Capitolo
7
“Allora
iniziamo???!” Chiese Kushina trovandosi completamente immersa nell’oscurità,
visto che per la sua idea le candele doveva stare spente, e cercando di
mantenere il lieve contatto visivo con Minato.
“Si..
però prima avrei una richiesta da farti” Disse con la voce tremante il giovane
che, avendo abituato gli occhi al buio, riusciva a scorgere molto bene la
ragazza che aveva di fronte; l’unica cosa che mancava erano i colori.
“Certo
dimmi pure.” Fece lei lanciandogli un cuscino e sperando di beccarlo, doveva
avere la certezza che fosse lì e che non se la stava magari svignando. Il
cuscino tornò indietro poco più tardi colpendola in piena faccia e provocando
da parte di lei tante ma tante lamentele.
“Guarda
che quella che mi ha lanciato un cuscino per prima sei stata tu.” Disse con
voce inflessibile il ragazzo.
“Io??
E tu mi accusi così senza averne le prove? Metti che sia stato un fantasma.”
Rise lei quando sentì il sangue nelle vene raggelarsi. Aveva sentito una mano
accarezzarle il collo.. Kushina stai
calma capito? Quella a pensare era la parte più razionale che puntualmente
non ascoltava.
“Kushina
tutto bene?? Ti sei zittita all’improvviso e dai non farmi preoccupare.. Con
tutti i fantasmi che stanno in giro qui.” Proferì la tenera voce di Minato che
anche in quel frangente sapeva come mantenersi calma.
“Ha..hai
d..detto fa..fanta..fantasmi?” Balbettò la rossa
tutta tremante.
“Ne
hai parlato tu stessa e pensavo avessi capito in che sta la straordinarietà di
questa casa.” Sorrise il biondo al buio e si alzò in piedi dirigendosi verso la
porta senza che però la nuova coinquilina lo potesse scorgere. Kushina infatti
si era chiusa in se stessa portando a se ogni parte del suo corpo.
“Ma..
ma io scherzavo.. Aaaaaaaah! Mi ha sfiorato di nuovooo!” Urlò la ragazza alzandosi di scatto quasi fosse
stata punta da un’ape e urtando in qualcosa, no meglio dire in qualcuno. “Ma
Minato.. Eri tu!”Urlò adesso rabbiosa come una furia e accecata dalla vendetta.
Infatti poco più tardi la sanguinaria si fece valere per il suo appellativo.
“Ahia.”
Protestò Minato portandosi le mani al capo dolorante.
“Te
lo meriti.” Disse risoluta la ragazza andandogli vicino e facendolo sedere
accanto a lei.
“Voglio
raccontarti una storia.. per testarti.” Sciolse così l’abbraccio.
“testarmi?”
Domandò interrogativa. Mi sa che se ne è
uscito di testa. E le scappò un risolino fra i denti.
“Già
la prima prova è stata un danno. Vuoi o no mettere in atto la tua –favolosa-
idea? Beh voglio vedere quanto sei coraggiosa.” Le spiegò il biondo
afferrandole le mani e guardandola negli occhi per quanto era possibile.
“Ma
io stavo recitando.. Volevo vedere come avresti reagito tu.” Trovò una scusante
vecchia come il mondo e scoppiò in una risata che fece un’eco rumorosissima.
“Si
si come no.” Parlò guardandola di sbieco “Beh voglio raccontarti una storia …” disse
velatamente.
“Avanti
ci sto.” Proferì la rossa mostrandosi sicura di se.
“Bene..
ascolta attentamente allora perché riguarda anche questa casa e chi ci abitò
molti anni addietro.. E solo una persona la mise per iscritto e venne prese per
pazzo..E’ molto diabolico sai.. Il titolo con il quale fu reso poi pubblico e
diffuso come un racconto -inventato- è –Il Barile di Amontillado-” Fece una
pausa e iniziò il suo racconto. Kushina tremava.. Quel ragazzo mostrava certi
aspetti di se.. Minato prese un libro e iniziò la sua lettura.
“La miriade di
offese di Fortunato le avevo sopportate come meglio avevo potuto, ma quando
arrivò all'oltraggio giurai di vendicarmi.
Voi, che ben conoscete la natura della mia anima, non supporrete che io mi
sfogassi in minacce. Finalmente volevo vendicarmi; questo era un punto fermo,
ma il modo con cui avrei attuato questo proposito escludeva ogni idea di
rischio. Volevo, non soltanto, punire, ma punire rimanendo impunito. Un torto
non può essere risarcito se il prezzo pagato ricade su chi si vendica. Del pari
non è riparato quando il vendicatore manca di manifestarsi come tale a colui
che ha fatto il torto.
Si deve sapere che, né con parole né con fatti, detti mai modo a Fortunato di
dubitare della mia benevolenza. Continuai, come volevo,a sorridergli ed egli
non si accorgeva che il mio sorriso ora era suscitato dal pensiero che sarebbe
stato immolato. Aveva un punto debole - questo Fortunato - anche se per altri
aspetti era un uomo da rispettare e perfino da temere. Si vantava di essere
grande conoscitore di vini. Pochi italiani sono veri virtuosi in
materia. Per la maggior parte il loro entusiasmo serve solo per trovare tempo
ed opportunità per imbrogliare i milionari inglesi e austriaci. Per i quadri e
i gioielli, Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano, ma in
materia di vecchi vini non mentiva. Sotto questo aspetto io non differivo molto
da lui; ero esperto di annate italiane di vini e ne compravo largamente ogni
volta che potevo.
Era quasi buio, quella sera, al colmo delle follie di Carnevale, quando
incontrai il mio amico. Mi si avvicinò con un calore eccessivo perché aveva
bevuto molto. L'uomo era in maschera. Aveva un abito attillato, a strisce, e in
capo un cappello a cono con campanellini. Fui così contento di vederlo che
pensavo che non avrei più smesso di stringergli forte la mano.
"Mio caro Fortunato, gli dissi, "sono felice di averla incontrata.
Quanto sta bene oggi! Ma ho ricevuto un barile di qualcosa che passa per Amontillado, ma ho i miei dubbi."
"Come?", disse lui, "Amontillado Un
barile? Impossibile! E nel bel mezzo del Carnevale!"
"Ho i miei dubbi", replicai, "e sono stato così sciocco da
pagare il pieno prezzo dell'Amontillado senza
consultarla in proposito. Lei non era reperibile ed avevo paura di perdere un
affare."
"Amontillado!"
"Ho i miei dubbi."
"Amontillado!"
"Debbo chiarirli."
"Amontillado!"
"Dato che lei è occupata, sto andando da Luchesi.
Se c'è uno che può dare un giudizio, questo è lui. Saprà consigliarmi."
"Luchesi non è capace di distinguere un Amontillado da uno Sherry."
"Eppure certi sciocchi sostengono che ha un palato che vale il suo."
"Venga, andiamo."
"Dove?"
"Nelle sue cantine."
"Amico mio, proprio no; non voglio approfittare della sua cortesia.
Mi rendo conto che lei ha un impegno. Luchesi..."
"Non ho impegni... Andiamo!"
"Ancora no, amico mio. Non è tanto per l'impegno, quanto per il
raffreddore dal quale la vedo affetta. Le cantine sono insopportabilmente umide
e incrostate di salnitro."
"Andiamo ugualmente. Il raffreddore è proprio cosa da nulla. Amontillado! L'hanno raggirata. Per quanto riguarda Luchesi, non sa distinguere uno Sherry da un Amontillado!"
Detto questo, Fortunato si impadronì del mio braccio; misi una maschera di seta
nera sul viso e, avvolto in un roquelaire, mi lasciai
trascinare verso il mio palazzo.
Non c'erano servi in casa; s'erano tutti dileguati per godersi il Carnevale.
Avevo detto loro che non sarei tornato fino al mattino e avevo esplicitamente
vietato loro di allontanarsi dalla casa. Tali ordini erano sufficienti, come
ben sapevo, per garantire la loro immediata scomparsa non appena avessi voltato
le spalle.
Sfilai due torce dal loro sostegno e dandone una a Fortunato, lo pilotai
attraverso una serie di stanze fino al passaggio a volta che immetteva nelle
cantine. Scesi per una lunga scala a chiocciola, raccomandandogli di stare
attento nel seguirmi. Arrivammo finalmente ai piedi della scala e ci ritrovammo
insieme sul suolo umido delle catacombe dei Montresors.
L'andatura del mio amico era traballante e i campanellini del suo cappello tintinnavano
mentre avanzava a grandi passi.
"Il barile?", chiese.
"È più in là", dissi, "ma guardi le bianche ragnatele come
brillano sulle pareti di questa grotta!"
Si volse verso di me e mi guardò negli occhi con lo sguardo acquoso
dell'ubriaco.
"Salnitro?", domandò dopo un po'.
"Salnitro", risposi, "Da quanto tempo ha questa tosse?"
"Ugh! Ugh! Ugh! Ugh! Ugh! Ugh! Ugh!
Ugh! Ugh! Ugh!.."
Il
mio povero amico non riuscì a rispondermi per molti minuti.
"Non è niente", disse alla fine.
"Venga", dissi con decisione, "torniamo indietro, la sua salute
è preziosa. Lei è ricco, rispettato, ammirato, amato; è felice come io lo ero
una volta. E un uomo di cui si sentirebbe la mancanza. Io non ho problemi.
Torniamo si ammalerà e non voglio averne la responsabilità. D'altra parte c'è Luchesi..."
"Basta!", disse, "la tosse non è niente, non mi ucciderà. Non
morirò certo di tosse."
"Vero, vero", risposi, "ed io non voglio certo allarmarla senza
ragione, ma deve essere cauto. Un sorso di questo Medoc
ci difenderà dall'umidità."
A questo punto feci saltare il collo di una bottiglia che avevo preso da una
lunga fila di sorelle che giacevano nella muffa.
"Beva", dissi porgendogli il vino. Egli lo portò alle labbra con uno
sguardo avido. Fece una pausa e s'inchinò familiarmente verso di me, mentre i
campanellini suonavano.
"Bevo", disse, "a quanti sono sepolti intorno a noi."
"Ed io alla sua lunga vita."
Di nuovo mi prese il braccio ed andammo avanti.
"Queste grotte", disse "sono estese."
"I Montresors", risposi, "furono una
grande e numerosa famiglia."
"Ho dimenticato il suo stemma."
"Un grande piede umano d'oro, in campo azzurro; il piede schiaccia un
serpente rampante che gli morde il tallone."
"Ed il motto?"
"Nemo me impune lacessit."
"Bene!", disse.
Il vino gli brillava negli occhi ed i campanelli suonavano. La mia
immaginazione si scaldava con il Medoc. Dopo essere
passati attraverso lunghe pareti di ossa accatastate, mescolate a barili e
botti, giungemmo ai più remoti recessi delle catacombe. Mi fermai di nuovo e mi
presi la libertà di afferrare Fortunato per un braccio al di sopra del gomito.
"Il salnitro!", dissi, "guardi, aumenta. Si attacca alle volte
come muschio. Siamo sotto il letto del fiume. Le gocce di umidità penetrano
nelle ossa. Venga, torniamo, prima che sia troppo tardi. La sua tosse..."
"Non è nulla", disse, "andiamo avanti. Ma prima un'altra sorsata
di Medoc."
Spezzai il collo a una bottiglia di De Grave e, gliela allungai. La vuotò tutta
d'un fiato. I suoi occhi brillavano di una luce feroce. Rise e lanciò la bottiglia
verso l'alto con gesti che io non capivo.
Lo guardai sorpreso. Ripeté il movimento - un movimento grottesco.
"Non capisce?", mi disse.
"No", risposi.
"Allora lei non è della confraternita?"
"Come?"
"Non è massone."
"Sì, sì", dissi, "sì, sì."
"Lei? Impossibile. Un massone?"
"Un massone", replicai.
"il segno", disse, "un segno."
"E questo", risposi, estraendo una cazzuola dalle pieghe del mio roquelaire."
"Lei scherza", disse, arretrando di qualche passo, "ma andiamo
ad assaggiare l'Amontillado!"
"E sia", dissi, riponendo l'attrezzo sotto il mantello ed offrendogli
di nuovo il braccio. Vi si appoggiò pesantemente. Continuammo la nostra strada
in cerca dell'Amontillado. Passammo sotto basse
arcate, scendemmo, salimmo, scendemmo di nuovo fino ad arrivare a una profonda
cripta nella quale l'aria viziata faceva rosseggiare più che splendere le
torce. All'estremità della cripta ne apparve un'altra ancora più angusta, le
cui pareti erano tappezzate di resti umani, accatastati nella grotta alla
maniera in uso delle grandi catacombe di Parigi. Tre lati di questa cripta
interna erano così decorati; dalla quarta parete le ossa erano state tirate giù
e giacevano sparpagliate per terra, formando in unpunto
un mucchio di una certa altezza. Dentro la parete così liberata dalle ossa
vedemmo una nicchia ancora più interna, o meglio un recesso profondo meno di un
metro e mezzo, largo un metro e alto circa due. Non sembrava fosse stata
costruita con un preciso scopo, ma che fosse piuttosto formata casualmente
dall'intervallo tra due dei colossali supporti della volta delle catacombe e la
parete di fondo era costituita da uno dei muri perimetrali di solido granito.
Inutilmente Fortunato, sollevando la torcia ormai fioca, tentava di
esaminare il fondo di questo recesso. La debole luce ormai alla fine non ci
consentiva di vedere.
"Proceda", dissi, "qui dentro c'è l'Amontillado.
In quanto a Luchesi..."
"Non sa nulla", interruppe il mio amico, mentre avanzava a stento con
me alle calcagna. In un istante aveva raggiunto l'estremità della nicchia e
vedendosi bloccato dalla roccia, rimase come istupidito.
Un momento più tardi io lo avevo incatenato al granito. Dalla sua superficie
sporgevano due ganci di ferro distanti poco meno di mezzo metro in senso
orizzontale. Da uno di essi pendeva una corta catena, dall'altro un lucchetto.
Passatagli la catena attorno alla vita, serrarla fu affare di pochi secondi.
Era troppo sbalordito per resistere. Girata la chiave, mi ritrassi dalla
nicchia.
"Passi la mano sulla parete", dissi, "sentirà il salnitro. In
verità è molto umido. Lasci che l'implori ancora di tornare indietro. No?
Allora la debbo lasciare. Prima però debbo avere per lei tutte le piccole
attenzioni che sono in mio potere."
"L'Amontillado", esclamò il mio amico, non
ancora ripresosi dallo stupore.
"Giusto", risposi, "1'Amontillado."
Appena pronunciate queste parole mi detti da fare in mezzo al mucchio di ossa
di cui ho parlato prima. Spostandole, trovai subito una quantità di pietre da
costruzione e della calce. Con questi materiali e con l'aiuto della cazzuola,
cominciai febbrilmente a murare l'entrata della nicchia. Avevo appena
completato uno strato di muratura, quando mi accorsi che l'ubriacatura di
Fortunato era in gran parte passata. La prima indicazione mi venne dal pianto lamentoso
che saliva dal profondo della nicchia. Non era il pianto di un ubriaco. Ci fu
poi un lungo ostinato silenzio. Costruii un secondo, un terzo, un quarto strato
di muratura e allora sentii scuotere furiosamente la catena. Il rumore durò
parecchi minuti, durante i quali per poterlo sentire più distintamente e con
maggior soddisfazione, smisi di lavorare e mi sedetti sopra le ossa. Quando il
rumore cessò, ripresi la cazzuola e finii senza interruzioni il quinto, il
sesto, il settimo strato. La parete giungeva ora all'altezza del mio petto. Di
nuovo mi fermai e tenendo la torcia al di sopra della muratura, proiettai una
fioca luce sulla figura che era dentro. Una serie di strilli acuti e penetranti
esplose improvvisamente dalla gola della figura incatenata e sembrò spingermi
violentemente all'indietro.
Per un istante esitai, tremai. Brandendo la spada cominciai a menar colpi alla
cieca nel recesso; ma il ragionamento in un momento mi rassicurò.
Toccai con la mano la solida struttura della catacomba e mi sentii soddisfatto.
Mi riavvicinai alla parete, risposi alle sue grida. Feci loro eco, le
accompagnai, le accompagnai, le superai in volume e in potenza e allora l'altro
si calmò.
Era ora mezzanotte ed il mio disegno era quasi compiuto. Avevo terminato l'ottavo,
il nono ed il decimo strato; avevo completato anche una parte dell'undicesimo
strato, rimaneva solo una pietra da incastrare e murare. Facendo uno sforzo
dato il suo peso, la sistemai quasi nella sua posizione definitiva. Ora dalla
nicchia arrivava una leggera risata che mi fece rizzare i capelli in testa.
Seguì una voce roca che stentavo a riconoscere per quella del nobile Fortunato.
La voce diceva:
"Ah! Ah! Ah! Eh! Eh! Eh! un ottimo scherzo, proprio un eccellente
giochetto. Ci faremo un sacco di risate a palazzo - Eh! Eh! Eh! - sul nostro
vino - Eh! Eh! Eh!"
"L'Amontillado", dissi.
"Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! - si, l'Amontillado. Ma non
si sta facendo troppo tardi? Non ci staranno aspettando a palazzo, Lady
Fortunato e gli altri? Dobbiamo andare."
"Sì", dissi, "Andiamo."
"Per l'amore di Iddio, Montresors!"
"Sì", dissi, "Per l'amore d'Iddio!"
A queste parole, attesi invano una risposta. Divenni impaziente.
Chiamai ad alta voce:
"Fortunato!"
Nessuna risposta. Chiamai di nuovo:
"Fortunato!"
Ancora nessuna risposta. Spinsi la torcia attraverso la piccola apertura
rimasta e la lasciai cadere dentro. In risposta venne solo un tintinnio dei
campanelli. Sentii male al cuore, a causa dell'umidità delle catacombe. Mi
affrettai a terminare il mio lavoro. Incastrai l'ultima pietra nella sua sede,
la murai. Contro la nuova parete costruita rialzai uno schermo di ossa. Per
mezzo secolo nessun mortale le ha disturbate. In pace requiescat!”
“No.. non dirmi
che.. Poi sono io quella pazza!” gli sussurrò la ragazza “Però interessante..”
Continuò.
“Brava, questo è
lo spirito giusto.. Credo che hai capito cosa ci tocca fare vero?” Le sussurrò
con fare romantico e allo stesso tempo diabolico.
“Però la mia idea
DEVE essere attuata, capito?” fece ora a tono più alto e molto fermo.
“Abbiamo tutta la
notte davanti tesoro…”