamento che poteva giustificare l’irritazione di Gaara se quest’ultimo stava aspettando un segno proprio da lui; tuttavia, non poteva neanche escludere a priori il coinvolgimento del ragazzo smilzo seduto al suo fianco. Attese di ricevere una conferma ai suoi dubbi, in un verso o nell’altro, e quando finalmente vide il disegnatore richiudere l’album, gettare uno sguardo alla gradinata ed alzarsi per poi dirigersi verso gli spogliatoi, accompagnato da uno sbuffo dello spacciatore che controllava dall’inizio di quell’ora e che non tardò a lasciare il suo posto, capì che la sua prima impressione non era sbagliata. Nel momento in cui fu sicura di non essere notata da nessuno dei due, soprattutto da Sai, richiuse il manuale che aveva tra le mani, riabbandonandolo al freddo giaciglio a cui l’aveva sottratto poco prima, si augurò mentalmente buona fortuna e si apprestò a seguirli,   
mettendo su la più convincente maschera da studentessa alla ricerca del bagno che le riusciva. Non poteva affatto immaginare che qualsiasi maschera sarebbe servita a ben poco.
Lo studente dall’insolito incarnato chiaro l’aveva infatti osservata per la maggior parte del tempo, immortalandola attraverso le linee scure tracciate dalla sua mano, spostando ogni tanto lo sguardo da lei a Gaara. Non ci aveva messo molto a capire che lo stesse tenendo d’occhio, deducendone anche che qualcuno le avesse fornito il suo nome, di certo uno studente ignaro di star parlando con una poliziotta e non con una sua coetanea. Per quanto lo riguardava, invece, aveva  compreso la vera identità di Ino da un bel po’, così come quella del loro nuovo professore di matematica; gli era bastato mettere insieme i pezzi, ovvero il loro simultaneo arrivo nell’istituto, guarda caso quando suo zio pressava la polizia affinché facesse qualcosa di più efficace e veloce, i loro contatti furtivi e gli stralci di conversazione che aveva origliato, il tutto supportato da una telefonata di suo zio con un assessore. Ovviamente, l’idea di avvertire anche il collega non l’aveva sfiorato per nulla, un po’ per i suoi motivi personali, un po’ perché aveva intravisto nella faccenda un risvolto divertente, e mentre camminava pochi passi dietro Gaara, sicuro di essere seguito da Ino, ne era ancora più convinto. Quando entrarono nello spogliatoio maschile, lasciò di proposito la porta socchiusa, così da facilitare alla poliziotta il compito di origliare; era a suo modo piacevole giocare a guardie e ladri con la consapevolezza di essere lui stesso a gestire quel gioco ad insaputa dei diretti interessati.
“Perché ci hai messo così tanto ad alzarti da quella panchina?” Lo rimproverò l’altro spacciatore con tono spazientito e sguardo accigliato, contribuendo solo a dilettarlo ancora di più.
“Urgenza artistica.” Si giustificò lui, con l’accenno di un sorrisetto malizioso che rendeva ancora più debole la sua scusante.
Gaara sospirò rassegnato, sperando di liberarsi il più in fretta possibile da quella seccatura che gli era stata affibbiata. 
“Lasciamo perdere…” Mormorò. “Piuttosto, mi ha contattato Sasori l’altro giorno.” Riprese poco dopo incrociando le braccia sul petto. “Per farla breve, dobbiamo incontrarci lunedì prossimo per la consegna.”
“Uhm, capisco. E ci incontriamo sempre qui in palestra nell’ora di educazione fisica?” Domandò Sai, ponendo quel quesito per il terzo partecipante a quella conversazione e non certo per se stesso. 
“Beh, sì, come al solito… non vedo perché tu me lo chieda.” Replicò infatti il ragazzo dai capelli rossi, inarcando le sopracciglia in una espressione interrogativa e leggermente perplessa.  
“Niente, così, magari volevano cambiare…”
“A quanto pare no, ma di questo già avevamo parlato, mi sembra.” Disse Gaara continuando a trovare strane le sue parole, ma non aveva voglia di sprecare altro tempo e fiato a causa sua, già ne aveva sprecato troppo per i suoi gusti. “Comunque questo è quanto.” Si affrettò a concludere.
E prima che potesse compiere un solo passo verso la porta dello spogliatoio, Ino si scostò dallo stipite contro cui si era appiattita e tornò velocemente in palestra. 

Quando era uscita da casa, a Temari era sembrato che quella sera facesse più freddo del solito, ma se sulle prime aveva ritenuto che quell’impressione corrispondesse alla realtà oggettiva, ora che era seduta in un salotto ben riscaldato, di fronte a suo padre che non vedeva da diversi anni e in attesa di suo fratello, si rendeva conto che era legata solo ed esclusivamente al suo stato d’animo. Si sentiva innegabilmente tesa ed inquieta, ma soprattutto aveva una tremenda paura, paura di scoprire come sarebbe andata a finire quella cena, e la situazione peggiorava man mano che il ticchettio dell’orologio scandiva lo scorrere dei minuti, avvicinando il momento in cui Gaara sarebbe arrivato, sempre se fosse arrivato. Strinse un pugno, conficcando le unghie nel palmo della mano; quella possibilità equivaleva a un netto rifiuto e metterla in conto faceva ancora più male, tuttavia il tentativo di scacciarla dalla sua testa aveva sortito scarsi risultati, a quanto pareva.
“Comunque a momenti dovrebbe arrivare, non preoccuparti.” Disse l’avvocato no Sabaku come se avesse intercettato il filo dei pensieri di sua figlia, dopo aver concluso alcune considerazioni sul suo lavoro d’insegnate, su cui si era incentrata buona parte della loro conversazione. “Quando l’ho chiamato, mi ha detto che era con degli amici, ma sarebbe tornato appena possibile. Non mi è sempre facile capire che combini, a causa dei miei impegni lavorativi, ma non è mai capitato che saltasse la cena o cose simili.” Spiegò.
Temari apprezzò lo sforzò di tranquillizzarla, sebbene ci fossero punti che non tornavano, come i presunti amici e il fatto che quella non fosse una cena come tante, ma evitò di sottolinearli, sforzando le labbra in un debole sorriso, e annuì; in fondo, doveva tentare di essere un po’ ottimista, così come cercava di esserlo l’uomo seduto sulla poltrona accanto al camino, anch’egli consapevole degli errori commessi ma con la speranza di poter rimediare.
Calarono alcuni istanti di silenzio, riempiti solo dallo scoppiettio del fuoco, dall’incrocio dei loro sguardi e dai riflessi della fiamma sui lineamenti segnati dall’età e sui capelli rossi di suo padre.
Nel frattempo, davanti alla porta dell’appartamento, Gaara rimaneva immobile accostato al parapetto del ballatoio, fissando inespressivo le venature della superficie di legno, indeciso su cosa fare. Se era giunto fin lì, non era certo perché scalpitava dalla voglia di partecipare a quell’assurda riunione familiare, ma solo perché fuori faceva troppo freddo e non voleva congelarsi continuando a vagare per le strade del quartiere senza una meta, né tanto meno rintanarsi in qualche locale circondato da gente sconosciuta e rumorosa. Forse, avrebbe potuto passare la serata seduto sulle scale, un’alternativa senza dubbio più allettante di dover sopportare la fastidiosa presenza di sua sorella, più di quanto non facesse già a scuola; tuttavia, le conseguenze di un simile gesto sarebbero state quasi sicuramente una discussione con suo padre e una relativa punizione, cose che avevano su di lui lo stesso effetto di un’interrogazione andata male, cioè nullo, ma che in ogni caso preferiva evitare.
Fu quell’ultima considerazione che lo spinse a suonare il campanello.
Quando la domestica gli aprì, senza nemmeno un cenno di saluto le disse lapidario che sarebbe andato direttamente in sala da pranzo ed entrò in casa superandola con aria indifferente. Intendeva ridurre al minimo il tempo del loro incontro e quella rappresentava la prima mossa, la seconda sarebbe stata abbandonare la cena il più in fretta possibile con una scusa qualsiasi. 
Dal momento in cui aveva messo piede nel condominio, o forse dalla stessa telefonata di suo padre, dentro di lui si era messo in moto un meccanismo che tendeva a trasportare tutto su un binario più rassicurante, e quell’ultima pianificazione ne era l’ennesima traccia; affrontare quella situazione era per lui solo svincolarsi da un problema pratico, e non piuttosto essere costretto a confrontarsi in modo diretto con un macigno di solitudine e sofferenza che affondava le radici nella sua infanzia, un macigno che iniziò ben presto a premere contro quello strato di razionalità sotto cui l’aveva inconsciamente seppellito.
Il primo colpo venne dal vederli tutti e due insieme, apparentemente tranquilli e disinvolti, come se non fossero passati anni dal loro precedente incontro; suo padre lasciò che fosse Temari ad entrare per prima e, poggiandole una mano su una spalla, le indicò dove sedersi, ricevendo in cambio quello che Gaara interpretò come un’espressione sorridente ma che in realtà era solo una camuffata smorfia di tensione. 
“Ci è voluto un po’, ma ci siamo tutti.” Disse l’uomo, mentre si accomodava a sua volta, poi li scrutò in silenzio per un po’, cercando le parole giuste per proseguire, commosso dal poter avere per una volta tutte e due i suoi figli a tavola con lui. “So che essere qui insieme oggi non è semplice, ma sono convinto che, se c’è la volontà, non sia mai troppo tardi per riparare ai propri errori.” Continuò, parlando ad entrambi, ma rivolto in primo luogo al ragazzo alla sua destra, che assottigliò lo sguardo in un’espressione torva, perché quegli errori avevano comportato giorni di opprimente silenzio, chiuso nella sua stanza o circondato da domestiche insignificanti.
L’avvocato notò la sua reazione, ma sperò che i fatti potessero contare più delle parole, la stessa speranza che attraversò in quegli istanti l’animo di sua figlia. Prima che potesse aggiungere altro, arrivò la domestica a servirli e gli unici suoni che riempirono la sala furono quelli metallici del vassoio e delle ciotole, accompagnati dalla voce della donna, che terminato il proprio compito tornò subito in cucina.
“Allora, come è andata la giornata a scuola?” Domandò l’uomo quando furono di nuovo soli, tentando di intavolare una conversazione il più normale possibile.
L’unica risposta che ricevette da Gaara fu però un ‘come al solito’ mugugnato, mentre il ragazzo si affrettava a recuperare le bacchette per accontentare il suo stomaco, che all’odore del cibo aveva iniziato a reclamare, e andarsene da lì velocemente; ciò che voleva era rinchiudersi nella sua camera e soffocare nel sonno quel dolore sordo che la premessa di suo padre e l’aria di familiarità della sua domanda tendevano solo a far diventare rumoroso e molesto.
“In effetti, oggi è stata una giornata tranquilla.” Intervenne Temari, nell’intento di evitare che calasse di nuovo un silenzio teso ed improduttivo, e forse a causa dell’ansia che provava non fece particolare attenzione al valore che poteva essere attribuito alle proprie parole. “Non ci sono state interrogazioni, né qualche problema particolare, da come mi hanno riferito i colleghi.” Spiegò, e dopo pochi istanti suo fratello lasciò cadere le posate e con un gesto di stizza si alzò sbattendo la ciotola sul tavolo. Il primo e unico significato che riusciva a dare alle sue frasi e in particolare all’ultima, supportato da momenti in cui l’aveva casualmente sentita chiedere informazioni su di lui ad altri professori, era quello di un’intrusione nella sua vita da parte di una persona che per quanto lo riguardava sarebbe  dovuta rimanerne lontana anni luce, così come ne era rimasta fuori praticamente dal giorno successivo alla sua nascita.  
Mantenne lo sguardo basso, fissando con occhi vuoti il riso caduto fuori dalla scodella, indeciso se dire qualcosa o meno. Potevano fare quello che volevano, mostrarsi pentiti, tentare di ricreare un’atmosfera da famiglia, comportarsi in modo gentile nei suoi confronti, ma la verità restava una e una soltanto: per lui ormai era troppo tardi; aveva trascorso così tanto tempo a logorarsi nel dolore che i loro atteggiamenti e le loro intenzioni apparivano ai suoi occhi false e insignificanti.
Rimanendo in silenzio, lasciò finalmente quella stanza.

Avevano trascorso la serata chiusi in casa, godendosi il dolce tepore diffuso dal riscaldamento e qualche ora libera dai problemi lavorativi e occupata solo da loro due. Erano passati da una tranquilla cena accompagnata da una lunga chiacchierata all’inizio di un film, prima di finire inevitabilmente a baciarsi sul divano e a proseguire tra le lenzuola di un più comodo letto. Tsunade, con il capo poggiato contro il petto di Jiraya, fece salire lentamente una mano dal fianco dell’uomo fino al torace, rassicurata dal suo braccio intorno alle spalle, ricordando con un lieve sorriso i momenti di quella che era stata una piacevole lotta. Il compagno, tutt’altro che addormentato, le sfiorò una guancia con la punta delle dita e strinse la sua mano, fermandola quasi all’altezza del cuore; distolse lo sguardo dal soffitto e incrociò quello nocciola della donna, che al suo movimento aveva istintivamente sollevato il viso verso di lui.
“Pensavo dormissi…” Sussurrò lei, con voce rilassata e ancora un po’ assonnata, e si stupì di scoprire un’espressione insolitamente seria; aggrottò interrogativa le sopracciglia.
“Qualcosa non va?” Gli domandò.
Jiraya la fissò in silenzio per qualche istante. Non era da lui essere teso, tanto più quando era a letto con una donna, ma da quando era cominciata quella serata aveva in mente un preciso progetto e, ora che era giunto il momento di attuarlo, non era più così calmo e sicuro come quando l’aveva ideato. In precedenza avevano già parlato di ciò che intendeva chiederle, ma l’avevano fatto solo per scherzo o comunque non troppo seriamente, come una remota possibilità, difficile da mettere subito in conto dopo che ci avevano messo già tanto per stabilizzare il loro rapporto. Ormai, però, credeva che fosse trascorso tutto il tempo necessario, e sperò che fosse lo stesso anche per Tsunade.
“No, niente.” Disse tentando di rilassarsi, poi avvicinò il volto al suo e la baciò, un breve incontro di labbra e lingue che fu però sufficiente a infondergli un po’ di determinazione.
“Torno subito.” Mormorò, per poi scendere dal letto.
Di nuovo tranquilla, la donna lo lasciò andare e sprofondò con la testa nel cuscino, coprendosi meglio; senza più il calore del corpo di Jiraya a circondarla faceva indubbiamente più freddo, per cui si augurò che tornasse davvero al più presto, cosa che in effetti avvenne. Un debole fruscio e il tintinnio di un paio di chiavi furono gli unici suoni che percepì prima di avvertire le coperte sollevarsi di nuovo e il materasso abbassarsi sotto il peso dell’uomo; ne capì la ragione solo quando, voltandosi verso di lui, si ritrovò a guardare una piccola scatola blu arrotondata, che sortì l’effetto di bloccarle in gola qualsiasi parola. Si limitò quindi a sollevarsi su un braccio, mantenendo con l’altro il lenzuolo intorno al busto, e a posare su di lui gli occhi lievemente sgranati, segno evidente della sua perplessità. L’uomo alzò un angolo della bocca in un incerto sorriso, poi aprì la confezione e le mostrò l’anello in essa contenuto.
“Vuoi sposarmi?” Le chiese senza alcun preambolo, per lui del tutto inutile, e rimase in attesa della sua risposta.
“Jiraya… “ Biascicò Tsunade, tornando a fissarlo con una stretta alla bocca dello stomaco, che finiva per sminuire quella sensazione improvvisa di calore che le aveva invaso il petto.
Nonostante sapesse che l’idea del matrimonio ronzava nella testa dell’uomo così come nella sua da diverso tempo, non si sarebbe aspettata di ricevere la proposta così da un momento all’altro, perché quell’eventualità aveva sempre condiviso il suo spazio con qualche ombra, ombre che a quanto sembrava nell’ultimo periodo in lui si erano dileguate, e troppo immersa nel proprio lavoro non se ne era nemmeno accorta. Era in momenti simili che non sopportava le incombenze della propria professione, così come inconsapevolmente non le sopportava per un altro motivo, un motivo che l’avrebbe aiutata a definire in che cosa si erano trasformate le ombre che si trascinava dietro da anni; ma, in quel frangente, mentre si domandava ancora una volta cosa le impedisse di dire il fatidico sì, non riuscì a farlo affiorare in superficie. Pensò solo a cause che rientravano nel tranquillo campo della razionalità.
“Ecco, io non lo so…” Disse, spezzando il silenzio pesante che si era creato, con il capo ormai basso e il volto coperto dai lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle.
“Credi ancora che sia presto?” Domandò l’uomo atono, dopo aver ingoiato un inevitabile grumo di delusione, che nemmeno il no secco e ben udibile che ricevette come risposta e lo sguardo deciso che Tsunade gli rivolse riuscirono a fargli digerire del tutto, per quanto allontanassero un fantasma da quella camera.
“E allora qual è il problema?” Domandò ancora.
“Non lo so.“ Ripeté lei. “Forse è che in fondo stiamo bene anche così, e non vedo cosa potrebbe cambiare, poi alla nostra età…”
“Quindi ora sarebbe troppo tardi?!” La interruppe Jiraya con un principio d’irritazione nella voce, aggrottando le sopracciglia. “Non è che ci sia un’età precisa per il matrimonio, Tsunade, e quello che cambierebbe è che tu saresti mia moglie, insomma qualcosa di ufficiale e in qualche modo definitivo, che mi permetterebbe anche di tutelarti.” Spiegò tutto d’un fiato, dopo una breve pausa necessaria per non cedere a un tono brusco.
La donna cadde di nuovo nel mutismo, consapevole di essere in fallo, perché incapace di dare una risposta chiara a una proposta che in fondo non le era dispiaciuto sentirsi fare. La risposta che cercava avrebbe potuto suggerirgliela la fitta improvvisa accusata alla parola ‘tutelarti’, ma non fu in grado di spiegarsela razionalmente. Provò un senso di sollievo solo quando Jiraya le posò sulla sua guancia una mano forte e calda, sollevandole leggermente il mento con un dito e offrendole un’espressione seria ma serena.
“Ma soprattutto è perché ti amo, e sarò uno stupido, ma lo voglio scritto anche su un foglio di carta.” Disse deciso, piegando le labbra in un sorriso che sciolse definitivamente la tensione che li aveva avvolti.
“Posso pensarci un po’?” Chiese Tsunade dopo qualche istante. “Il tempo di chiarirmi le idee…” Spiegò, e anche se Jiraya avrebbe preferito un finale diverso per quella conversazione, annuì ugualmente, consapevole che pretendere una certezza subito avrebbe comunque portato a qualcosa che non voleva. Richiuse la scatola blu e la appoggiò sul comodino, sperando di poterla riaprire con più fortuna, poi riabbracciò la donna al suo fianco e si sdraiò di nuovo con lei sul letto, con l’unico intento quella volta di abbandonarsi al sonno.



Note dell'autrice

Dunque, sono passati sei mesi, mi dispiace u_u L'unica nota positiva è che in compenso ho pianificato meglio la seconda parte delle storia, cosa che spero mi aiuterà a scriverla più rapidamente. Questo capitolo è leggermente depressivo, però c'è anche un po' di fluff qua e là , è angst fluff, insomma. Spero vi piaccia^^
Grazie a chi ha recensito e a chi ha messo la fic tra i preferiti o tra i seguitiXD


  
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