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Autore: Alice Morgan    27/01/2012    7 recensioni
La diciassettenne Ariel Green non ha mai creduto di essere una ragazza normale. Perché Ariel, dopo la perdita del padre, è venuta in possesso di un potere terribile ed oscuro: percepire la morte imminente di chi le sta a fianco. Per le vie sporche e strette che si srotolano dal centro cittadino, negli ospedali e persino sui mezzi pubblici … ogni volta che qualcuno sta per morire, lei lo sente. E non può fare nulla per fermarlo. Fino a quando, un giorno, un terribile presentimento fa tremare ogni singola cellula del suo corpo e la lascia senza fiato. Per la prima volta la Morte non sembra cercare nessuno. Perché, questa volta, la Morte vuole lei.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.

Capitolo 3 – prima parte
Non essere soli

 

Ogni uomo uccide una cosa che ama.
Anonimo

 
 

Mentre scostava i rami nel vano tentativo di non farsi male tra gli alberi, Ariel non riusciva a fare a meno di guardarsi continuamente alle spalle. Mitch stava dietro di lei e pareva non rendersi minimamente conto dei piccoli arbusti ai suoi piedi che continuavano a graffiarlo. Sembrava, invece, molto interessato alla ragazza, tanto che non le toglieva gli occhi di dosso un attimo. La scrutava avvolto nella sua veste scura, lo sguardo che guizzava sul suo viso ogni volta che Ariel si feriva. Lei, d’altra parte, iniziava ad innervosirsi per tutte quelle attenzioni e rimpiangeva di non essere scappata quando ne aveva avuto la possibilità.
Il silenzio, rotto solo dal suono dei loro passi, era inquietante ed opprimente. Di solito l’assenza di rumori riusciva a confortarla, ma in quel frangente le era impossibile immaginare di non fare al ragazzo delle domande.
Evidentemente Mitch la pensava alla stessa maniera. «Posso chiederti, di grazia, dove mi stai conducendo?», chiese, in un tono che fece ribollire il sangue ad Ariel. Si atteggiava in un modo fastidiosamente altezzoso, quasi starle a fianco lo annoiasse a morte.
«Stiamo andando a trovare una persona», rispose l’altra, cercando di tenere a freno l’irritazione che andava crescendo. «Ho bisogno di controllare una cosa».
In realtà doveva assicurarsi che il suo migliore amico stesse bene. Non riusciva a capacitarsi del fatto di aver lasciato la casa di Zac in quel modo, senza essersi prima accertata che non gli fosse successo nulla. Che razza di amica si comporta in questo modo?, pensò.
Mentre spezzava in due il ramo più basso di un pino, per farsi largo e aprirsi un sentiero nel bosco, notò quanto le sue mani stessero sanguinando. Troppo impegnata a scappare, non si era accorta delle ferite che il suo corpo aveva riportato durante la fuga. Il liquido viscido le imbrattava capelli e maglietta e le ginocchia non erano messe meglio: i jeans le si erano lacerati quando era caduta, e ora sangue e terra si mescolavano in uno strano intruglio grumoso e orripilante.
Mitch interruppe la corrente dei suoi pensieri. «Fa andare me, davanti», disse, cercando contemporaneamente di farsi spazio per precederla. Ariel rimase a fissarlo, incredula: non si capacitava di tutta quell’ improvvisa gentilezza. Insomma, poco tempo prima voleva ucciderla! «Perché tutta questa preoccupazione nei miei confronti?», chiese, non riuscendo più a trattenere la curiosità per sé.
Il ragazzo, che ora stava rompendo con un calcio un altro ramo, assunse un’aria decisamente perplessa. I suoi occhi grigi si fissarono in quelli scurissimi della ragazza, quasi stessero cercando qualcosa in quel vuoto. «Cercherò di semplificarti il discorso», iniziò.
Semplificarti, rifletté Ariel. Mica sono una stupida, dannazione!
«Sono qui per proteggerti», spiegò lui. «Non so come, ma sei riuscita a invocarmi: sono un Genio. Un protettore di anime, colui che conserva in sé i poteri originari dell’Universo. Una creatura potente …».
«Credo di essermi persa», ammise la ragazza. Okay, forse un po’ stupida lo sono.
«In realtà è più facile di quello che sembra».
«È facile, dici?», chiese Ariel con una punta di isteria.
Quella situazione diventava sempre più assurda: in primis, stava parlando di invocazioni con un tizio probabilmente affetto da qualche sindrome dello sdoppiamento di personalitàE – secondo - la cosa le iniziava a sembrare persino naturale: o era a un passo dall’ammattire, oppure la sua fantasia nelle ultime ore era diventata estremamente eccessiva.
Sicura, Ariel?, domandò una vocina nella sua testa. Chi sei tu, che sente quando qualcuno sta morendo, per decidere cosa è normale e cosa no?
«Io non credo proprio», continuò la ragazza, scuotendo il capo per cercare di far luce nella confusione crescente. «Tanto per cominciare, perché volevi uccidermi?».
Pessima mossa.
Si maledisse in silenzio: MAI accusare prematuramente un assassino di qualcosa.
Possibile che vedere tutti quei film polizieschi in TV non la facilitasse nell’interrogare un presunto criminale?
Rettifico: sono decisamente stupida.
Quello si voltò e sgranò gli occhi, mentre una moltitudine di domande inespresse gli affiorava sul viso. «Sei impazzita, per caso? Cosa ti fa pensare che volessi farti fuori?».
Ariel si morse la lingua. Come poteva spiegare a Mitch che le era bastato entrare nella casa di Zac per sapere che qualcuno stesse cercando di ucciderla? Non aveva proprio voglia di far la figura della pazza in quel momento, non con uno sconosciuto. Anche se, tutto sommato, Mitch non era da meno in quanto a stranezze. Tanto per cominciare perché se ne andava in giro vestito a quel modo? E quei dannati occhi! Non erano normali! Non che avesse avuto a che fare con cose normali, nella sua vita.
«Non importa», si limitò a rispondere Ariel. «Cosa stavi dicendo?».
Mitch la guardò di sbieco - evidentemente riluttante a cambiare argomento - e riprese a parlare, un ghigno malizioso stampato sul viso. «Cosa ne diresti di una dimostrazione pratica?», chiese.
La ragazza, senza volerlo, fece un passo indietro, i muscoli tesi e pronti alla fuga. Per poco non si prese a schiaffi da sola: come poteva essere stata così incosciente? Nemmeno la più stupida eroina del peggior film horror avrebbe avuto la folle idea di andarsene in giro con un presunto assassino! Eppure, eccola lì, intrappolata nei boschi mentre un pazzo furioso voleva farle unadimostrazione pratica.
Il ragazzo probabilmente notò la sua espressione scettica e terrorizzata e si affrettò ad aggiungere: «Oddio, no! Non ti voglio fare del male! Anche se dopo il tuo gancio destro, dovrei averne tutto il diritto, sia chiaro. Oh, merda …! », imprecò quando tastò l’effetto che le sue parole avevano avuto sulla ragazza. «… non intendevo quello! Senti, voglio solo farti vedere una cosa. Cerco solo di convincerti che non sono un pazzo, tranquilla». E prima che Ariel avesse il tempo di tirarsi indietro, quello alzò una mano al cielo e la chiuse a pugno.
Improvvisamente, l’aria attorno a loro cambiò. Alla scrosciare piovano si sostituì un rumore sordo e ovattato: ricordava vagamente ad Ariel il battito di un cuore, quasi sotto il fango ai loro piedi si nascondesse un tamburo. Poi, gli alberi che li circondavano parvero piegarsi in avanti, attratti da chissà quale forza di gravità. Le dita di Mitch si distesero e sul suo palmo apparvero di nuovo quelle strane fiamme che poco tempo prima avevano avvolto la ragazza nella grotta. Erano raggomitolate l’una sull’altra a creare una sfera perfetta che proiettava bagliori verdastri sui tronchi delle piante vicine a loro. Era uno spettacolo meraviglioso e allo stesso tempo terrificante. Pareva che la natura si stesse ribellando alla logica umana e avesse deciso di cambiare le regole dell’Universo nel giro di una manciata di secondi.
Il ragazzo fece un’aggraziata giravolta su se stesso e distese entrambe le braccia, i rami aggrovigliati fra loro come fossero rovi di fronte a lui. Con un debole fremito lanciò la palla di fuoco che, in un turbinio di schegge e suoni disarticolati, annientò tutto ciò che le si parava davanti. Sembrava farsi spazio fra gli alberi come Mosè aveva fatto con le acque. Ariel assisteva alla scena ammutolita.
Mitch si girò verso di lei, uno strano luccichio negli occhi e un sorriso sghembo a incorniciargli il volto. «Cosa ne pensi?», chiese con più di una punta di curiosità nel tono di voce.
Lei, ancora frastornata da ciò che aveva appena visto, cercò boccheggiante le parole che non riusciva a trovare.
«Penso che avresti potuto farlo prima», snocciolò infine, rendendosi a mala pena conto di cosa stesse dicendo e osservando distrattamente il sangue che le colava lento dalle mani.
 

***


La casa di Zac sembrava, se possibile, ancora più inquietante avvolta nella coltre di nebbia ed oscurità che pareva esservi insidiata da che Ariel ci aveva messo piede, poche ore prima. Quasi si aspettava di riprovare tutta la paura e l’orrore di cui era stata testimone. Per fortuna, e con un certo senso di gratitudine nei confronti della buona sorte, nulla di tutto ciò accadde. Ora che Mitch le stava a fianco, quasi poteva sentire il coraggio che sembrava animarla e costringerla a proseguire fino alla porta dell’abitazione. Entrò senza troppe cerimonie, facendosi largo tra la moltitudine di tappeti nel corridoio.
«Zac!», urlò per la terza volta in quella giornata. «Zac, rispondimi, dannazione! Sono, io, Ariel!».
Niente.
Il silenzio più totale.
«Stiamo cercando qualcuno?», intervenne Mitch alle sue spalle.
«Zitto!», gli fece segno la ragazza, portandosi l’indice sulle labbra. «Zac?», riprovò.
Stavano in piedi nel salotto, gli occhi che guizzavano alla ricerca di qualcosa nel buio intenso ed opprimente. Il cuore che le batteva forte, Ariel si avviò a passo incerto verso la cucina. Era piccola, di legno e vi aleggiava il delicato profumo dei pini del bosco. La ragazza si fermò sul tavolo di compensato sul quale Zac aveva consumato i suoi pasti miliardi di volte. Ora, vi era attaccato un post – it giallo fosforescente e sopra di esso, spiccava la scrittura raggrinzita e confusa di sua nonna.
 
Sono andata a trovare zia Agatha.
Torno tra qualche giorno.


Nonna.

Ariel leggeva poco sorpresa il biglietto: non era la prima volta che l’anziana donna lasciava solo il nipote. Era solita partire per le mete più strane appena ne aveva l’occasione, senza dargli alcun preavviso. Per avere quasi ottant’anni si comportava in un modo piuttosto improbabile e decisamente troppo avventuriero.
La ragazza si lasciò cadere sulla piccola poltrona in pelle accanto al tavolo e si prese la testa tra le mani, mentre la confusione sembrava innalzare muri invalicabili. Dove si è cacciato Zac?
Cercò di fare mente locale, ma qualsiasi cosa pensasse la portava inevitabilmente ad un vicolo cieco.
Avrebbe potuto percepire la morte dell’amico, nel caso qualcuno l’avesse ucciso? Di solito sì, ma ultimamente il suo potere pareva fare cilecca ogni tre per due. Per esempio, Mitch sembrava non avere alcuna intenzione di ammazzarla, a differenza di quanto poco prima le aveva suggerito l’istinto.
«Sei confusa», disse improvvisamente il ragazzo. Più che una domanda, la sua frase aveva il tono di una vera e propria affermazione.
Ariel si limitò a scrollare le spalle, quasi il gesto potesse farle scivolare i brutti pensieri di dosso. Le gambe incerte, si alzò e si diresse verso la porta da cui era entrata. Mitch la seguiva in silenzio, come un’ ombra petulante e spaventosa.
«Non sei obbligato a seguirmi ovunque, cazzo!», scattò lei, mentre un moto di stizza le faceva chiudere le mani a pugno, quasi volesse lanciarsi in una rissa.
«Oh, io credo proprio di sì, invece».
La ragazza gli puntò gli occhi addosso. Non aveva avuto molto tempo per farci caso, ma ora che lo guardava con più attenzione, si rese conto che Mitch era proprio un bel ragazzo. Questo se, ovviamente, non si considerava il pessimo carattere e l’attitudine allo stalking. Era alto, muscoloso - ma non troppo robusto -, con la zazzera disordinata di capelli corvini che gli incorniciava il volto dai lineamenti perfetti. E, poi, c’erano gli occhi. Quegli occhi intensi e così assurdamente grigi. Più li osservava e più si convinceva del fatto che potesse realmente avervi corso una tempesta, dietro.
«Fa quello che vuoi», rispose mentre si voltava di nuovo e cercava di ignorare, per quanto possibile, la sua presenza.
 

***


La ghiaia che scricchiolava rumorosamente sotto i loro piedi, ripercorsero il piccolo sentiero che portava vicino alla fermata dell’autobus. Ariel si guardava intorno come un’ossessa alla ricerca di minacce che, però, non comparvero.
«E ora dove andiamo?», chiese Mitch, un po’ perché gli interessava davvero saperlo, un po’ per mettere fine all’assurdo comportamento della ragazza.
«A casa. Per riflettere», rispose quella distrattamente, in modo quasi meccanico. Poi, lo guardò negli occhi, mentre coglieva a poco a poco il senso delle sue parole.«Andiamo?», domandò. «Noi non andiamo da nessuna parte».
«Ti devo proteggere».
Ariel scosse la testa, quasi a volersi schiarire le idee. «Non crederai davvero che ti porti a casa mia …», cominciò, ma una strana emozione stava impadronendosi di lei e le impedì, in qualche modo, di continuare con la sua arringa. Si trattava della stessa identica sensazione di profonda sicurezza che l’aveva investita la prima volta che Mitch le era apparso. Quello la guardava con gli occhi grigi spalancati, come se volesse trasmetterle una qualche sorta di messaggio telepatico. Pareva mormorarle di stare tranquilla e di fidarsi.
Che mi stia ipnotizzando?, ebbe il tempo di pensare, poi il suono dell’autobus che si faceva largo nel traffico ruppe quell’inaspettato contatto visivo.
I battenti spalancati, si issò sul mezzo mentre il ragazzo la seguiva silenzioso. Mentre si lasciava sprofondare nel sedile più lontano dal conducente, pensò di essere fortunata, dopo tutto: Carnevale era vicino e nessuno avrebbe fatto troppo caso alla strana veste scura di Mitch.
 

***
 

«Benvenuto nella mia umile dimora», disse Ariel scostandosi dall’uscio della porta, in modo da poter far entrare Mitch. Quello, un piede nell’atrio, si guardava in giro quasi stesse fiutando l’aria attorno a sé.
La ragazza non poté fare a meno di arrossire. Aveva immaginato un miliardo di volte come sarebbe stato portare un ragazzo – che non fosse Zac – a casa sua  e nessuna delle sue fantasie era lontanamente paragonabile a quello che stava accadendo.
«Carino», commentò Mitch.
Ci mancò poco che Ariel non gli scoppiasse a ridere in faccia. Casa sua non eracarina; a dirla tutta, non si rispecchiava nemmeno in uno dei tanti canoni che un’abitazione dovrebbe avere per essere definita rispettabile. Era piccola, sempre in disordine, con il soffitto basso e le pareti dei muri tinte di un azzurro slavato e triste. Improvvisamente la ragazza provò imbarazzo per il casino che dilagava nell’atrio e si maledisse in silenzio per non aver messo a posto le sue cose prima di uscire. Con la coda dell’occhio cercò il volto di Mitch in attesa di osservare la sua reazione di fronte a quel soqquadro. Ma il ragazzo pareva non rendersi minimamente conto di tutti i libri e i fogli sparsi sul pavimento. Sembrava, invece, interessato all’espressione sollevata della ragazza, quasi si ritrovasse ad assistere a uno spettacolo buffo e divertente e non avesse nessuna intenzione di perderselo. Ariel si irrigidì di fronte a quell’atteggiamento di ostentata curiosità: odiava quando la fissavano e detestava ancora di più il fatto che, a farlo, fosse un tizio strambo come Mitch.
Al ragazzo non sfuggì la tensione dei suoi muscoli. «Sei sempre così ostile?», chiese. La ragazza si limitò ad alzare le spalle, come per fargli capire che poco le importava di cosa pensasse di lei uno sconosciuto. Si avviò in cucina nella speranza di trovare qualcosa da mangiare: si era fatta sera e non toccava cibo dal giorno precedente.
«Dove sono i tuoi genitori?», domandò il ragazzo alle sue spalle.
«Vivo praticamente da sola», rispose, mentre rovistava tra gli scaffali. «Mia mamma torna a casa dal lavoro soltanto durante i week-end». Trovò un budino alla vaniglia nel frigorifero. Odiava la vaniglia e fece fatica a trattenere una smorfia di disgusto mentre apriva la confezione e prendeva un cucchiaino dalle stoviglie. Si voltò verso Mitch, che ora la guardava con un’ espressione indecifrabile. Ancora una volta, si vide costretta a distogliere lo sguardo: quegli occhi erano troppo prepotenti, troppo invasivi. Sembravano volerla spogliare di tutti i suoi segreti e travolgerla nel caos che si celava dietro di essi. «Ne vuoi un po’?», chiese, nascondendosi dietro una ciocca di capelli color fuoco.
«No. Tuo padre?».
Il budino le scivolò dalle mani e cadde a terra, spappolandosi. Ariel imprecò. Prese uno straccio e si inginocchiò nel tentativo di pulire, ma l’aria iniziava a mancarle e dovette correre ad aprire la finestra per fermare l’attacco d’asma. Mitch assisteva alla scena basito.
«È morto», riuscì infine a dire, mentre ansimava alla disperata ricerca di ossigeno. Pensare al padre le faceva provare sensazioni simili a quelle che l’avvertivano della morte imminente di qualcuno. Non aveva mai capito il perché, ma sospettava fosse per il fatto che il suo potere era nato esattamente il giorno della sua scomparsa. Il ragazzo non commentò. Ariel odiava il silenzio imbarazzato che seguiva ogni volta che parlava della morte di suo padre. Le era sempre sembrato inutile ed inadeguato. Non era il silenzio a portare indietro i defunti, né tanto meno le parole di conforto o le smorfie di compassione. Suo malgrado, non poté fare a meno di fissare lo sguardo in quello di Mitch. Anche lui, adesso, provava pena per lei? O si stava limitando a pensare a quanto sfortunata fosse stata? Se era così, non credeva di poterlo sopportare.
«Ho un milione di domande da farti», disse scostandosi dalla finestra, con la speranza di porre fine a quella tensione crescente. La sua voce era stranamente ferma e decisa e non poté fare a meno di esserne sollevata. Ripescò dal frigo un altro budino.
«Domani. Sei stanca adesso ed è meglio se prima ti riposi».
«Io non credo …», cominciò, ma il ragazzo la interruppe. «Sarò di nuovo qui, domani», disse. «E, allora, potrai chiedermi tutto quello che vuoi. Ma adesso vai a dormire».
Il suo tono non ammetteva repliche e Ariel dovette accettare il fatto di essere veramente esausta: era stata una giornata lunga e faticosa e aveva bisogno di recuperare le forze. E, poi, Mitch aveva ragione: il giorno dopo avrebbero avuto tutto il tempo di parlare.
Ancora un po’ riluttante, si avviò verso la camera da letto, quando si rese conto che il ragazzo la stava seguendo. Si voltò e lo guardò con aria interrogativa.
«Non ti lascio da sola», disse l’altro, senza scomporsi. Ariel impiegò un attimo a capire cosa significassero quelle parole. Arrossì violentemente, mentre le intenzioni di Mitch le apparivano sempre più chiare. «Tu non dormi in camera mia!», urlò, cercando di assumere un’espressione il più possibile scandalizzata. In realtà, mai come in quel momento aveva bisogno di aver qualcuno vicino. Ma questo, ovviamente, non poteva dirlo.
«E allora dove vado?», chiese l’altro di rimando.
«Non hai una casa?»
Il ragazzo sbuffò, visibilmente irritato. «No. E anche se l’avessi non potrei andare da nessuna parte: devo proteggerti».
Ancora con questa storia. Ariel liquidò la faccenda con un gesto della mano.«Okay. Per oggi dormi sul divano», disse infine. «E sarà meglio che non ti trovi in camera mia, quando mi sveglio».
E in quella si voltò, senza degnarlo più di uno sguardo. Mentre si chiudeva la porta alle spalle, non poté fare a meno di pensare a quanto fosse piacevole la sensazione di non sentirsi soli, per una volta nella vita.
 
Note dell'autore: 

Come promesso, questa parte è più lunga rispetto alle altre! Ecco perché ci ho messo un po’ di più a pubblicare :P Spero vi piaccia, perché per me scriverla è stato un piacere.
Riassumendo: finalmente Ariel e Mitch hanno fatto le presentazioni. Ma ancora molti misteri sembrano aleggiare intorno alla figura del ragazzo: chi è? E che cosa vuole in realtà? Ariel riuscirà a fidarsi di lui? E, infine, che fine ha fatto Zac?
Scopritelo nella seconda parte :)

  
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