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Autore: Smollo05    20/01/2012    1 recensioni
Siamo prigionieri di questo luogo. Prigionieri del tempo. Intrappolati nell’unico singolo instante di cui abbiamo memoria: quello che avrebbe potuto salvarci dall’oblio, quello di una decisione fondamentale. La scelta che ci avrebbe fatti ricordare in eterno.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Christopher von Galn si autodefiniva un free-lance in attesa di essere “lanciato”, un modo più poetico di dire che era uno spiantato – disoccupato, senza un soldo in tasca. Non perché venisse da una famiglia povera, anzi. Suo padre Hans von Galn era uno degli imprenditori più in vista di Berlino. Potete dunque immaginare il colpo che gli venne quando il suo unico figlio gli comunicò l’intenzione di diventare giornalista. Cos’altro poteva fare il suo vecchio se non bloccare i conti a lui intestati e negargli l’accesso alle cassette di sicurezza, per costringerlo a ritornare sulla retta via? Così fece: una telefonata e via, davanti al ragazzo si chiusero a doppia mandata tutte le porte del mondo del lavoro. Diversamente dalle aspettative paterne, aveva resistito più di un anno, ma poi si era rassegnato al fatto che senza soldi né raccomandazione, fare strada sarebbe stato alquanto impossibile. Quando al suo ritorno, il padre gli aveva poi offerto un lavoro, non aveva potuto far altro che accettare. Quello che non accettava era l’essere pagato una miseria per fare gli inventari delle proprietà di famiglia prossime alla vendita, ma non era certo nella posizione adatta a lamentarsi e poi adorava viaggiare. Christopher si infilò le cuffiette dell’ I-Pod e salì sul Taxi, poi con un italiano dal forte accento tedesco ordinò all’autista di portarlo a Villa Sofia, vicino Firenze. Lui annui e ingranò la marcia, mentre il ragazzo sprofondava nel dormiveglia dovuto alla mancanza di sonno.

“Sono 30€”, l’autista gli stava battendo sulla spalla. Batté le palpebre e si riscosse: era arrivato. Nonostante i finestrini sudici, riusciva a vedere distintamente il profilo della villetta immersa nel verde. Allungò due banconote al tassista e scese dall’auto trascinando il pesante borsone fino al cancello corroso dalla ruggine. Armeggiò con una grossa chiave e il ferro si mosse cigolando.. Quello che gli si presentò davanti agli occhi, doveva essere stato, una volta, un giardino ben curato, ma il tempo non aveva avuto pietà del lavoro del giardiniere e neanche le erbacce. Camminò su quello che doveva essere stato un vialetto di ghiaia, dirigendosi alla porta. Girò la seconda chiave nella toppa e spinse il legno massiccio. Subito l’odore di muffa e di vecchio lo investì: era il primo a mettere piede lì dentro da decenni. Perché suo padre aveva aspettato così tanto per buttare giù una casa abbandonata? Cercò inutilmente l’interruttore, la corrente era staccata ,probabilmente era inutilizzata da quando la sua famiglia aveva acquistato la villa. Christopher si rassegnò e afferrò la torcia a dinamo che aveva previdentemente portato. Il fascio di luce si diffuse immediatamente per l’ambiente. L’ingresso dava direttamente nel grande soggiorno. Al centro troneggiava un piano coperto di polvere. Il ragazzo alzò la torcia, illuminando il lampadario di cristallo e il soffitto affrescato, poi il corridoio buio. Lì dovevano esserci le altre camere, ma non si fidò di controllare nell’oscurità. Stese una coperta nell’angolo meno in vista e decise che avrebbe cominciato l’ispezione l’indomani, con la complicità della luce del sole. Con questi pensieri si stese sul suo giaciglio improvvisato e scivolò in un sonno profondo, curandosi prima di lasciare la torcia accesa ad illuminare l’ingresso.

Avevo ascoltato impassibile le parole di Giosuè, impassibile avevo accettato le sue scuse. L’avevo ascoltato dire che era stato ingiusto a parlare così, che gli dispiaceva molto e che forse c’era ancora qualche possibilità di fuga, annuivo ad ogni parola che usciva dalla sua bocca, ma era più per inerzia che per convinzione. Quando alla fine lasciò la stanza,a notte inoltrata, per andare a riposare, rimasi sola. Mi passai ossessivamente le mani sulle orecchie, sugli occhi, sulle tempie. Mi sforzai di non pensare a niente, ma per quanto tentassi, la verità pendeva sempre come una spada di Damocle sulla mia testa, minacciando di schiacciarmi. Mi alzai e mi diressi al pianoforte, nonostante fossero le tre del mattino, nonostante in casa stessero tutti dormendo. Sapevo che quello era l’unico modo per placare le mie inquietudini. Inspirai profondamente e scoprii i tasti. Il panno scivolò silenziosamente a terra, era nudo. Immaginai di spogliarmi anch’io, di svestirmi dai cappotti di paura, dalle camicie di forza. E immaginai di volare via. Lentamente cominciai a suonare. 
   
 
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