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Autore: sistolina    27/01/2012    5 recensioni
E' difficile camminare a testa alta nei corridoi di Hogwarts quando tuo padre è Draco Malfoy, il Traditore.
E' difficile essere all'altezza quando tuo padre è Harry Potter, il Salvatore del Mondo Magico.
E' difficile incontrarsi nel mezzo, quando alla Scuola di Magia e Stregoneria infuriano i fantasmi del passato, gli strascichi della Guerra e la sete di potere, e di vendetta, di chi ancora rimane.
Ed è difficile essere Lily Potter, e non odiare più Scorpius Malfoy.
Venticinque anni dopo, le colpe dei padri ricadranno sui figli, e non ci sarà più nessuno, a Hogwarts, al sicuro dalla propria eredità...
Genere: Avventura, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Lily/Scorpius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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Ferite nel muro


«La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona».
(Divina Commedia, Canto XXIV, vv 13-15)



L'aveva preso. Aveva semplicemente sollevato le dita dalla sua logora copia de “L'Orfeo emerso” e lo aveva afferrato. Istintivamente, naturalmente, con la semplicità della pratica e dell'amore incondizionato. E ora le  ali si dibattevano senza sosta nel suo palmo, la solleticante e famigliare sensazione di piacevole fastidio che trasformava la sua pelle nello specchio rilucente di un Pensatoio, laddove la memoria non poteva correre, l'istinto si muoveva senza sosta.
Era come una danza la loro, un mai noioso rincorrersi e ritrovarsi, la superficie zigrinata al tatto, scivolosa e gelida anche quando il raro sole della Scozia riluceva sulla sua faccia sferica di migliaia di riflessi diversi, fastidiosi ed ipnotici, impossibili da controllare e altrettanto incomprensibilmente desiderabili. Il legno odoroso di muschio degli spalti, il vento sempre freddo sospesi nell'aria, la solida sensazione del manico di scopa fra le ginocchia strette, l'erba bagnata e fangosa che si stendeva come un tappeto indistinto dieci piedi sotto. E il Boccino, che si dimenava prigioniero della sua morsa soddisfatta e inquieta, la strisciante sensazione di poter semplicemente aprire la mano e vederlo volare via solo per poterlo nuovamente rincorrere. La consapevolezza dell'inconsistenza del tempo, consumato e glorioso nella goccia di un attimo che si dilata all'infinito.

Weep for yourself, my man,
You’ll never be what is in your heart
Weep Little Lion Man,
You’re not as brave as you were at the start


Poi Scorpius tornò sulla nuda e brulla terra di Durmstrang, con il Boccino d'oro che ancora solleticava le pronunciate venature della sua mano, sembrava sospirare, riempirsi di  disperata energia, e arrendersi un poco, senza mai davvero lasciare che vincesse, che si ritenesse soddisfatto, che si lasciasse andare alla molle sensazione di vittoria. Dischiuse le dita, lentamente, assaporando quell'ultimo istante di perfetta sintonia, di casa, di riflessi infuocati mischiati al sole che si perdevano nel tramonto dietro gli spalti. Ma quell'assurda palla non si mosse, scrollandosi a malapena di dosso la patina che la sua stretta gli aveva lasciato, come un cane appena uscito dall'Oceano, e sembrò restare lì, semplicemente a guardarlo scacciare con un cenno del capo la nebulosa ombra dei suoi ricordi più intensi, sbattendo fuori l'ultimo baluardo di una memoria tattile che era stato lui stesso ad imprimere nel difficile percorso ad ostacoli che Scorpius Malfoy aveva affrontato per lasciarsi alle spalle lo spregio di sentirli pronunciare il suo nome come un'orribile malattia mortale. Solo allora, solo quando la sua scopa sfiorava la brina del campo di Quidditch con l'oro cangiante delle ali del boccino fra le dita, nessuno ricordava più perché “Malfoy” fosse un nome da non pronunciare, se non con il veleno fra i denti e la lingua, e la condanna negli occhi. E allora lui era solo un coro compatto di urla di gioia e sollievo, di eccitazione e di comunione. Per un solo momento, mentre il suo nome rimbalzava tra gli spalti  in quell'innaturale bolgia di urla, Malfoy era solo un'altra parola che si perdeva nella danza scoordinata della vittoria.
E, come ogni volta, rimettere piede a terra fu doloroso come la lama doppia calata su una colpa che non era sua.
“Tu. Dammi” un ragazzo dell'ultimo anno, la muscolatura sviluppata di chi si allenava costantemente e il cipiglio corrucciato di un gorilla in gabbia, allungò la sua possente mano ricoperta di peluria scura nella sua direzione. Non si sarebbe aspettato un sorriso da igienista dentale con tanto di ringraziamenti e pacche sulle spalle, ma nemmeno quel biascicare da orso ritardato.
Giocherellò col Boccino che ancora sembrava guardarlo attraverso la piegatura delle dita; lo aveva sempre messo alla prova, alla fine, il Boccino D'Oro, sia che lo stringesse febbrilmente alla fine di una partita, sia che gli sfuggisse per un soffio, con il ghigno da Cercatore dell'Anno di James Potter che glielo strappava dalle mani all'ultimo secondo; sia che se lo rigirasse fra le dita, in un fottuto posto dimenticato da Salazar, pensando a quanto più confortevole sarebbe stato averlo in pugno fra l'erba appena tagliata del campo di Hogwarts. Era stato un perdente, era stato quello con la spalla lussata che non scendeva dalla scopa, era stato quello che meritava il beneficio del dubbio, era stato il figlio del Traditore che lavava il suo nome infame con la pioggia di novembre che ghiacciava le ossa, la neve di dicembre che intirizziva i sensi, e il vento umido di marzo che schiaffeggiava i capelli sul viso. Era stato quello che l'aveva afferrata e tirata in sella, convincendo se stesso che lo stava facendo per pareggiare i conti. E il dannato Boccino D'Oro era stato fra le sue dita anche allora, come sempre, a pesarlo e misurarlo, per una sola volta, senza trovarlo mancante.
Inclinò il capo di lato, socchiudendo gli occhi contro il riverbero del sole dietro le spalle dell'altro, il vago senso di frustrazione che era la sua nuova pelle a Durmstrang che si trasformava nella perversa voglia di sfidare il mondo ad atterrarlo ancora.
“Rilassati amico, la Rivolta dei Troll è finita, non te l'hanno detto?” sollevò un angolo della bocca nell'osservare il delinearsi dell'incognita fra i lineamenti dell'altro, un'implicita domanda che si faceva strada fra la barba rossiccia e il naso schiacciato, evidentemente rotto, che sembrava contraddistinguere ogni dannato giocatore di Quidditch di quello schifo di scuola. E poi esplose in una risata cavernosa che avrebbe potuto fare a gara con  il rosso ingordo Weasley. Gli porse una mano, in un gesto dall'innaturale delicatezza per qualcuno che aveva la mole di un troll di montagna e tutto il diritto di portare quelle stesse mani a fracassargli il mento.
Nessuno aveva mai allungato una mano verso Scorpius Malfoy senza finire per tirarla indietro, ferita, in fretta, come scottata da una fiammata improvvisa. Nessuno, neanche uno, tranne lui...

Flashback**************************************************

La piuma si poggiò con  estenuante lentezza sull'irregolare pavimento di pietra, bilanciando un peso inesistente fra la punta e la coda. Scorpius aveva osservato l'intero processo come rapito, attanagliato dalla noia e l'indecisione. Quidditch o non Quidditch, arrendersi o non arrendersi, lasciarsi inglobare da quella vita che non aveva chiesto, in una scuola che non aveva chiesto, con persone che non aveva chiesto di conoscere, in un posto che non sembrava entusiasta di ospitarlo come lui non era entusiasta di viverci. Aveva affidato ad una stupida piuma d'uccello sconosciuto le sorti nebulose di un destino che non aveva chiesto. Fottuto Godric se non l'aveva chiesto. Hogwarts era la sua maledetta casa. Eppure avrebbe dovuto lasciarla, prima o dopo, ognuno di loro aveva fatto i conti con questo il primo giorno del loro settimo anno. Non allora, dannata Morgana, perché era così schifoso lasciarla andare in quel momento?

Rate yourself and rake yourself,
Take all the courage you have left
Wasted on fixing all the problems
That you made in your own head


L'ingombrante figura di Viktor Krum si stagliò nella penombra della stanza, mentre uno spiraglio di luce traballante filtrava attraverso la porta socchiusa. Non era uno che mandava a chiamare, il Preside Krum, era quel genere di tipaccio pragmatico ma dal cuore tenero che si si sarebbe occupato personalmente di medicare anche le ferite dei suoi studenti, se non fosse stato per quel provvidenziale dettaglio che portava lo scomodo nome di Infermeria.
“Ragazzo, qvalcuno cerca te” malgrado gli anni trascorsi a interagire con qualsiasi forma di vita, magica o meno, della circonferenza dell'intero diavolo di globo, quell'uomo riusciva ancora a parlare l'inglese con la stessa maestria con cui lui sarebbe riuscito a fare le treccine ad un Dissennatore. Tuttavia Scorpius si affrettò, quasi inconsciamente, a spostare i piedi dal ripiano in mogano scuro della scrivania del Preside, sgrammaticato o meno, colto in fallo.
Sollevò comunque un sopracciglio sarcastico, giusto perché era ben inculcato nel suo DNA, come la dannata faccia a punta di suo padre.
“Finalmente si è deciso a consegnarmi al nemico?” l'altro lo degnò a malapena di uno sguardo mentre ribatteva un perentorio
“Subito. Cente non ha ta pertere tempo con tuo umorismo” lo seguì lungo un corridoio illuminato approssimativamente da una torcia ogni dieci passi, con le loro ombre oblunghe che si dilatavano e si ritiravano ad ogni passo.
Si fermò davanti ad una porta chiusa di legno marcio, tendente ormai al verde muschio e scheggiata in più punti. L'unica decorazione che poteva vantare oltre alla maniglia di ottone, era uno strano ghirigoro di bacchette che sembrava identificare un numero. Gettò a Krum un distratto sguardo interrogativo, che l'uomo si limitò a deviare sull'entrata con un cenno del mento squadrato. Scorpius si portò due dita alla fronte ironicamente ed entrò.
Al centro della stanza, accanto ad un mastodontico camino della Metropolvere Magica, Albus Potter stava inutilmente tentando di ripulire le lenti dei suoi occhialetti quadrati dalla fuliggine; più smilzo e trasandato dell'ultima volta che si erano visti, aveva inutilmente provato a pettinarsi, ottenendo l'unico risultato di somigliare pericolosamente alla copia Weasley di suo padre.
Emise un sospiro strafottente e si appoggiò all'arco umido della porta. L'intera stanza sembrava essere stata brutalmente immersa nel lago nero, e tirata fuori senza essere strizzata. Perfino il tappeto sotto i piedi dell'altro era raggrinzito e puzzolente di muffa.
"Questo posto fa così schifo che sono quasi contento di vederti..." Albus Potter si voltò nel mezzo di un movimento, serrando la mandibola come da copione
“E' bello notare che sei sempre la stessa carogna strafottente” Scorpius fece schioccare la lingua
“Ah, parole d'amore di prima mattina...” si staccò dalla parete con un movimento modulatamente distratto e si lasciò cadere con falsa noncuranza su una poltrona alla quale mancavano diverse molle “A cosa devo l'onore Potter?” sogghignò “o forse devo pensare che la mia brutta faccia ti manca veramente” sbatté le palpebre per fargli intendere quanto interesse aveva intenzione di rivolgere a quella loro quanto mai inaspettata conversazione. Ma il Potter Manico di Scopa nel Sedere non era il primo del suo corso da sempre perché era figlio di suo padre. Era intelligente e intuitivo, e Scorpius non aveva proprio idea di quali trucchi avesse escogitato la sua famiglia per permettergli di diventare così. Incrociò le braccia al petto, serio come un cadavere. Il senso dell'umorismo, si trovò a pensare Scorpius, con cosa diavolo lo aveva barattato?
“Manchi a lei” disse semplicemente, godendosi per un attimo quello che vide nel so sguardo.
Lui non era pronto, assolutamente non era pronto. Non gliel'aveva detto nessuno che avrebbe dovuto “esserci”. Sbuffò, lasciando che la natura del suo stesso essere riposizionasse la maschera fra i suoi pensieri e le sue azioni

But it was not your fault but mine
And it was your heart on the line
I really fucked it up this time
Didn’t I, my dear?
Didn’t I, my…


“Manco ad un sacco di gente” finse di riflettere “i Traghettatori mi vogliono morto, e anche mio padre, presumibilmente” elencò “c'è una concreta possibilità che qualche ragazza, ad Hogwarts, mi aspetti ancora davanti allo sgabuzzino delle scope al quarto piano e, beh, la Lega per la Salvaguardia delle Antiche Famiglie ha tentato inutilmente di eleggermi come paladino, ma temo che dovranno cercare un altro sponsor per la Campagna Sangue Puro” si strinse nelle spalle, innalzando le sue barriere naturali, una ad una, che non si era costretto a ergere in un luogo dove niente poteva davvero toccarlo. Non apparteneva a Durmstrang, non c'era niente lì per lui, niente per cui valesse la pena di fingere, di manipolare e di nascondersi dietro l'eterna armatura di se stesso.
Nessuno lo conosceva, o pretendeva sapere cosa volesse dire. Nessuno lo fissava dietro un paio di occhiali rettangolari srotolandolo come una pergamena nuova. Poteva avvertire il frusciare dei propri pensieri, perfettamente intelligibili, che scivolavano senza sforzo sul pavimento lercio. Potter Idiosincratico rimase a guardarlo semplicemente realizzare tutto questo, senza apparentemente respirare. Non sarebbe servito nemmeno parlare, a quel punto, non a loro, malgrado i tutti e quattro Fottuti Fondatori.
“Preferirei  essere sbranato in eterno da un Ippogrifo rabbioso che essere qui Malfoy” esordì dopo cinque interminabili minuti in cui non avevano fatto altro che studiarsi a vicenda. Scorpius si chiese cosa l'altro avrebbe trovato di diverso in lui, cosa nei suoi capelli leggermente lunghi sulle orecchie, cosa nei suoi occhi, cosa nella sua postura. Si chiese cosa avrebbe letto il suo primo vero amico nel mondo vedendolo lì seduto, parlandogli di lei, di quanto difficile fosse quella situazione. Si domandò se avrebbe capito la verità ancora prima di lui, o se semplicemente l'avrebbe chiusa fuori assieme all'evidenza.
“Non potevano mandare un Elfo a richiamarmi all'ordine? Proprio tu, Potter Piattola, sarai la mia guida in questo viaggio?” Ironizzò facendo schioccare la lingua sul palato.
“Fra dieci minuti tornerò indietro e dimenticherò anche di essere stato qui Malfoy. Lily non lo saprà mai, nessuno lo saprà mai se non Madame Maxime che mi ha prestato il camino” si lasciò sfuggire un nebuloso sorriso, il primo accenno di espressione sulla sua faccia inequivocabilmente marca Potter. Poi lo fissò negli occhi con  una serietà inaudita “Fa' quello che vuoi, ma non credere di poterla lasciare in sospeso come una deficiente qualsiasi ad aspettare di rivederti, idiota, perché se ormai è tropo tardi per proteggerla da quello che prova per te, posso almeno proteggerla da quello che tu senti per lei...” strinse le dita attorno alla bacchetta, intimidatorio “a costo di affatturarla personalmente, non ricorderà nemmeno che stupida faccia hai Malfoy” detto ciò fece un passò deciso verso il camino, le dita serrate attorno alla manciata di polvere che aveva preventivamente afferrato poco prima, e gli dedicò un ultimo, intenso, sguardo prima di dichiarare con dolorosa e consapevole chiarezza la sua destinazione. “Hogwarts”

Tremble for yourself, my man,
You know that you have seen this all before
Tremble Little Lion Man,


Per un solo, centellinato istante, Scorpius pensò di lanciarsi tra le guizzanti fiamme verdi insieme a lui. Affondò le unghie nei palmi stretti a pugno, e distolse lo sguardo.
Scorpius Malfoy non era mai stato uno da sorprese. Non era mai stato uno che tornava indietro, a cui mancavano le cose, che teneva alle persone. Aveva sempre messo un passo davanti all'altro, senza voltarsi a guardare necessariamente alle sue spalle, per capire se quello che stava lasciando era ancora lì.
Così aveva fatto con la sua famiglia, poi la persona che era stato nel suo viaggio da Babbano per il mondo, e poi a Durmstrang, lontano da Hogwarts e tutto quello che aveva significato casa.
E ora quel dannato Potter si presentava nella sua Scuola per dirgli che la sua stupida sorella aveva bisogno di lui? Cosa si aspettavano tutti, un Malfoy tirato a lucido per sopperire alle mancanze di un'adolescente con le bizze? Pensavano davvero che bastasse alla ragazzina Potter il solo vederlo per stare bene? Per crescere?
Nessuno, magari, si era chiesto cosa tutto questo avrebbe significato per lui?
Si passò una mano fra i capelli, espirando dolorosamente, domandandosi quando avesse smesso di chiedersi il senso di quello che faceva, comportandosi come un maledetto idiota altruista del cazzo.

You’ll never settle any of your scores
Your grace is wasted in your face,
Your boldness stands alone among the wreck
Now learn from your mother or else spend your days
Biting your own neck


Fine flashback********************************************

L'armadio era ancora lì che lo fissava, con la sua enorme mano spalancata a rivelare un'invidiabile cartina geografica di calli e cicatrici a spiegare senza dubbio quanto quel Boccino significasse per lui, tanto quanto significava per Scorpius.
“Tu viene. Tu gioca. Io faccio culo te” probabilmente l'elementare educazione civile che aveva ricevuto comprendeva quello strano puzzle di psicologia inversa e provocazione, tuttavia il suo sorriso ampio sembrava sincero, e la sua mano era aperta davanti a Scorpius, traslucida nella luce opaca della sera imminente. Forse poteva essere davvero qualcun altro a Durmstrang; forse il suo cognome, lì, non avrebbe avuto il retrogusto di un boccone amaro che non aveva mai chiesto gli venisse servito.
Forse, per una volta, il Malfoy che avrebbero urlato dagli spalti sarebbe risuonato di un solo significato.

***

Il bagno delle ragazze al secondo piano non era mai occupato. Nessuno voleva entrare lì per via di Mirtilla Malcontenta, che infestava il sifone con le sue lacrime e i suoi guaiti lamentosi.
Albus adorava il bagno delle ragazze al secondo piano, e anche Mirtilla Malcontenta. Certo, cercava di rimorchiarlo, quindi probabilmente di ucciderlo, dalla prima volta che ci era entrato, ma trovava sempre rilassante sedersi sul coperchio di un water qualsiasi a riflettere, a leggere, a studiare, a fare qualunque cosa riuscisse a strapparlo qualche ora dalla sua fin troppa affettuosa e numerosa famiglia. Li amava, tutti quanti, ma c'era veramente poca individualità nei Potter Weasley&Affini. Poco tempo per restare semplicemente in silenzio a guardare il mondo srotolarsi fuori dalla finestra senza che Hugo scoppiasse a ridere, Roxanne si gettasse in una conversazione sul sessismo implicito nei simboli delle Case di Hogwarts e Rose sbuffasse perché l'una o l'altra cosa la stavano deconcentrando.
Albus non era uno che sbuffava, o rimproverava. Lui si dileguava con una scusa, sistemandosi gli occhiali sul naso in un gesto imbarazzato e spariva, letteralmente, giù per le scale.
Assaporava sempre la sensazione di attesa che lo accompagnava fino al secondo piano, l'esitazione nel bussare, nel fare il primo passo all'interno, nell'avvertire il vago odore di acqua stagnante nei sifoni inutilizzati, il tintinnio dei rubinetti che perdevano gocce a tempo di musica, tempo che si trovava a contare con le dita sul coperchio della tazza. A volte si fermava solo qualche minuto per prendere il respiro, scostarsi i capelli dalla fronte e incrociare il proprio sguardo nello specchio. Altre, quando il rumore della vita che esplodeva attorno a lui lo faceva sentire terribilmente inadeguato e stanco, trascorreva ore accovacciato sul gabinetto, caviglie incrociate, divisa spiegazzata e nuca appoggiata al muro. Nessuno aveva mai conosciuto quell'Albus, l'Albus che si allentava in nodo della cravatta rosso e oro, l'Albus che si sbottonava la camicia e se ne stava semplicemente lì ad assaporare il silenzio.
L'unica persona con cui aveva condiviso il bagno delle ragazze del secondo piano lo aveva costretto a nascondersi lì un centinaio di volte, la mano davanti alla bocca e il respiro accelerato, in un orribile nascondino che gli costava spesso una punizione.
Poi Albus Severus Potter aveva semplicemente imparato a venire fuori e affrontare il suo inseguitore, con tutta la calma e la corazza di falso coraggio che aveva imparato ad indossare sempre, così che il mondo non si accorgesse di quanto stupido, spaventato e piccolo fosse il figlio del Salvatore del Mondo Magico.

But it was not your fault but mine
And it was your heart on the line
I really fucked it up this time
Didn’t I, my dear?


Flashback***************************************************************

“Severuuuuuuuuuuus vieni fuori, Severus!” la voce cristallina di James risuonò fra le pareti del bagno del secondo piano, rimbalzando impietosamente sulla ceramica sbeccata dei lavandini gocciolanti e contro le sue orecchie tappate. “Avanti fratellino. Non ti facciamo niente...promesso” lo faceva sempre, promettergli che non gli avrebbe trasformato la faccia in quella di un maiale, o fatto crescere le radici di chissà che albero dalle punte dei piedi. Diceva sempre che si faceva così, tra fratelli, semplicemente ci si divertiva.
L'idea di divertimento di James  Sirius Potter lo terrorizzava come poche altre cose al mondo.
Si accoccolò contro il water, le palme sudate delle mani premute contro la testa, mentre tutt'intorno a lui esplodevano frammenti di sanitari e s'infrangevano specchi.
James lo trovò così, accucciato sul pavimento fradicio e attorniato da fontanelle che spruzzavano acqua fredda tutt'intorno. Lo trovò sporco e umiliato, le lenti appannate dal suo stesso respiro accelerato, le palpebre serrate, a dondolare piano avanti e indietro, per scacciare via la paura.
“Severus” lo rimbeccò circondato dalla solita mandria di pecore che erano i suoi amici. Fece schioccare la lingua con disappunto “quante volte ti ho detto che devi venire da me quando ti chiamo?” Albus sollevò lo sguardo sul fratello maggiore tremando solo leggermente. Diventava così cattivo quando lo guardava in quel modo.
Le due ragazze di Grifondoro che facevano parte della sua cerchia di amichette urlanti lo fissavano con identici sorrisi di compatimento, e Albus sentì le punte dei capelli fradici tingersi di rosso fuoco. Una di loro, Rachel Benton, aveva sollevato un sopracciglio sarcasticamente. Non gli sarebbe davvero importato se non avesse avuto una cotta strabiliante per lei dal primo giorno.
James si accucciò accanto a lui, ben attento a non infradiciarsi più del dovuto l'orlo dei calzoni scuri della divisa
“Non è stato un bello scherzo quello che mi hai fatto Sev...come spiegherò alla Preside Maxime che non ho portato io quel Pus di Bubotubero nel suo ufficio e che non volevo che la sua preziosa cattedra di legno di noce si rovinasse irrimediabilmente?” lo sollevò per un orecchio “come, per Godric, devo dirle che il mio stupidissimo fratello voleva farmela pagare perché non sono stato affatto gentile con quella feccia di Scorpius Malfoy al Banchetto di inizio anno?” torse con violenza il suo orecchio, e Albus poté chiaramente avvertire il dolore pulsargli in tutto il cranio. Non aprì bocca, non mosse un muscolo, trattenne disperatamente le lacrime finché i denti che serravano forsennatamente il labbro inferiore non si macchiarono di sangue.
James lo lasciò andare, con un disprezzo palpabile nella postura e nel tono di voce
“Levatevi dai piedi” disse brusco alla combriccola di amici adoranti alle sue spalle. Finalmente anche le sopracciglia inarcate di Rachel Benton svanirono dietro la porta.
Quando suo fratello posò lo sguardo su di lui, non era più lo stesso James Potter; tutta la rabbia, la tensione, il livore, la frustrazione di vivere nella sua pelle sembrava semplicemente scivolati via; anche lui era figlio del Grande Harry Potter, e ne portava il peso ogni giorno.
Si lasciò cadere senza remore nella pozzanghera d'acqua ai piedi di Albus, ed emise un sospiro sibilante
“L'ufficio di Madame Maxime? Davvero? Non potevi, chessò, nascondermi la cacca di gufo nella federa del cuscino o cose così?” si voltò verso di lui, quasi sorridendo “hai idea di quanti secoli mi terrà in punizione quella lì?” Albus si sentì terribilmente in colpa, più di quando si era intrufolato nella serra numero tre a rubare il pus, e poi direttamente nell'ufficio della Preside per spalmarlo sulla sua preziosa cattedra di legno massiccio. Si sentì in colpa, non perché James l'avesse scoperto, non perché probabilmente avrebbe sfogato su di lui ogni più piccola particella di vendetta che riempiva il suo strano testone spettinato, ma perché non era servito a niente. A niente. Avrebbe potuto portare un drago vivo nell'ufficio della Maxime senza che questo servisse a cambiare niente. Un cavolo di maledetto niente.
Si morse il labbro
“Tu non dovevi farlo Jimmy...io sono”
“Cosa? Triste perché il tuo compagno di giochi non ti parla più? Scorpius Malfoy adesso è pappa e ciccia con l'altro idiota di Zane Zabini e tu sei triste?” batté le palpebre, schernendolo.
Non era così, non era vero che James non capiva cosa significasse perdere qualcuno. Semplicemente, voleva che Albus fosse solo, proprio come lui.
“Parlerò con Madame Maxime e le dirò la verità” concesse alla fine, dopo un minuto di silenzio così spesso da poterci camminare sopra. Jimmy si lasciò sfuggire una risata tremolante
“Chissenefrega, le ragazze impazziscono per queste cose” fece lampeggiare il suo sorriso e si alzò, porgendogli una mano umidiccia e coperta di ferite da Quidditch. E Albus accettò quella mano, semplicemente perché James era suo fratello, e solo o meno che fosse, idiota o meno che fosse, non lo avrebbe mai lasciato indietro, nemmeno per tutto il Pus di Bubotubero del Mondo Magico.
“Dimmi una cosa Severus bello” si appoggiò ad un lavandino sbeccato che schizzava acqua ovunque. Agitò distrattamente la bacchetta, e tutto tornò al suo posto “E' davvero per Malfoy del cavolo che lo hai fatto, o volevi solo farmela pagare?” sogghignò scrollando le spalle “perchè andrebbe bene anche così” gli scompigliò i capelli con un buffetto “Sei fico fratello, proprio fico” Albus lasciò per un attimo correre lo sguardo sul cortile interno, sulle pietre del selciato che rilucevano di un rosso infuocato al tramonto. Aveva trascorso giorni interi con Scorpius in quei cortili, su quelle panchine a tentare di mettere una toppa agli incantesimi che suo fratello aveva provato su di lui. Sospirò e si strinse nelle spalle
"Noi...beh....lui era mio amico" non lo disse mai, ma qualcosa di scomodo nel centro del suo stomaco non avrebbe mai smesso di crederlo.

Fine flashback************************************************************

But it was not your fault but mine
And it was your heart on the line
I really fucked it up this time
Didn’t I, my dear?
(Little Lion Man, Mumford & Sons)


Mirtilla Malcontenta non ci impiegò che un paio di minuti prima di venire fuori dal suo bagno preferito, librandosi a pochi centimetri da lui
“Ciao Allllllllllllbussss” sibilò con una risatina dietro gli occhiali dalla montatura spessa. Il suo viso tondo e sfocato gli ammiccò. Come sempre, malgrado sette anni trascorsi con il fantasma in quel bagno, Albus arrossì
“Ciao Mirtilla...ehm...come ti senti oggi?” l'altra rispose stringendosi nelle spalle
“Morta come ieri...ma è veramente beeeeeeello che tu sia qui” storse il naso, innervosita da qualcosa
“Ieri pensavo che fossi tu ma era quella” strizzò entrambi gli occhi con disappunto “svenevole di Serpeverde con il suo amichetto tenebroso” si morse il labbro “un po' la invidio sai?” gli si strofinò contro la spalla, o lo avrebbe fatto se non fosse stata solo una massa indistinta di luci e ombre oblunghe “è così cariiiiiiiiino” i Albus non ebbe il tempo di chiedere a chi si riferisse, che la porta sbatté violentemente contro i cardini, e passi veloci si mossero nella cacofonia di echi che era quella stanza. E poi ci furono ansimi, e gemiti, e qualcosa che somigliava ad una zip che si abbassava, e sussurri, e risate soffocate, e versi che Albus non aveva mai davvero sentito provenire da persone umane.
Si avvicinò alla porta socchiusa sforzandosi di non scendere dal water per non farsi scoprire. Frances Ilbys era addossata ai lavandini, il reggiseno di un rosso che sua nonna avrebbe giudicato osceno, in bella mostra, i suoi boccoli perfettamente curati gettati distrattamente sulle spalle inarcate. E Incubus Mortimer si muoveva contro di lei aritmicamente, sbuffando come un mulo in calore, decisamente meno aristocratico di quanto Albus si sarebbe aspettato.
In un'altra situazione, avrebbe fatto semplicemente finta che non stesse accadendo, accoccolandosi sul water in attesa che riversassero tutta la loro libido e se ne andassero, ma quel giorno non riuscì a smettere, semplicemente, di fissarli. Non avrebbe saputo dire cosa veramente lo spingesse sull'orlo del voyerismo, se fosse Frances Ilbys che, per una volta, non sembrava appena uscita da un catalogo di alta sartoria per streghe, o per Incubus Mortimer, che dismetteva la sua maschera di gelido stronzo snob per trasformarsi in qualcuno di vero, di vivo, con il sangue che pulsava nelle vene. Avrebbe dovuto essere schifato, inorridito e irritato per quell'interruzione fuori programma ai suoi monotoni sermoni mentali del pomeriggio, eppure non poté  fare a meno di deglutire il vuoto nella gola secca, un vago senso di calore sciogliersi lentamente alla bocca dello stomaco.
Serrò le palpebre, tentando vanamente di ricacciare indietro quei pensieri men che illibati, e appoggiò la testa alla parete di pietra fredda del bagno. Ispirò in silenzio mentre Frances Ilbys emetteva mugolii inarticolati e sospirava rumorosamente. Incubus sembrò soffocare un rantolo, e solo il rumore feroce di respiri accelerati riempì il silenzio assordante di quei pochi secondi.
“Non sa cosa si sta perdendo” ridacchiò Frannie armeggiando con la camicetta stropicciata. Incubus sogghignò mellifluo, l'espressione perversa dei suoi occhi appannata dalla spossatezza
“Probabilmente starà cercando invano di portarsi a letto la ragazzetta” le dita di lui scivolarono sulle asole, ma non sembrarono muoversi armoniosamente come al solito. L'indice indugiò sul penultimo bottone un secondo di troppo “vorrei esserci per vederlo...” Frannie scrollò le spalle
“Sinceramente non mi interessa. Possono pure farsi sbranare da un Ippogrifo con la rabbia” la sua bocca dal rossetto sbafato si contrasse in una smorfia di disappunto, mentre si riavviava i boccoli con una forcina verde acceso, in perfetto pendant con le ballerine di vernice
“Sei crudele, è una cosa a cui tieni anche tu” si voltò verso di lei, avvicinandosi al suo viso “sei gelosa?” l'altra sbuffò passandosi velocemente una mano di rossetto carminio sulle labbra
“Dico solo che questa pagliacciata è durata anche troppo. Abbiamo bisogno di lei per il Rituale, e non riusciremo a catturarne un altro prima della prossima luna piena” sporse le labbra per controllare di aver applicato il tutto alla perfezione e fece schioccare la lingua “finché la situazione non si sblocca siamo costretti a fingere, e non mi piace che quella Wahya ci stia addosso come un falco. Mi sento stanata” Incubus Mortimer le fece scivolare una mano sul seno
“Non dai l'idea di essere una che soccombe allo stress” si scambiarono una lunga occhiata carica di significati, e Albus si costrinse a fissarsi la punta delle scarpe macchiate di fango.
Poi la porta sbatté di nuovo, facendolo sobbalzare
“Siete qui...” la voce emise un sospiro sibilante “c'è qualcosa che dovreste sapere” Incubus si voltò verso Frannie e annuì impercettibilmente
“Me ne occupo io...finisci di sistemarti” passi sovrapposti si allontanarono concitati, e il gocciolare ritmico dei lavandini fu l'unico rumore a impregnare la stanza.
Albus si sporse verso lo spiraglio di luce della porta socchiusa e incontrò lo sguardo di lei nello specchio. Frannie non se ne accorse, occupata com'era ad osservarsi, nei minimi dettagli, a labbra serrate in un'espressione indecifrabile. Poi si staccò di colpo dal lavandino e sbatté la porta del bagno accanto al suo, rigettando anche l'anima. Restò lì, squassata dai conati, per un minuto intero, e cominciò a respirare affannosamente, respiri che si trasformarono in singhiozzi, e in un pianto convulso, tanto agghiacciante da spalancare nella mente di Albus la possibilità di farle avvertire la sua presenza, anche solo per assicurarsi che non soffocasse. Poi i singhiozzi cessarono, e lo sciacquone coprì il vano tentativo di Albus di andarsene senza farsi vedere.
Rassegnato all'inevitabile, si avvicinò al lavandino e cominciò a lavarsi le mani, fingendo indifferenza. La porta si dischiuse piano alle sue spalle, e Frances Ilbys ne uscì eterea e intoccata come una bambola di porcellana. Forse, pensò Albus, quella crepa sul suo viso perfetto l'aveva vista solo lui. Per un attimo, anche lei era stata viva e umana.
Ma lo sguardo di gelida noncuranza che incrociò il suo nel riflesso dello specchio raccontava una storia di cui entrambi conoscevano la fine
“Potter, hai deciso di confessare al mondo i tuoi più intimi segreti?” Albus sollevò un sopracciglio
“Mi sto lavando le mani in un bagno, non mi sembra di aver fatto niente di sconvolgente”
“Delle ragazze, Idiota, il bagno delle ragazze, e a meno che tu non abbia deciso di ammettere la tua confusione sessuale, non spiega cosa ci faccia qui” si avvicinò per sciacquarsi il viso, e i loro gomiti si toccarono senza che lei si scostasse. Anche solo sfiorarlo aveva sempre rappresentato un'onta inaffrontabile per Frances Ilbys. Quella volta nemmeno ci fece caso, sfregandosi le mani come se le avesse immerse nello sterco di drago ancora caldo.
“Mi dispiace” ironizzò “la prossima volta che dovrò svuotarmi la vescica scenderò ancora due piani e magari la farò in un'armatura” Frannie sollevò eloquentemente un sopracciglio accuratamente disegnato
“Per quello che mi interessa, puoi anche bertela d'un fiato” estrasse un tubicino color verde acido e sembrò dedicare tutta la sua concentrazione nell'applicare il mascara sulle ciglia arcuate. In realtà i suoi occhi quasi gialli indugiarono un istante di troppo su di lui, sulla sua cravatta allentata e i capelli più spettinati che mai. Un angolo della bocca le si sollevò in segno di scherno
“Non verrai mica qui a giocherellare con la tua bacchetta Verginello Potter?” Albus, malgrado tutto, arrossì, scatenando in lei una sonora risata gorgogliante “Per Salazar...sei così tenero” il modo in cui lo disse, chiarì inequivocabilmente l'opinione che lei aveva delle persone tenere.
Albus si sistemò istintivamente, punto nel vivo. Con lo sguardo di lei che lo studiava
"Potter sei patetico...riuscirai mai a perdere la verginità, o dovremo organizzare un altro Torneo Tremaghi?"
“Ti farò un fischio quando succederà” la freddò “tanto i tuoi standard non sono mai stati troppo elevati” per un attimo gli sembrò di vederla sgretolarsi dalla rabbia, il giallo che diventava verde e poi nuovamente giallo nelle iridi. L'attimo dopo il suo viso sembrò semplicemente inespressivo
“Non così poco elevati Potter” ripose con cura il tubetto nella borsa dei libri e gli dedicò un'ultima occhiata sprezzante.
Il ticchettare delle ballerine sulla pietra risuonò come la ritirata di un esercito sconfitto.

***

La teiera emise un fischio così penetrante da farle storcere la bocca e chiudere gli occhi nel tentativo d'impedire a quel rumore di diventare tutto il suo universo. Si sforzò di allontanare le unghie già abbondantemente mangiucchiate dalla bocca screpolata, tentando inutilmente d'impiegarle in qualcosa che non le facesse sanguinare.
La rivista babbana datata e incartapecorita che le era capitata a tiro aveva perso ampiamente tutta la sua attrattiva appena le aveva dedicato più di un briciolo della sua attenzione, e le figure in primo piano sulla copertina patinata non erano altro che personaggi dello spettacolo fotografati in spiaggia, sui loro yacht da chissà quanti soldi dei babbani senza avere nessun merito se non quello di essere uno più svestito dell'altro.
Magica o meno, la popolazione del mondo amava sbirciare nelle vite degli altri più di quanto si sforzasse di vivere la propria. Almeno nelle riviste scandalistiche dei maghi le figure si muovevano, aveva pensato lasciandola cadere, annoiata, su un tavolino ricoperto di polvere.
L'interno della casa era buio e odorava di chiuso e abbandono: era stata una dimora signorile un tempo, probabilmente illuminata a giorno degli sfarzi di un'epoca di benessere, persone che entravano e uscivano, che le attribuivano un significato, dei sentimenti, qualcosa di se stessi. Era stata una casa invidiabile un tempo, con ampie vetrate colorate, pavimenti di parquet pregiato, tappeti pregiati e quadri d'avanguardie artistiche appesi alle pareti. Probabilmente nel camino dove le fiamme lottavano per non essere soffocate dalla trascuratezza e la polvere, anni prima c'era stato un fuoco vivo e scoppiettante, un calore che si spandeva in ogni dove e penetrava nelle ossa.
Incubus si sedette sui talloni, tentando di salvare il salvabile, le fiamme incerte che disegnavano strani arabeschi fra i suoi lineamenti.
Anche lui, anni prima, doveva essere stato così. Allo stesso modo era spento, gelido, incolore, soffocato dalla polvere che aveva lasciato accumulare, a strozzarsi con la trascuratezza di cui era responsabile.

Flashback*******************************************

La neve si spandeva a vista d'occhio nel fischio del vento implacabile che le frustava il viso e il corpo indifeso. Era rimasta inginocchiata nella neve che andava sciogliendosi a contatto con la sua pelle ad osservare le palme aperte delle mani che si congelavano piano piano; i capelli fradici e aggrovigliai giocavano di strani riflessi con l'immutabile candore attorno a lei, schiaffeggiandole il viso e le spalle.
Incubus la guardava due passi dietro, immobile, senza in realtà vederla. Era rigido, la mandibola contratta di una pace perversa, l'espressione indecifrabile sul viso sporco di terra e sangue, i capelli appiccicati alla fronte e la divisa ormai stracciata e lercia. Stringeva fa le dita la bacchetta come se fosse il suo stesso cuore pulsante, convulsamente, le nocche bianche allo spasimo tese sulla superficie. Un solo attimo di pressione e l'unica arma che avessero per contrastare qualunque cosa li stesse minacciando si sarebbe frantumata sotto il peso di una rabbia convulsa e di un furore inarrestabile, mascherati dalla vitrea rilassatezza di una farsa.
Alla fine, quando era diventata quasi viola per il freddo, Rose era riuscita a rimettersi in piedi a fatica, gli arti che non rispondevano al suo volere e la sensazione che la carne le si sarebbe staccata dalle ossa. Aveva alzato lo sguardo e l'aveva vista: una casa enorme, signorile, minacciosa e spoglia che si ergeva contro il bianco del cielo e del terreno, quasi un'illusione ottica incastonata nell'insopportabile candore.
"Che cos'è?" si trovò a chiedergli come una stupida di fronte all'imponente abitazione. Gli occhi di lui vagarono quasi distrattamente sulla facciata ricoperta di edera, arrampicata sui cornicioni, le imposte scardinate, gli scavi delle crepe e le macchie scure che disegnavano strani paesaggi sugli angoli bruciati e il tetto cadente. Sembrava una casa a cui avessero strappato la vita con violenza, condannandola alla perenne e maestosa bellezza corrotta dalla desolazione.
Incubus non le rispose per quelli che sembrarono interi  giorni.  Il vento ululava disperatamente infiltrandosi negli spazi scavati dalle intemperie in un continuativo e insopportabile lamento di dolore. Sembrava li implorasse di essere distrutta definitivamente, bruciata e ricoperta di sale; sembrava chiedere la pace di poter essere lasciata andare definitivamente.
Camminarono in mezzo a quello che un tempo era stato il giardino, la staccionata divelta in più punti, i pali che sbucavano sparuti dalla neve, storti e marci, l'ultimo baluardo di quello che erano stati, fieri e lucidi in giorni lontani e pieni di colore.
Il ragazzo si fermò, inginocchiandosi a terra nella neve alta e intoccata, scavando duramente nella gelida consistenza del terreno, fino a che il vecchio selciato non si mostrò ai loro occhi, bagnato e invecchiato, intaccato dal gelo e il disuso. Su una pietra levigata grande quanto un piatto da portata una scheggia verde scavava una venatura inquietante nel ciottolo appiattito, come una goccia di sangue sgorgata da una ferita del terreno.
Incubus fece scivolare le dita in quello che era l'ultimo ricordo rimasto di un Incantesimo mai andato a segno.  
"E' il posto dove sono morto..." sussurrò, sfiorando concentrato l'Avada Kedavra che lo aveva mancato per un soffio, portandosi via tutta la sua famiglia. Tutti conoscevano quella storia, a Hogwarts, da quando Incubus Mortimer aveva fatto la sua comparsa a Trasfigurazione al quinto anno. Il nuovo Bambino Sopravvissuto cresciuto come un babbano fino a quando il suo segreto era stato svelato.
L'ultima traccia visibile della Maledizione Senza Perdono che lo aveva sfiorato appena riluceva di una luce intensa e spaventosa, la cicatrice di un passato che tutti sembravano conoscere meglio di lui. Quella era casa sua, ferita, abbandonata e divorata dalle intemperie, portava la cicatrice che Incubus non aveva mai mostrato a nessuno. Rose trattenne il respiro mentre l'imponente abitazione le restituiva uno sguardo impassibile.

Fine Flashback****************************************

Si sforzò di ignorare i passi di lui dietro le spalle, raggomitolandosi sul tappeto logoro e maleodorante di muffa con le mani protese verso il debole fuoco. Si sentiva come se non esistesse più calore capace di scaldarla, come se il gelo della neve le si fosse impregnato nei muscoli, i nervi e le ossa, come se lo stesso sangue che pompava debolmente nelle vene fosse stato sul punto di congelarsi. Il getto d'aria calda che Incubus aveva usato per asciugare i suoi abiti, e lei, non era stato lontanamente sufficiente a sottrarla da quella sensazione di morte che la circondava.
Non aveva sollevato lo sguardo nemmeno per un secondo, comportandosi come se Rose a malapena esistesse, continuando a muoversi a ritmo serrato in ogni angolo della casa, senza requie, senza aprire bocca, respirare, o dare segno di essere vivo e non uno spettro che popolava quelle mura e attraverso esse tornava a vivere.
“Questo è il posto in cui sono morto” aveva detto poco prima di trascinarsi in stato di trance nella tetra villa abbandonata, e forse era stato davvero così. Forse il bambino venuto fuori dalla neve sette anni prima non era lo stesso che ci era entrato. Forse Rose conosceva solo quello che il gelo gli aveva fatto, che il fuoco aveva bruciato, che l'abbandono aveva consumato di lui. Forse l'Incubus bambino che correva per le stanze preda dell'entusiasmo e della vitalità dei suoi dieci anni le sarebbe piaciuto, forse non avrebbe guardato il mondo con quella fredda noncuranza, forse sarebbe stato anche capace di amare. Forse.
Ma l'Incubus che conosceva lei, quello che silenziosamente, quasi strisciando, le si era fermato alle spalle, non aveva da donare più calore di quelle fiamme morenti, soffocate, disperate. Ciò che era rimasto, dopo la neve, e il fuoco e la polvere erano occhi che non si animavano se non di follia, parole che scivolavano attraverso un cuore vuoto, e gesti meccanici privi di anima, che toccavano il mondo per caso, senza affondarvi, senza lasciare né prendere, senza pulsare. Eppure, come quei guizzi tremolanti di strenua lotta tentavano imperterriti di non venire sopraffatti, qualcosa poteva essere rimasto sepolto al di sotto di decine di strati di dimenticanze e abbandono. Eppure il suo respiro controllato era caldo, e ritmico, e le sfiorava la pelle dietro il collo come soffiato via da un posto che non poteva essere morto, non del tutto.
Incubus si accovacciò a gambe incrociate accanto a lei, fra le dita una mastodontica radio babbana con le valvole, di quelle che nonno Arthur esponeva da anni nel capanno vicino alla Tana, felice come un bambino nel negozio di Scherzi di suo zio George. Le sue dita ancora insanguinate e incrostate di sporco sotto le unghie si muovevano distrattamente, girando le rotelle sovrappensiero, lo sguardo fisso nelle fiamme illuminato di una nuova follia. Se fosse un nuovo tipo di follia o solo un'evoluzione, Rose non era sicura di volerlo sapere. Deglutì mordendosi il labbro
“Perché siamo qui? Perché non siamo tornati indietro, a Hogwarts?” lui non le rispose, le mani impegnate a trovare una stazione radio senza voce, sintonizzata su una frequenza fantasma. Alla fine, lentamente, si fermò, poggiò l'anticaglia accanto al fuoco, in modo che le deboli fiamme si riflettessero sulla liscia superficie in legno, restando a guardarla senza sbattere le ciglia, come se temesse di perdere anche solo un istante di quell'ipnotico spettacolo. E rispose
“Piagnucolare non rientra nei miei piani” ribatté semplicemente, la voce modulata e piatta. Rose avvertì la rabbia sbirciare dall'angolo remoto in cui l'aveva custodita fino ad allora. La paura, il dolore e il senso di sconfitta che l'avevano attanagliata durante quei lunghi giorni di prigionia erano stato appropriatamente soffocati dal sollievo di essere salva, fuori da quella cella che odorava di speranza tradita. Incubus non le aveva parlato, non l'aveva guardata o toccata in nessun modo, e si stava avvinghiando in se stesso per non doverla affrontare. E lei non era una persona facile da ignorare
“Bene” si alzò, allontanandosi dalla debole carezza delle fiamme, rendendosi veramente conto di quanto, in realtà, facesse freddo. Fece per Smaterializzarsi, inutilmente.
“Non ci sperare, finché io sarò vivo questa casa sarà Irrintracciabile e nessuno potrà Materializzarsi o Smaterializzarsi tranne me” Cominciare a fargli domande sul genere di Incanto Fidelius che avevano usato sarebbe stato tremendamente da Rose, ma tremendamente inopportuno.
“Lasciami andare allora. Non ti servo a niente, non vuoi nemmeno avere a che fare con me, né io con te. Riportami a casa e resta qui a contemplare il fuoco acceso fino alla fine dei tempi, non mi interessa. Io voglio solo tornare a casa” lo sguardo di Incubus scintillò nel suo, minaccioso
“Tu non ti muoverai di qui Rose Weasley, non fino a quando non avremo scoperto chi ci ha rapiti, e perché?” serrò i pugni contro i fianchi
“E se io non volessi saperlo? Se a me importasse solo di essere viva e di avere ancora una vita da cui tornare?” l'espressione che comparve lentamente sul viso dell'altro non sarebbe sembrata un sorriso nemmeno a Pablo Picasso, eppure poté giurare che lo fosse
“Tu non hai proprio niente da cui tornare Rosie. Tu sei a Hogwarts, nel tuo comodo letto a baldacchino insieme alle tue compagne di stanza a dormire beatamente, ignara di cosa sia il dolore, o la prigionia, o la paura” inspirò “tu non esisti più, e nemmeno io” ravvivò il fuoco con un attizzatoio arrugginito “goditela, perché esistere pare incredibilmente difficoltoso ultimamente” continuò a giocherellare con le braci ardenti per interi minuti, finché lei non sbottò, strappandogli l'attizzatoio dalle mani, mandandolo a schiantarsi contro una parete. Il clangore si spandette nel silenzio tombale di quella stanza, scivolandole sulla pelle come un brivido gelato. Non a lui. Lui non sentiva niente.
“GUARDAMI, MALEDETTO SALAZAR!” urlò più per scacciare il terrore che per richiamare la sua attenzione. Aveva mantenuto la calma costantemente, senza lasciarsi andare allo sconforto e a nient'altro che potesse renderla debole. Ma lei si sentiva debole, era davvero terrorizzata, e si sentiva parte di un disegno di cui non riusciva nemmeno a scorgere i contorni, intrappolata in una tela troppo complessa per la sua povera mente e i suoi poveri nervi. Era a pezzi, avvertiva il mondo scricchiolarle sotto i piedi impietosamente, impiegava ogni briciolo di volontà per non mettersi a tremare fino a battere i denti, e Incubus Mortimer sembrava più interessato a far funzionare una maledetta radio d'epoca che non riceveva una frequenza da anni piuttosto che guardarla negli occhi.
Lo colpì ad una spalla con tutta la debole forza che riuscì ad imprimere a quel gesto. Lo colpì, cercando di scrollarlo, di ravvivarlo come il patetico fuoco ai loro piedi.
Incubus si alzò con uno scatto, bloccandole le spalle. Se le avesse urlato contro non avrebbe potuto ottenere un effetto più immediato. Ogni pensiero partorito dalla mente di Rose si spense in un vorticare di sensazioni diverse che le intossicarono la stessa facoltà di discernimento.
Si sentì improvvisamente debole, e desiderò solo di essere con qualcuno che non avrebbe battuto ciglio nel vederla piangere disperatamente. Ma non avrebbe pianto Rose Weasley, perché piangere non avrebbe rappresentato che un nuovo problema da gestire, e a lei era stato insegnato che i problemi vanno risolti, non alimentati.
Incubus Mortimer le stringeva le spalle in una presa che sarebbe potuta essere imperiosa, ma sembrò a malapena sfiorarla. Il suo sguardo, figlio di una follia mai vista prima, poteva incatenarla ovunque senza toccarla.
“Hogwarts è compromessa” esalò alla fine “non siamo al sicuro lì più di quanto non lo siamo stati in quella cella” sollevò un angolo della bocca, tentando di apparire rilassato “Ma non si dica che sono un autoritario miope e senza cuore” si attorcigliò una ciocca di capelli attorno all'indice e sogghignò “Se vorrai andare ancora via domani, allora ti scorterò personalmente dalla tua mammina Mezzosangue e potrai riabbracciare i tuoi patetico parenti. Per quanto possa essere spaventoso condividere con me un'altra notte” il modo in cui lo disse, quasi senza emettere suono, le fece accapponare la pelle sulla spina dorsale “è meglio che tornare lì”. Solo in quel momento, Rose Weasley si accorse che tutto, fuorché la paura di restare lì, avevano mosso le sue azioni.
Malgrado tutto, che Incubus Mortimer fissasse ostinatamente fiamme morenti di un camino semidistrutto o la decidesse che baciarla fosse la tattica migliore per fuggire da una prigionia di giorni, aveva smesso di farle paura molto tempo prima. Forse, l'unica cosa a farle davvero paura, era il modo in cui agiva di riflesso.
“Non mi terrorizza Incubus” sentire il proprio nome pronunciato da lei fece danzare qualcosa nella follia dei suoi occhi “stare qui non mi terrorizza, questa casa distrutta non mi terrorizza, il tuo sguardo folle non mi terrorizza” inspirò tremando leggermente, e poso le mani su quelle di lui, ancora poggiate sulle sue spalle. Ricaddero lungo i fianchi, mollemente, debolmente, stancamente. Chiuse gli occhi, avvertendo solo il ritmico pulsare del proprio sangue. Poi li riaprì, nella semioscurità di una casa infestata da fantasmi che non poteva vedere, perché sopravvivevano in lui. Al posto suo, divorandolo.
“Questo mi terrorizza" ammise semplicemente lasciandogli andare le dita "non avere più paura di te...è terrificante...” Incubus Mortimer le coprì lo zigomo con il palmo della mano
“Sono sempre il cattivo della tua storia Rosie, dimenticarlo è da stupidi” la vena vagamente minacciosa delle sue parole le scivolò addosso impietosamente. Era vero, tutto maledettamente vero.
“Non è la cosa più stupida che ho fatto ultimamente” tornò a fissare le fiamme, che nel frattempo sembrarono ravvivarsi leggermente, sfrigolando contro il legno finalmente asciutto.
Incubus si chinò sulla radio ancora accanto al camino, e la gettò nel fuoco dopo appena un attimo di esitazione. Il fuoco parve cantare e scoppiettò investendoli di un rassicurante respiro di calore.
E il gelo sembrò semplicemente essere andato via, come mai arrivato.
Si abbracciò le ginocchia contro il petto e rimase semplicemente in silenzio.

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Angolo della delirante autrice: buonasera...stranamente non notte, non ad orari improponibili e con un po' più di calma (e meno errori di ortografia) del solito^^
Questo capitolo tenta vanamente di scavare un po' di più nel nostro (almeno mio sì) amato Albus, il suo rapporto con James, tutto quello che della sua “rottura” con Scorpius non abbiamo mai saputo. Non ha raccolto molti fans Albus, e posso anche capire perché, spero di averlo ridimensionato agli occhi dei miei amati lettori. Fatemi sapere se il suo fan club si è rimpolpato un po'^^
Un paio di precisazioni tanto per dire. Orfeo Emerso è un romanzo di Kerouac (la Beat piace a Scorpius, come certamente voi attenti e adorabili lettori ricorderete), e, direttamente da Wikipedia, “narra le passioni, i conflitti e i sogni di un gruppo di giovani bohemians . Kerouac scrisse il romanzo subito dopo aver conosciuto Allen Ginsberg, William Burroughs, Lucien Carr e altri futuri amici. La vicenda si svolge all'interno e intorno alla Columbia University.”
La canzone che fa da colonna sonora al capitolo è Little Lion Man dei Mumford & Sons (gruppo folk inglese che amo come poche altre cose al mondo*__*) e potete trovarla qui
Un immenso a mai abbastanza caldo ringraziamento a tutti voi che siete ancora qui nonostante tutto, al Club dello Sclero nelle manifestazioni e nei momenti in cui si palesa, e a quelle persone che ormai tutti conoscete che sono alle mie spalle, sempre, nel caso perdessi nuovamente l'equilibrio. Nessuna dedica sarebbe mai abbastanza.
   
 
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