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Autore: shotmedown    25/01/2012    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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~ I'm singing, oh, I'm feeling your heartbeat. 

The Fray, Heartbeat







Three years later...
Non potevo affatto lamentarmi della mia permanenza lì a Montréal. Avevo un lavoro che mi piaceva e tre amici presenti. Solo che la paura che tutto potesse finire presto e il timore di perdere ogni cosa ogni tanto mi impediva di vivere. E Pierre si trovava a casa nostra proprio in quei momenti, quasi come se sentisse di dover essere lì per darmi man forte con i miei alti e bassi.
“Sam! Renditi utile! Distrai Pierre, mi sta distruggendo!” Io e Leah ci mettemmo a sedere accanto a loro, intenti a giocare ad un videogame sulla Formula 1.
“Pierre, mi deludi.” Mormorai, sorseggiando del tè.
“Sam, Vettel sarà anche bravo, ma nel videogioco a gareggiare sono io e mi serve l’auto più veloce.”
“E la Red Bull non lo è?” Scivolai sul divano e mi accovacciai in un angolino, per avere una visuale migliore. “Mi hai ricordato che devo andare in Germania...”
“E perché mai?” domandò, mettendo in pausa e voltandosi a guardarmi. Jack potè finalmente riposarsi.
“Sebastian è tedesco. Sua moglie dovrà pur conoscere qualcosa della sua cultura...”
“Ma ci crede davvero?” chiese, rivolto a Leah, che scoppiò in una fragorosa risata.
“Ho più probabilità io di sposare Vettel che tu di vincere contro Jack.” Il ragazzo, preso in considerazione, si caricò, deciso a mantener fede alla sua lunga tradizione di vittorie. Il gioco durò circa un’ora, e si concluse, come mi aspettavo, con la vittoria di Jack e la sconfitta di Pierre. “Samantha Vettel...suona bene, no? Che ne pensi Leah?”
“Tantissimo. Ora, Jack, muovi le chiappe.”
“Uscite?” Mi resi conto solo dopo che la mia migliore amica era splendidamente vestita.
“Jack, per il nostro anniversario, ha deciso di portarmi in un luogo di lusso. Ma non ha voluto dirmi quale.” Disse, eccitata.
“ Finalmente hai capito che il McDonald è meglio del camioncino dei panini...”
“Precisamente!” confermò lui. Mi salutò e mi raccomandò di chiudere bene le finestre e la porta nel caso in cui avessi deciso di uscire. Erano già sei anni che stavano insieme, e sicuramente lei aspettava che lui le chiedesse di sposarlo. Ma Jack non era pronto, ed io lo sapevo bene. A causa sua avevo passato tante notti in bianco.
“Ti va di vedere un film?” chiesi a Pierre, che giocherellava con il rubinetto.
“A patto che si chiami Donnie Darko.”
“Non lo hai mai visto?” ero sorpresa. Era un film degno di lode, sebbene lo avessi visto una sola volta a diciassette anni. Ma ricordavo bene la trama. Inserii il DVD e preparai una busta di pop corn, mentre lui si armava di coperta. Una cosa che avevo imparato lì, era che a Ottobre il freddo era insopportabile. Ci mettemmo a sedere e iniziammo a guardare lo schermo.
 
“Perché indossi quello stupido costume da coniglio?” “E tu perché indossi quello stupido costume da uomo?”
“Perché tu indossi quello stupido costume da Pierre?” trattenni una risata per dare suspence alla situazione.
“Perché tu indossi quello stupido costume da Sam?”
“Era l’ultimo rimasto in negozio, e mi sono arrangiata. Niente male, vero?”
“Se così fosse, non sarebbe stato l’ultimo rimasto, no?”
“Questa me la paghi, Bouvier!” gli rovesciai la scodella di pop corn in testa, più preoccupata del danno da ripulire che dei suoi capelli, pieni di sale. Mi alzai in fretta dal divano, per evitare un’eventuale reazione negativa e, anche se solo minimamente, violenta.
“Inizia a correre, Gordon.” Non fui mai tanto felice di obbedire ad un ordine. Entrai in camera di Jack e Leah, e spalancai la finestra per uscire, certa che avrei solo potuto guadagnare tempo. Misi un piede dall’altra parte e mi assicurai che non stesse arrivando, per poi richiudere e nascondermi sul terrazzo. Se non si fosse dato una mossa, sarei morta dal freddo. Mi sentivo stupida, ma era una sensazione che avevo provato ben poche volte e risultava sempre “nuova”, se così si poteva dire. La finestra si spalancò e Pierre uscì fuori, guardandosi intorno; si diede una scompigliata ai capelli per eliminare i granellini bianchi che qualcun altro avrebbe sicuramente preso per forfora e fu pronto a rientrare, quando mi notò seduta dietro al comignolo.
“Samantha, Samantha” canticchiò, avvicinandosi. “Non puoi immaginare, cosa ti sto per faare” quella voce... Era così familiare...Più cantava delle mie sorti più ricordavo qualcosa.
“Pierre...” mormorai, quando si fermò.
“Chieder scusa non si può!” iniziò a fissarmi stranito. “Ehm...cos’hai?”
“La tua voce...” parve irrigidirsi all’istante, poi distolse immediatamente lo sguardo. Ad un tratto sembrò aver perso ogni voglia di buttarmi giù dal cornicione.
“ Pierre, stai bene?” Lo afferrai per l’avambraccio prima che rientrasse da dove era uscito. Si voltò e mi strinse la mano, accennandomi un: “Tutto okay.”
“Mi sembra inutile sottolineare che io non ti creda affatto. Tu...”
“Cos’ha la mia voce?” mi interruppe. Mi trovai del tutto spaesata; non sapevo davvero cosa rispondergli.
“Pierre...”
“Cos’ha la mia voce?” ribadì.
“Ma quanto siamo suscettibili oggi...” mi fissò torvo, aspettandosi una risposta. “Niente, mi sembrava solo estremamente familiare.” Sospirò. “Davvero, non capisco perché ti sia acceso tanto per una cosa del genere.”
“ Scusami tanto, è che...”
“Lascia stare, non fa niente. L’importante è che tu non abbia ammazzata.” Si voltò immediatamente verso di me, socchiudendo gli occhi con fare minaccioso. “Ma quanto sono stupida!” Mentii. Ricominciai a correre, cercando di non farmi prendere. L’avevo buttata sul vago, ma avevo intenzione di scoprire perché ricordassi la sua voce nonostante non lo avessi mai visto prima di mettere piede a Montréal.
“Te ne stai tutto il giorno a poltrire in biblioteca e sul divano. Mi dici come fai ad essere così scattante, maledizione?!” Gridò, cercando di afferrarmi mentre saltavo dal divano. Se solo lo avessi sentito cantare ancora...Ma non potevo chiederglielo: avrebbe sicuramente reagito male di nuovo. “Basta, mi arrendo.” Si accasciò sul mio letto, chiudendo gli occhi. Passarono circa trenta secondi interminabili prima che decidessi di avvicinarmi e controllare che non si fosse addormentato sul serio. Sembrava russasse. Arretrai qualche passo, poi feci la scelta azzardata di girarmi per uscire tranquillamente dalla stanza; in un secondo si alzò, chiuse a chiave la porta e mi schiacciò contro la superficie lignea con il suo corpo.
“Pierre, che...”
“Pensavi davvero che mi saresti sfuggita?” Gli sorrisi.
“Ah, caro...” Con un piede riuscii a piegargli un ginocchio e fargli perdere l’equilibrio; ne approfittai per uscire dalla porta del bagno, ancora aperta. “Non sei abbastanza furbo per me!” Lo chiusi dentro, e mi diressi in cucina, ascoltando i suoi lamenti.
“Resterai lì fino a quando non torneranno Leah e Jack!” Ad un tratto zittì. Aveva capito che facevo sul serio. Accesi il televisore e cercai il canale di musica, per passare il tempo, ma come se qualcuno ce l’avesse con il mio relax della domenica, bussarono alla porta. Forse Leah aveva dimenticato di nuovo le chiavi e Jack era troppo ubriaco per ricordarsi dove le avesse messe. “Arrivo!” Andai a liberare Pierre, che iniziò ad imprecare flebilmente, poi spalancai la porta, ritrovandomi davanti chi non avrei voluto vedere per il resto della mia vita. “Ben...”
  
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