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Autore: ObliviateYourMind    21/01/2012    3 recensioni
Victoria è una ragazza che ha realizzato il suo sogno: è la cantante di un famoso gruppo rock. Un giorno, però, un evento inaspettato sconvolge la vita di Vic e i suoi rapporti con le altre persone, portandola a riflettere su se stessa e su tutto ciò che è accaduto.
Che cosa le è successo e che cosa l'ha condotta fino a lì? Sta a voi scoprirlo.
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2
Il ricordo
After everything has changed,
'cause you remind me of a time
when we were so alive
do you remember that?
«Nonna Faith..è...è in coma» riuscì a dire tra i singhiozzi. «I medici credono sia stata colpa del diabete...l'abbiamo trovata io e tua madre per terra, stamattina, e..» si interruppe, provato dall'emozione.
Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso, scendevano lente.
«Ci farebbe piacere se riuscissi a venire al più presto. Forse si riprenderà se...se ci sei tu». Stava quasi sussurrando.
«Certo papà...dove si trova? Prenderò il primo aereo per Denver, domattina» dissi decisa.
«Siamo al St Joseph. Ti aspettiamo, noi...siamo quasi sempre qui» rispose, affranto.
«Ok. Ciao papà, a presto. Ah, ehm...ti voglio bene», ma lui aveva già riattaccato.
Il cellulare cadde a terra con un rumore sordo mentre mi tuffavo tra le braccia di Brian, che nel frattempo era rimasto seduto, immobile.
Il suo bel maglione color verde petrolio cominciò ad  inzupparsi di lacrime e a sporcarsi di mascara. Sentivo le sue mani accarezzarmi la testa dolcemente, lo sentivo sussurrare «Sshh, va tutto bene..tranquilla».
Dio solo sa quanto avrei voluto sollevare la testa, guardarlo negli occhi e dirgli quanto fosse importante per me il fatto che ci fosse lui lì, a consolarmi. Tuttavia non lo feci. Rimasi lì, con la fronte appoggiata alla sua spalla per un tempo interminabile, aspettando pazientemente che le lacrime, imperterrite, smettessero di sgorgare.
Quella notte dormii malissimo.
Feci un incubo: io e Brian ci trovavamo a casa mia, lui era molto arrabbiato. Urlava, incolpandomi della situazione di mia nonna. Diceva che ero stata io, con la mia arroganza e i miei problemi a farla ammalare. Allora io scendevo le scale in tutta fretta cercando i miei genitori, volevo il loro conforto, ma invece di consolarmi, loro mi puntavano il dito contro. Sconvolta, uscivo di casa, e correvo a perdifiato. Lungo la strada incontravo prima David, e poi Luke e poi Matthew, e tutti gridavano a squarciagola “È colpa sua!”, indicandomi e facendo voltare tutti i passanti. Così continuavo a correre, col cuore che mi martellava nel petto, fino all'entrata del parco....e lì mi svegliai.
Avevo il batticuore, ed ero madida di sudore. Scostai la coperta di pile e mi misi seduta, con le mani tra i capelli. 
Io e i ragazzi ci trovavamo in una lussuosa stanza d'albergo, e a giudicare dalla quantità di luce che filtrava attraverso le finestre, doveva essere ormai l'alba.
Cercai con lo sguardo Brian, speranzosa, quando mi ricordai che lui dormiva assieme a Matthew, dietro una parete oltre la quale non riuscivo a vedere. Realizzai di non avere più sonno, perciò cominciai silenziosamente a sistemare l'occorrente per l'imminente partenza. Sarei partita alle dieci dall'aeroporto di Berlino, e avrei viaggiato sola. Questo pensiero mi rattristò moltissimo, ma mi imposi di non pensarci, e di preoccuparmi invece a godermi le ultime ore in Europa, in compagnia dei ragazzi.
In effetti la mattinata trascorse piuttosto velocemente, forse fin troppo. Facemmo colazione insieme, e come al solito Luke e Matt fecero gli scemi lanciando molliche di pane da una parte all'altra del ristorante. Più tardi, tutti optarono per un paio di tuffi in piscina, tutti tranne me e Brian, che invece volle accompagnarmi in camera. Salutai i ragazzi, che furono molto gentili nell'augurarmi buona fortuna, e mi recai al piano superiore assieme a Brian.
Effettuai un controllo dell'ultimo minuto, assicurandomi di non aver dimenticato nulla, e chiamai un taxi, che mi avrebbe scortata fino all'aeroporto.
Brian era in piedi, di fronte a me, lo sguardo assente.
Mi restavano solamente pochi minuti, poi non l'avrei visto per un po', e se c'era una cosa di cui ero certa, era che mi sarebbe mancato moltissimo, indipendentemente dal tempo che avrei trascorso lontana da lui.
Mi avvicinai a lui e lo strinsi in un abbraccio fortissimo. Brian voltò il viso verso il mio e mi baciò. Capii che quei gesti significavano molto per entrambi: non erano necessarie le parole per comunicare, non più. 
Mi avvicinai alla finestra e scostai la tenda per osservare la strada.
«Il taxi è arrivato, io vado...» dissi.
«A presto, Vic. Mi telefonerai quando sarai arrivata a Denver, vero? Guarda che ci conto, eh...»
«Ma certo che ti chiamerò – risposi, soffocando una risatina,- non farai nemmeno in tempo a sentire la mia mancanza, ci rivedremo presto, prestissimo!».
Mi caricai lo zaino in spalla, afferrai la maniglia del trolley ed uscii in corridoio. Mentre mi allontanavo verso l'ascensore, che si trovava dalla parte opposta del piano, gettai qualche rapida occhiata alla porta della nostra camera: Brian era ancora lì, mi seguiva con lo sguardo.
Entrai in ascensore, le porte si chiusero e lui scomparve dalla mia vista.
L'aeroporto era gremito di gente.
Ora che ci pensavo, era davvero buffo sentir parlare tante lingue diverse in un solo luogo, senza riuscire a capirne praticamente neanche una. 
Una donna vestita di rosso dall'aspetto rude mi urtò, facendomi quasi perdere l'equilibrio.
Trascinai con fatica i miei bagagli fino al nastro del check-in. Dopo essermi informata su dove dovessi andare, mi avviai fino all'aereo giusto, e mi imbarcai.
Camminai veloce lungo il corridoio, finché non trovai il posto assegnatomi, e mi accomodai. Dopo qualche minuto, arrivò un ragazzo che si sedette di fianco a me: aveva i capelli rossi, gli occhi azzurri e il viso tempestato di lentiggini, e indossava un maglione verde che pareva essere di due taglie più grandi del necessario. Mi salutò cortesemente, ed io ricambiai, dopodiché mi voltai verso il finestrino e mi rilassai. Era così strano sapere di essere in viaggio verso casa. Non riuscivo ancora a credere che nonna Faith stesse male; ero talmente scioccata da non rendermene conto: per me, lei era ancora sana, così come l'avevo sempre vista. Ma avevo comunque paura. Temevo di non riuscire a riconoscerla, o che lei fosse troppo diversa fisicamente da come la ricordavo.
Però non potevo tirarmi indietro, dovevo vederla, dovevo essere con lei in quel momento così triste per dirle, se fosse stato necessario, quanto fosse stata importante per me.
Il fatto è che non sono mai stata una ragazza semplice, comune forse, ma non semplice.
Il mio stesso nome lo rivela, così come il mio aspetto fisico.
Victoria è uno dei nomi più diffusi negli Stati Uniti, inoltre i miei capelli sono mossi e castani, quindi non proprio inusuali. Forse i miei occhi, che sono verdi, sono l'unica cosa che mi piace veramente di me.
Molti aspetti del mio carattere hanno allontanato alcune persone e ne hanno avvicinate altre.
Alle scuole elementari ero la bambina più timida di tutte, e spesso le maestre scambiavano per presunzione quella che in realtà era semplice insicurezza. Le altre bambine mi accettavano a fatica nei loro gruppi di gioco: come potevo giocare alle bambole con loro quando il mio passatempo preferito era quello di fare la lotta coi maschi?
In effetti non sono mai stata troppo femminile, ora che ci penso. All'età di dodici anni, le mie compagne di classe erano già tutte piccole donne, con le loro forme e i loro pensieri maturi: io ero magra come un chiodo e indossavo solo felpe extra-large e jeans strappati. Loro nel tempo libero uscivano, andavano al cinema e facevano shopping. Io ascoltavo musica e disegnavo, nella solitudine della mia cameretta. Potrà sembrare strano, ma ho sempre preferito la compagnia delle voci dei miei cantanti preferiti rispetto a quella dei miei coetanei. I miei cd erano sempre lì, con le loro parole e melodie adatte ad ogni mio stato d'animo; i ragazzi erano superficiali, strafottenti e menefreghisti.
In particolare, nutrivo una smodata passione per una band, i Paramore.
Le loro canzoni mi emozionavano come niente prima d'allora. Amavo tutto di quel gruppo: dalla potente voce di Hayley Williams ai suoi fiammanti capelli rossi, dal carisma di Jeremy alla simpatia di Josh e Zac. Non passava giorno in cui non li ascoltassi: in autobus, durante l'intervallo a scuola, mentre facevo la doccia... potrebbe sembrare strano in effetti idolatrare in questo modo un gruppo musicale; il fatto è che per me loro non erano un semplice gruppo musicale. Erano i miei migliori amici, coloro sui quali avrei sempre potuto contare; oltre nonna Faith, ovviamente.
Comunque, il mio interesse per la musica si tramutò in passione solo quando, insieme alla mia migliore amica, decisi di iscrivermi ad un corso di chitarra che si sarebbe tenuto nella mia scuola. Avevo dodici anni e tanti sogni da realizzare. Durante quel corso, oltre a suonare, il nostro professore ci insegnò anche a cantare. Lui, che era un uomo fantastico in tutti i sensi, un giorno mi disse che secondo lui quella era la mia strada, e che con un po' di studio avrei fatto grandi progressi. Lì mi si aprì un mondo. Mi resi conto che quando cantavo il mondo non esisteva più. C'eravamo solo io e la mia voce, protagoniste indiscusse di un'esistenza in cui ero io la più spavalda, la più simpatica, la meno timida di tutti. Quella sensazione di onnipotenza però, purtroppo, non durava a lungo, in quanto l'atmosfera a casa mia era alquanto tesa. I miei genitori erano sempre in contrasto e a causa di tutta la rabbia che accumulavano durante la giornata, ero io quella che ci rimetteva. Non dimenticherò mai le continue sgridate, i litigi, le botte. In quei momenti mio padre mi guardava furioso con gli occhi sgranati, e niente e nessuno poteva fermarlo quando decideva di punirmi. Mia madre è sempre stata molto remissiva, ha sempre obbedito agli ordini di mio padre senza mai opporre resistenza. La mia unica colpa era quella di avere sempre la testa tra le nuvole. Lui è una persona così razionale da non essere mai riuscito a comprendermi per davvero.
Ma ecco che lì c'era lei, la nonna.
Il rapporto che avevo con mio papà era esattamente l'opposto di quello che condividevo con lei.
Nonna Faith abitava nell'appartamento sotto il nostro, a Denver, assieme a mio nonno.
Ogni sera prima di andare a dormire, scendevo le scale tutta eccitata e restavo assieme a lei per quello che mi sembrava sempre troppo poco tempo. Insieme guardavamo la televisione, ricamavamo, collezionavamo figurine e giocavamo a carte. Ricordo ancora mio nonno Philip, che se ne stava spaparanzato sulla sua poltrona di pelle nera e ci guardava soddisfatto da un angolo del salotto. Ogni qualvolta mio padre mi sgridava, io sapevo di poter contare su mia nonna. Scappavo via da lui correndo, in lacrime, e allora lei allungava le braccia verso di me e mi faceva sedere sulle sue ginocchia, sussurrandomi dolcemente: «Non ti preoccupare. Qualsiasi cosa succeda, tu sai di poter contare su di me». Ed io sapevo che era la pura verità.
La musica e mia nonna erano i miei punti di riferimento, la luce alla quale potevo affidarmi nei momenti più bui.
Non vedo l'ora di arrivare a Denver. Non ce... la faccio... più...
Sbarrai gli occhi, e la luce abbagliante dei neon mi accecò. Mi ero addormentata profondamente. Sentii la voce stridula della hostess e il cigolio delle ruote del carrello che avanzava lungo il corridoio. Ormai era pomeriggio inoltrato: avevo saltato il pranzo ed ero affamatissima.
Mangiai con appetito e sfogliai una rivista nella quale trovai un piccolo articolo che parlava di noi. Il ragazzo dai capelli rossi seduto accanto a me estrasse un lettore mp3 da una tasca dei jeans strappati, il che mi fece ricordare che anch'io avevo con me l'iPod. Lo cercai nella tasca della giacca e ascoltai i Paramore per un paio d'ore. Il resto del tempo trascorse piuttosto lentamente; ormai ero esausta e non vedevo l'ora di atterrare. Finalmente, dopo quello che parve un tempo interminabile, il comandante annunciò l'imminente atterraggio nell'aeroporto di Denver. Eccitata ma al tempo stesso timorosa, mi preparai a scendere. Camminando velocemente, cercai i miei bagagli sul nastro: per fortuna c'erano ancora tutti. Mi sentivo leggermente più tranquilla, ma non troppo: di lì a pochi minuti avrei rivisto mio padre, Sean, dopo molto tempo. Feci scorrere il mio trolley rosso lungo il vasto salone dell'aeroporto, fino a trovarmi sulla soglia affollata. Allungai il collo sperando di intravedere un viso familiare. Eccolo. Mio padre mi stava aspettando, in piedi, con la schiena appoggiata alla parete grigio opaco dell'edificio. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i suoi capelli sembravano più bianchi dell'ultima volta, il viso pareva stanco. Indossava un parka color verde militare e un paio di pantaloni marroni. Lentamente, facendomi largo tra la folla, mi avvicinai a lui.
«Papà?» lo chiamai con voce flebile. Non ero sicura mi avesse sentita.
Ma lui alzò il capo e mi fissò dritto negli occhi, e un radioso sorriso gli si dipinse in volto.
«Ciao, Vic»
Lo presi a braccetto e, insieme, ci incamminammo verso il taxi, che ci stava aspettando sul ciglio della strada trafficata.
Non era necessario parlare; entrambi capimmo quanto l'altro fosse felice di trovarsi lì, in quel preciso momento.

After everything has changed,

'cause you remind me of a time

when we were so alive

do you remember that?

 

 

«Nonna Faith..è...è in coma» riuscì a dire tra i singhiozzi.

«I medici credono sia stata colpa del diabete...l'abbiamo trovata io e tua madre per terra, stamattina, e..» si interruppe, sopraffatto dall'emozione. 

Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso, scendevano lente.

«Ci farebbe piacere se riuscissi a venire al più presto. Forse si riprenderà se...se ci sei tu». Stava quasi sussurrando.

«Certo papà...dove si trova? Prenderò il primo aereo per Denver, domattina» dissi decisa.

«Siamo al St Joseph. Ti aspettiamo, noi...siamo quasi sempre qui» rispose, affranto.

«Ok. Ciao papà, a presto. Ah, ehm...ti voglio bene», ma lui aveva già riattaccato.

Il cellulare cadde a terra con un rumore sordo mentre mi tuffavo tra le braccia di Brian, che nel frattempo era rimasto seduto, immobile. Il suo bel maglione color verde petrolio cominciò ad  inzupparsi di lacrime e a sporcarsi di mascara. Sentivo le sue mani accarezzarmi la testa dolcemente, lo sentivo sussurrare «Sshh, va tutto bene..tranquilla».

Dio solo sa quanto avrei voluto sollevare la testa, guardarlo negli occhi e dirgli quanto fosse importante per me il fatto che ci fosse lui lì, a consolarmi. Tuttavia non lo feci. Rimasi lì, con la fronte appoggiata alla sua spalla per un tempo interminabile, aspettando pazientemente che le lacrime, imperterrite, smettessero di sgorgare.



Quella notte dormii malissimo. Feci un incubo: io e Brian ci trovavamo a casa mia, lui era molto arrabbiato. Urlava, incolpandomi della situazione di mia nonna. Diceva che ero stata io, con la mia arroganza e i miei problemi a farla ammalare. Allora io scendevo le scale in tutta fretta cercando i miei genitori, volevo il loro conforto, ma invece di consolarmi, loro mi puntavano il dito contro. Sconvolta, uscivo di casa, e correvo a perdifiato. Lungo la strada incontravo prima David, e poi Luke e poi Matthew, e tutti gridavano a squarciagola “È colpa sua!”, indicandomi e facendo voltare tutti i passanti. Così continuavo a correre, col cuore che mi martellava nel petto, fino all'entrata del parco....e lì mi svegliai.

Avevo il batticuore, ed ero madida di sudore. Scostai la coperta di pile e mi misi seduta, con le mani tra i capelli. Io e i ragazzi ci trovavamo in una lussuosa stanza d'albergo, e a giudicare dalla quantità di luce che filtrava attraverso le finestre, doveva essere ormai l'alba. Cercai con lo sguardo Brian, speranzosa, quando mi ricordai che lui dormiva assieme a Matthew, dietro una parete oltre la quale non riuscivo a vedere. Realizzai di non avere più sonno, perciò cominciai silenziosamente a sistemare l'occorrente per l'imminente partenza. Sarei partita alle dieci dall'aeroporto di Berlino, e avrei viaggiato sola. Questo pensiero mi rattristò moltissimo, ma mi imposi di non pensarci, e di preoccuparmi invece a godermi le ultime ore in Europa, in compagnia dei ragazzi.

In effetti la mattinata trascorse piuttosto velocemente, forse fin troppo. Facemmo colazione insieme, e come al solito Luke e Matt fecero gli scemi lanciando molliche di pane da una parte all'altra del ristorante. Più tardi, tutti optarono per un paio di tuffi in piscina, tutti tranne me e Brian, che invece volle accompagnarmi in camera. Salutai i ragazzi, che furono molto gentili nell'augurarmi buona fortuna, e mi recai al piano superiore assieme a Brian.Effettuai un controllo dell'ultimo minuto, assicurandomi di non aver dimenticato nulla, e chiamai un taxi, che mi avrebbe scortata fino all'aeroporto.



Brian era in piedi, di fronte a me, lo sguardo assente.Mi restavano solamente pochi minuti, poi non l'avrei visto per un po', e se c'era una cosa di cui ero certa, era che mi sarebbe mancato moltissimo, indipendentemente dal tempo che avrei trascorso lontana da lui.Mi avvicinai a lui e lo strinsi in un abbraccio fortissimo. Brian voltò il viso verso il mio e mi baciò. Capii che quei gesti significavano molto per entrambi: non erano necessarie le parole per comunicare, non più. Mi avvicinai alla finestra e scostai la tenda per osservare la strada.«Il taxi è arrivato, io vado...» dissi.

«A presto, Vic. Mi telefonerai quando sarai arrivata a Denver, vero? Guarda che ci conto, eh...»

«Ma certo che ti chiamerò – risposi, soffocando una risatina,- non farai nemmeno in tempo a sentire la mia mancanza, ci rivedremo presto, prestissimo!».

Mi caricai lo zaino in spalla, afferrai la maniglia del trolley ed uscii in corridoio. Mentre mi allontanavo verso l'ascensore, che si trovava dalla parte opposta del piano, gettai qualche rapida occhiata alla porta della nostra camera: Brian era ancora lì, mi seguiva con lo sguardo. Entrai in ascensore, le porte si chiusero e lui scomparve dalla mia vista.



L'aeroporto era gremito di gente.Ora che ci pensavo, era davvero buffo sentir parlare tante lingue diverse in un solo luogo, senza riuscire a capirne praticamente neanche una. Una donna vestita di rosso dall'aspetto rude mi urtò, facendomi quasi perdere l'equilibrio. Trascinai con fatica i miei bagagli fino al nastro del check-in. Dopo essermi informata su dove dovessi andare, mi avviai fino all'aereo giusto, e mi imbarcai.

Camminai veloce lungo il corridoio, finché non trovai il posto assegnatomi, e mi accomodai. Dopo qualche minuto, arrivò un ragazzo che si sedette di fianco a me: aveva i capelli rossi, gli occhi azzurri e il viso tempestato di lentiggini, e indossava un maglione verde che pareva essere di due taglie più grandi del necessario. Mi salutò cortesemente, ed io ricambiai, dopodiché mi voltai verso il finestrino e mi rilassai.  

Era così strano sapere di essere in viaggio verso casa. Non riuscivo ancora a credere che nonna Faith stesse male; ero talmente scioccata da non rendermene conto: per me, lei era ancora sana, così come l'avevo sempre vista. Ma avevo comunque paura. Temevo di non riuscire a riconoscerla, o che lei fosse troppo diversa fisicamente da come la ricordavo.Però non potevo tirarmi indietro, dovevo vederla, dovevo essere con lei in quel momento così triste per dirle, se fosse stato necessario, quanto fosse stata importante per me.



Il fatto è che non sono mai stata una ragazza semplice, comune forse, ma non semplice. Il mio stesso nome lo rivela, così come il mio aspetto fisico. Victoria è uno dei nomi più diffusi negli Stati Uniti, inoltre i miei capelli sono mossi e castani, quindi non proprio inusuali. Forse i miei occhi, che sono verdi, sono l'unica cosa che mi piace veramente di me. Molti aspetti del mio carattere hanno allontanato alcune persone e ne hanno avvicinate altre. Alle scuole elementari ero la bambina più timida di tutte, e spesso le maestre scambiavano per presunzione quella che in realtà era semplice insicurezza. Le altre bambine mi accettavano a fatica nei loro gruppi di gioco: come potevo giocare alle bambole con loro quando il mio passatempo preferito era quello di fare la lotta coi maschi?In effetti non sono mai stata troppo femminile, ora che ci penso.

All'età di dodici anni, le mie compagne di classe erano già tutte piccole donne, con le loro forme e i loro pensieri maturi: io ero magra come un chiodo e indossavo solo felpe extra-large e jeans strappati. Loro nel tempo libero uscivano, andavano al cinema e facevano shopping. Io ascoltavo musica e disegnavo, nella solitudine della mia cameretta. Potrà sembrare strano, ma ho sempre preferito la compagnia delle voci dei miei cantanti preferiti rispetto a quella dei miei coetanei. I miei cd erano sempre lì, con le loro parole e melodie adatte ad ogni mio stato d'animo; i ragazzi erano superficiali, strafottenti e menefreghisti.In particolare, nutrivo una smodata passione per una band, i Paramore.

Le loro canzoni mi emozionavano come niente prima d'allora. Amavo tutto di quel gruppo: dalla potente voce di Hayley Williams ai suoi fiammanti capelli rossi, dal carisma di Jeremy alla simpatia di Josh e Zac. Non passava giorno in cui non li ascoltassi: in autobus, durante l'intervallo a scuola, mentre facevo la doccia... potrebbe sembrare strano in effetti idolatrare in questo modo un gruppo musicale; il fatto è che per me loro non erano un semplice gruppo musicale. Erano i miei migliori amici, coloro sui quali avrei sempre potuto contare; oltre nonna Faith, ovviamente.


Comunque, il mio interesse per la musica si tramutò in passione solo quando, insieme alla mia migliore amica, decisi di iscrivermi ad un corso di chitarra che si sarebbe tenuto nella mia scuola. Avevo dodici anni e tanti sogni da realizzare. Durante quel corso, oltre a suonare, il nostro professore ci insegnò anche a cantare. Lui, che era un uomo fantastico in tutti i sensi, un giorno mi disse che secondo lui quella era la mia strada, e che con un po' di studio avrei fatto grandi progressi. Lì mi si aprì un mondo. Mi resi conto che quando cantavo il mondo non esisteva più. C'eravamo solo io e la mia voce, protagoniste indiscusse di un'esistenza in cui ero io la più spavalda, la più simpatica, la meno timida di tutti. Quella sensazione di onnipotenza però, purtroppo, non durava a lungo, in quanto l'atmosfera a casa mia era alquanto tesa. I miei genitori erano sempre in contrasto e a causa di tutta la rabbia che accumulavano durante la giornata, ero io quella che ci rimetteva. Non dimenticherò mai le continue sgridate, i litigi, le botte. In quei momenti mio padre mi guardava furioso con gli occhi sgranati, e niente e nessuno poteva fermarlo quando decideva di punirmi. Mia madre è sempre stata molto remissiva, ha sempre obbedito agli ordini di mio padre senza mai opporre resistenza. La mia unica colpa era quella di avere sempre la testa tra le nuvole. Lui è una persona così razionale da non essere mai riuscito a comprendermi per davvero.



Ma ecco che lì c'era lei, la nonna. Il rapporto che avevo con mio papà era esattamente l'opposto di quello che condividevo con lei. Nonna Faith abitava nell'appartamento sotto il nostro, a Denver, assieme a mio nonno.

Ogni sera prima di andare a dormire, scendevo le scale tutta eccitata e restavo assieme a lei per quello che mi sembrava sempre troppo poco tempo. Insieme guardavamo la televisione, ricamavamo, collezionavamo figurine e giocavamo a carte. Ricordo ancora mio nonno Philip, che se ne stava spaparanzato sulla sua poltrona di pelle nera e ci guardava soddisfatto da un angolo del salotto. Ogni qualvolta mio padre mi sgridava, io sapevo di poter contare su mia nonna. Scappavo via da lui correndo, in lacrime, e allora lei allungava le braccia verso di me e mi faceva sedere sulle sue ginocchia, sussurrandomi dolcemente: «Non ti preoccupare. Qualsiasi cosa succeda, tu sai di poter contare su di me». Ed io sapevo che era la pura verità. La musica e mia nonna erano i miei punti di riferimento, la luce alla quale potevo affidarmi nei momenti più bui. Non vedo l'ora di arrivare a Denver. Non ce... la faccio... più...



Sbarrai gli occhi, e la luce abbagliante dei neon mi accecò. Mi ero addormentata profondamente.

Sentii la voce stridula della hostess e il cigolio delle ruote del carrello che avanzava lungo il corridoio. Ormai era pomeriggio inoltrato: avevo saltato il pranzo ed ero affamatissima. Mangiai con appetito e sfogliai una rivista nella quale trovai un piccolo articolo che parlava di noi. Il ragazzo dai capelli rossi seduto accanto a me estrasse un lettore mp3 da una tasca dei jeans strappati, il che mi fece ricordare che anch'io avevo con me l'iPod. Lo cercai nella tasca della giacca e ascoltai i Paramore per un paio d'ore.

Il resto del tempo trascorse piuttosto lentamente; ormai ero esausta e non vedevo l'ora di atterrare. Finalmente, dopo quello che parve un tempo interminabile, il comandante annunciò l'imminente atterraggio nell'aeroporto di Denver. Eccitata ma al tempo stesso timorosa, mi preparai a scendere. Camminando velocemente, cercai i miei bagagli sul nastro: per fortuna c'erano ancora tutti. Mi sentivo leggermente più tranquilla, ma non troppo: di lì a pochi minuti avrei rivisto mio padre, Sean, dopo molto tempo. Feci scorrere il mio trolley rosso lungo il vasto salone dell'aeroporto, fino a trovarmi sulla soglia affollata. Allungai il collo sperando di intravedere un viso familiare. Eccolo. Mio padre mi stava aspettando, in piedi, con la schiena appoggiata alla parete grigio opaco dell'edificio. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i suoi capelli sembravano più bianchi dell'ultima volta, il viso pareva stanco. Indossava un parka color verde militare e un paio di pantaloni marroni. Lentamente, facendomi largo tra la folla, mi avvicinai a lui.

«Papà?» lo chiamai con voce flebile. Non ero sicura mi avesse sentita.

Ma lui alzò il capo e mi fissò dritto negli occhi, e un radioso sorriso gli si dipinse in volto.

«Ciao, Vic»

Lo presi a braccetto e, insieme, ci incamminammo verso il taxi, che ci stava aspettando sul ciglio della strada trafficata. Non era necessario parlare; entrambi capimmo quanto l'altro fosse felice di trovarsi lì, in quel preciso momento.

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è Franklin dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, ad eccezione dei Paramore.

 

Angolo dell'autrice:

Ciao a tutti, eccomi qua con il secondo capitolo della storia! :) Stavolta ho avuto qualche problema con l'impaginazione, per cui mi scuso se alcuni paragrafi sono confusionari.

Spero vi piaccia! Come sempre, i commenti e le recensioni sono super gradite, ovviamente anche le critiche, purché siano costruttive :D

a presto!

Giulia

ps: grazie mille a chi ha recensito il primo capitolo e mi ha spronato a continuare!



   
 
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