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Autore: _Velvet_    24/01/2012    0 recensioni
"La gente è così priva di senso, a volte. Seguono il gregge, il capogruppo senza nemmeno pensarci. Credono bianco, ma il giorno dopo il capo dice che tutto è stato sempre nero, hanno sempre creduto nel nero.
E loro lo accettano così, senza nemmeno pensarci.
Non lo trovi... spaventoso?"
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2, Side A.
Manchester, 16 marzo 1978
 
Trovai la forza per telefonare a Karen solamente il giorno successivo; avevo, in un modo difficile da spiegare, paura.
Avevo paura che le mi dicesse che non ricordava nessun Ian alla sua festa. Avevo forse ancor più paura che lei mi dicesse che sì, lo ricordava, ma che non sapeva né il suo nome né il suo indirizzo. Io però avevo bisogno che lei ricordasse, avevo bisogno che lei mi rassicurasse, mi dicesse che questo ragazzo lo conosceva.
Nutrivo un’illimitata fiducia in lui, in cuor mio sapevo ancor prima di parlarci che lui mi avrebbe strappato alla nube grigia della mia vita, io lo sapevo.
Era una sensazione strana, che non  avevo mai provato prima. E’ più o meno quello che si prova quando si beve una tazza calda di thè: non sei mai sicuro che sia quello che ti faccia stare meglio, ma quando il liquido dorato scende giù per la tua gola infreddolita sai di aver fatto la scelta giusta. Allo stesso modo sapevo che Ian mi avrebbe salvato.
Salvato da cosa, ora riuscivo a metterlo a fuoco. Ero certa, però, che c’era qualcosa che non andava in me, qualcosa che avrei dovuto eliminare, qualcosa che mi avrebbe potuto distruggere se lasciato in libertà, qualcosa su cui dovevo mantenere il controllo.
Con il massimo della fiducia nel prossimo, chiamai Karen.
***
Me ne pentii nell’attimo stesso in cui sollevai la cornetta nera.
-Pronto?...” biascicò una voce impastata dal sonno dall’altro capo della linea.
-Ciao Karen, sono Christ. Senti, volevo chiederti una cosa, ma forse è meglio che provi dopo, preferisci?
-No, no... Ci sono. Dimmi pure!- Karen sembrava molto più lucida e sicura, ora.
-Beh, volevo sapere... Tu ricordi gli invitati alla tua festa di compleanno? C’era anche un certo Ian?
-Ian... Ian... Ian... Dammi un attimo, eh.
In quel momento di attesa so che avrei potuto morire e non avrei sentito nessun cambiamento fisico. Io sapevo, sapevo già che non c’era nessun Ian.
Era solo la proiezione della mia mente frustrata, io volevo che ci fosse, ma sapevo già che non c’era, né mai ci sarebbe stato.
Dopo un tempo che mi parve infinito, Karen rispose:- Beh, chiedere di un Ian a Manchester è come chiedere di un François a Parigi, vero? Ho chiesto a Nick, lui ha una memoria di ferro, e ha detto che sì, un Ian c’era. Mm, alto, capelli neri, anzi... tutto vestito di nero, giusto?
-Sì, corrisponde ai miei vaghi ricordi.
-Beh, sei fortunata. Non conosco il suo cognome, ma dalle parti dell’università è una specie di mito, da quanto capisco. E’ uno che ha due interessi: i dischi e i libri. Mi stupisco che tu l’abbia visto per la prima volta alla mia festa!
-Sai, non sono una che fa molto caso alle persone.. Comunque grazie, mi sei stata di grande aiuto. Ora devo andare al lavoro, a presto cara.
Riattaccai prima che avesse il tempo di farmi una qualsiasi altra domanda. Non volevo che lei sapesse nulla di me, non volevo che sapesse nulla della mia momentanea ossessione nel cercare qualcuno di simile a me.
Con un vago senso di felicità che mi avvolgeva, cominciai a percorre le stradine deserte della città alla volta del negozio in cui lavoravo.
 
 
Capitolo 2, Side B.
Manchester, 16 marzo 1978
 
Udivo il suono distinto della suola delle mie scarpe che colpiva ripetutamente l’acciottolato della stradina secondaria che avevo imboccato. Mi capitava spesso di scegliere la via più lunga per raggiungere un luogo, se avevo voglia di pensare; pensare, in quel momento, era l’unica cosa da fare. Cercavo di riordinare i pensieri nella mia testa, ma ogni volta era come cercare di spazzare in un mare di sabbia: un compito ingrato e senza fine.
Non sapevo come prendere la dichiarazione di Karen: in un certo senso era positiva, certo, perché era la lampante dimostrazione che Ian c’era; dall’altro canto, però, Ian doveva essere uno di quegli intellettuali che si circondano di una cerchia di amici e non considerano il resto del mondo.
Stavo ancora pensando a ciò, quando intravidi l’ingresso del negozietto in cui lavoravo. Erano esposto in bell’ordine molti dei dischi cosiddetti “indipendenti” usciti nell’ultimo anno. Tra questi c’era uno strano EP di un gruppo chiamato Warsaw, “An Ideal for Living”. Era l’anno d’oro di quel movimento chiamato Post-punk, che poi avrebbe influenzato tutta la musica dark degli anni ’80.
Casualmente, il cantante dei Warsaw (e dei successivi Joy Division) si chiamava Ian. Un Ian tristemente noto, a causa della tragica fine.
Mi trovai a ricordarmi delle serate passate a suonare, fino a pochi mesi fa. Mi venivano alla mente le luci di un bianco abbagliante che contrastavano in modo così artificioso con le pareti nere dei locali, le bevute prima, durante e dopo il concerto. Chi veniva per ascoltarci davvero, veniva quando mancavano 20 minuti alla fine del concerto. Era lì che usciva la nostra anima.
Sì, il nostro modo di suonare era simile a quello di tanti gruppi nostri contemporanei, primi fra i quali i Warsaw. Un modo di suonare fatto di suoni distorti, canzoni senza capo né coda, dettate dalle lunghe parti strumentali e dalle parti cantate urlate con disperazione. Era il nostro modo di esprimerci, il nostro urlo da poeti maledetti, la nostra denuncia contro il passato, il diniego del futuro.
***
Entrai nel negozio, mi accesi una sigaretta, cominciai ad aprire i pacchi di dischi che erano arrivati e necessitavano di essere ordinati per bene. C’era un EP appena pubblicato da un gruppo, gli Easy Cure, che promettevano grandi cose.
C’era Siouxsie and the Banshees, c’era Bowie, c’era Lou Reed. Tutti nomi che aspettavano solo di essere impilati nella sezione corretta.
Devo dire che amavo particolarmente sistemare i dischi. Mi faceva stare bene, mi faceva sentire il controllo su qualcosa. Sembrerà squallido, ma i dischi mi elettrizzavano, c’era qualcosa di magico nel vinile.
Avevo appena finito, quando alzai gli occhi verso la strada.
Il marciapiede era diviso dalla strada da un viale di olmi che cominciavano a far spuntare le prime foglie. Cadeva una pioggerella sottile e gelata, il cielo era grigio e la temperatura piuttosto bassa. Sulla via opposta si aprivano numerose botteghe, soprattutto librerie, ma anche piccoli pub e cinema. Era quel particolare momento della giornata in cui non è né sera, né pomeriggio: era quella meravigliosa parte della giornata che non è definita, in cui notte e giorno si fondono, un momento in cui tutto può succedere.
Stavo bevendo l’enorme tazza di the che mi ero appena versata, quando vidi un giovane attraversare la strada e avvicinarsi incuriosito alla vetrina. Mi si fermò il cuore in gola: era spaventosamente simile all’Ian della festa. I capelli erano decisamente gli stessi, ma non riuscivo a scorgere i lineamenti del volto.
Non sapevo se desiderare che entrasse o se ne andasse, lasciandomi con la speranza che fosse Ian. Ora che probabilmente il momento della verità era vicino, scoprii che ne avevo una paura terribile. Avevo paura di scoprire che Ian fosse solo un ragazzo come tanti, né stupido né brillante.
Non volevo che il personaggio che mi ero costruita nella mente venisse disintegrato dalla verità. Se Ian non fosse stato quello che pensavo, allora che ne rimaneva di me? Ormai vivevo nella speranza di incontrare qualcun altro come me, qualcuno con cui poter parlare. Ed ora, se non ci fosse stato, con quale speranza avrei vissuto?
Cercai di ricordare come fosse stata la vita senza il pensiero di Ian. Scoprii che in cuor mio c’era sempre stata l’ambizione di poter condividere i miei pensieri con ragazzi simili a me. A volte c’ero riuscita, ma sempre più raramente.
Ed ora, avrei avuto un’altra delusione? Era davvero Ian, quello lì fuori?
   
 
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