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Autore: Sylphs    28/01/2012    3 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Masquerade

 
 
 
 
 
Il volto inanimato di Christine gli sorrideva con dolcezza nelle tenebre dell’angolo in cui era posizionata la bambola che, con le sue mani, aveva costruito allo scopo di avere sempre davanti agli occhi l’immagine della sua musa, per trarre ispirazione dall’armonia dei tratti e dallo sguardo puro dei grandi occhi malinconici. Era bella come un angelo, solo la metà di quanto riusciva ad esserlo in carne ed ossa, con quella diafana carnagione color latte, quelle labbra piene e rosate, quel piccolo naso all’insù e quei morbidi riccioli perfetti che le scendevano orgogliosamente fino alla vita. Le sue braccia snelle, lasciate scoperte dall’abito bianco che, secondo lui, metteva ancora più in risalto la sua purezza, erano tese nella sua direzione in un abbraccio illusorio e la sua espressione, aperta e spontanea, non gli riservava alcun disgusto, alcun orrore.
Chissà perché non si era ancora disfatto di quel pupazzo. In fondo apparteneva ad un’altra epoca, forse addirittura ad un’altra vita. Una vita in cui gli bastava contemplare il sorriso di una bambola per sentirsi in pace con se stesso, in cui cadeva talmente in basso da interagire con una sagoma inanimata, piuttosto che con la vera Christine. Adesso che quel tempo era scivolato alle sue spalle per sempre, che aveva sancito l’inizio di un nuovo periodo come Fantasma dell’Opera, quasi si era dimenticato di possedere quella statua di cera. L’aveva riscoperta per caso, la mattina del quarto giorno che la sua indesiderata ospite viveva con lui nella Dimora sul Lago, staccando dai suoi supporti un drappo particolarmente malridotto per sostituirlo con una stoffa più pregiata e ritrovandosi davanti lo spettro del suo antico amore. Con suo enorme fastidio, il cuore aveva avuto un sobbalzo allorché era apparso nell’oscurità lo splendido viso sorridente, e aveva involontariamente lasciato cadere il drappo in un moto di stupore. Poi, con quei meccanismi affascinanti e sconosciuti, la memoria era corsa in suo aiuto e si era rammentato della sua umiliante creazione.
Era rimasto immobile dinnanzi ad essa per lungo tempo, studiandola nei particolari con i suoi fiammeggianti occhi azzurro scuro e cercando invano di limitare gli spasmi di rancore e di vergogna che gli agitavano i lineamenti mezzo disfatti dalle piaghe. Credeva di esserle diventato completamente indifferente, di aver preso quella storia e averla gettata via, ma non poteva ignorare la calda incandescenza che danzava nelle sue vene e nelle sue ossa, né il sapore amaro che gli riempiva la bocca. Quella piccola serpe, quel demonio, era ancora dentro di lui, lo torturava con la sua tintinnante risata, con i suoi sorrisi riservati, con il gesto d’orrore con cui s’era gettata a terra in ginocchio allorché aveva veduto per la prima volta la sua faccia. E si prendeva gioco di lui, sorridendogli in quel modo gentile e falso con la sua bocca di cera, tendendogli braccia che avrebbero preferito esser mozzate piuttosto che stringere lui, splendendo nella sua perfetta e incorruttibile beltà. Per anni e anni aveva desiderato invano di poter affondare le mani in quella lussureggiante capigliatura, di poter baciare quelle labbra rosee e di serrare al suo petto quel corpo flessuoso e scolpito, ma adesso, indugiando sulla levigatezza delle membra e sul lungo collo candido, provava soltanto un risentimento totale, un’acredine spaventosa, un odio che sarebbe stato in grado, addirittura, di sciogliere la cera e deformarla fino a farla divenire pozza fredda sul pavimento. La sola immagine della donna che aveva amato più di se stesso gli causava un tremendo ribrezzo, ed era sicuro che se si fosse trovato davanti Christine Daaé in carne ed ossa, si sarebbe avventato su di lei con un urlo e l’avrebbe dilaniata con le unghie e con i denti, sfogando tutto il dolore che gli aveva riversato nel cuore abbandonandolo al suo destino.
Perché il mondo era governato da leggi così ingiuste ed ipocrite? Perché un uomo come lui, esempio di sventura e di prostrazione, era costretto a patire le pene dell’inferno nel fondo di un buco mentre lei, lei, incapace persino di amare un’anima celestiale nascosta dietro le rosse cicatrici, si godeva le bellezze della vita nel palazzo de Chagny? Certo, si sarebbe preso la sua rivincita a spese dei malaugurati frequentatori del teatro dell’Opera, ma la verità nuda e cruda, una verità che si era negato, era che era lei l’unica che voleva davvero. L’aveva lasciata andare, le aveva reso la libertà, ed era stato l’errore più grande della sua vita.
Se l’avesse uccisa, se avesse fatto terminare la sua infausta esistenza sulla terra, la sua ira e il suo dolore sarebbero cessati, ne era sicuro. Era suo il sangue che bramava, sua l’anima da barattare con la propria. E tuttavia, Christine era proprio l’unico essere umano a lui precluso. Non si sarebbe mai recata all’Opera di nuovo, non dopo ciò che si era consumato lì. Erik avrebbe trascorso il resto dei suoi anni sapendo che da qualche parte nella Francia la responsabile delle sue più atroci sofferenze rideva e scherzava, felice e spensierata e dimentica del miserabile che aveva rifiutato.
“Maledetta” disse in un sibilo imbevuto di odio puro, percorrendo la figura della bambola con uno sguardo che sembrava emanare invisibili lingue di fiamma: “Io ti amavo più di qualsiasi altra cosa…ti avrei offerto la luna, se me l’avessi chiesta…ti avrei reso una stella che avrebbe brillato per l’eternità… e tu…tu…mi hai annientato…calpestato…rinnegato…per…Lui…”
Lei continuò a sorridere placidamente dall’alto della sua diabolica bellezza, insensibile al suo dolore come lo era stata anche in passato, quando si era tolta l’anello che le aveva regalato e glielo aveva messo in mano senza una sola parola di commiato, voltandogli le spalle e scomparendo per sempre dalla sua vita.
Possibile che l’avesse davvero amata? Che avesse sacrificato la sua felicità e il suo futuro per lei? Di quell’amore, adesso, non era rimasto nulla, la furia e la brama di vendetta glielo avevano strappato nel corso di quei sei mesi e avevano riempito di odio il vuoto che aveva lasciato dentro di lui.
Non riusciva più neanche a sopportare la sua vista.
All’improvviso, senza alcun motivo apparente, si scagliò sulla bambola di cera con un ringhio da animale selvaggio e le afferrò i boccoli posticci, strappandoli brutalmente dal cranio e gettandoli a terra in ciuffi disordinati, lacerando la stoffa dell’abito che aveva confezionato con le sue mani, ispirandosi al modello sfoggiato dalla vera Christine durante il suo debutto,  e che con tanta cura aveva fatto indossare alla sua sosia. Le vene gli ribollivano di una collera sanguinosa e mortale, il suo organismo gli gridava di distruggere almeno l’immagine di quella serpe per ricavarne, anche se effimera, una certa soddisfazione, e la somiglianza di quest’ultima con la ragazza che rappresentava era tanto marcata da aiutare la sua fantasia per natura già molto fervida. Una delle braccia si staccò dal busto, rotolando sul pavimento, e dalla stoffa lacerata del vestito emerse un mostruoso corpo ermafrodito, con seni privi di capezzoli e un pube privo di sesso, ma egli non si fermò, in preda ad una parossistica furia omicida, e le graffiò il volto sorridente più e più volte, stravolgendo i dannati lineamenti perfetti e storcendole le labbra in una smorfia grottesca. Intanto rideva, sguaiatamente, come un folle, le gote paonazze e l’espressione alterata di chi ha lasciato ogni freno, e seguitava a devastare il viso che aveva tanto amato ignorando la cera che gli penetrava nelle unghie e invadeva il suolo di pietra. Il pupazzo afflosciato tra le sue braccia, pressoché distrutto, era ridotto ormai ad un ammasso informe dalle sembianze vagamente umanoidi, nudo, con il cranio semipelato, le orbite vuote e la faccia conciata come un insieme di strisce che la solcavano in profondità. Ma per Erik era ancora Christine, o almeno ciò che rappresentava per lui, e le staccò la testa dal collo con furore incontrollato.
“Maledetta ingrata!” gridò senza riflettere, a cavalcioni sopra il corpo distrutto: “Eri la mia musa, la luce del mio canto, ti ho ceduto la mia musica, i miei insegnamenti, tutto quello che avevo!! Senza di me saresti rimasta un niente, un’insignificante ballerina di fila, una nullità in questo teatro! Sono stato io a tirarti fuori dal buio in cui vivevi, a rendere la tua voce un mezzo di comunicazione tra uomini e dèi, a fare in modo che quel bastardo si interessasse a te! E tu mi hai tradito! Mi hai rinnegato! Come hai potuto farlo?! Come?!”
Si bloccò di colpo, alla maniera di un uomo colpito da una folgore, e girò il capo di lato con un movimento veloce, avvertito dai suoi sensi che non fallivano mai della presenza di uno sguardo estraneo puntato sulla sua persona. Per pochi attimi s’era dimenticato completamente del resto del mondo, un qualcosa che non gli era mai successo, e aveva permesso alle emozioni e ai più biechi impulsi di emergere, soppiantando l’atteggiamento gelido e distaccato divenuto ormai il suo marchio di fabbrica. Il suo aspetto, in quel momento, differiva totalmente dal solito, e senza che si fosse tolto l’onnipresente maschera bianca: vestito solo di calzoni e camicia, i piedi inguainati in robusti stivali di pelle, l’aveva aperta sul collo e la sua fluente chioma castana, abitualmente pettinata all’indietro senza scriminatura, era scarmigliata e scomposta e ricadeva sulla parte di viso che aveva scoperta, rossa e contratta dalla rabbia. Senza dubbio, uno stato in cui nessuno sarebbe voluto apparire.
Si girò a mezzo busto in direzione della presenza che aveva percepito e le sue ardenti iridi azzurro scuro incrociarono, a qualche metro di distanza, quelle scure e ammutolite di Vivian.
Rimase gelato al suo posto.
La giovane sostava accanto alla tenda che conduceva alla sua camera da letto, esattamente come due giorni addietro, quando aveva risposto alle sue provocazioni con quell’ardore (da allora non s’era più fatta vedere) e teneva tra le mani il vassoio vuoto che aveva contenuto, fino a poco tempo prima, la sua colazione. Doveva aver già provveduto alla sua toletta personale malgrado l’orario assai mattiniero, infatti indossava un abito verde con le maniche a sbuffi e la gonna che s’allargava intorno alla vita a guisa della corolla di un fiore e aveva nastri dello stesso colore tra i capelli, negligentemente raccolti sulla nuca. Lo guardava battendo le palpebre, le labbra dischiuse per un misto di sbalordimento e di incomprensione, e non accennava a spostarsi da dove si era fermata, assorta, apparentemente, dallo strano spettacolo a cui aveva involontariamente assistito. Quando lui si volse verso di lei, gli restituì lo sguardo senza nascondere d’averlo spiato in quel momento poco consono e nelle sue pupille lesse una domanda muta, un interrogativo impossibile da trascurare.
Erik non avvampò, perché lui di certo non poteva avvampare. Il calore che avrebbe dovuto affluirgli sulle guance, entrambe (anche quella sfigurata) lo avvertì invece dentro di sé, un’ondata incandescente che gli ricolmò il centro del petto e lo privò, senza che potesse opporsi, di qualsiasi giustificazione plausibile. Divenne conscio all’improvviso di come doveva apparire in quel momento, scarmigliato e ansimante, curvo su un manichino informe e circondato da ciocche di capelli, frammenti di cera e brandelli di seta, e distolse automaticamente gli occhi da quelli perplessi e incuriositi della sua ospite, volgendoli in direzione del lago Averno. Maledizione. Giurava solennemente di non mostrare mai più il fianco a chicchessia, e si lasciava sorprendere in quelle condizioni come un bambino colto con le mani nella marmellata. Che razza di idiota.
Si aspettava che la ragazza dicesse qualcosa, magari che lo deridesse per vendicarsi delle frasi sprezzanti che le aveva rivolto due giorni prima, ma lei non ruppe il silenzio né scoppiò in una risata. Non poteva coglierne l’espressione a causa della sua ostinazione nel non guardarla, ma consapevole com’era di tutto ciò che aveva intorno, sapeva che era ancora immobile con il vassoio tra le mani e che non gli aveva staccato gli occhi di dosso. Al primo afflusso di vergogna l’uomo sentì succedere una repentina e potente irritazione, e si trovò a rimpiangere, ancora una volta, la solitudine di cui s’era tanto lamentato in quegli anni. Ecco uno dei numerosi svantaggi ad avere un’estranea dentro casa; era costretto a dominarsi perfino lì, nell’unico luogo in cui aveva il diritto di comportarsi come più gli aggradava. In fin dei conti, come si permetteva lei di giudicarlo?! Cosa ne sapeva del dolore? Del rifiuto? Dell’umiliazione che aveva dovuto subire? Di Christine? Non sapeva nulla e mai l’avrebbe saputo, perciò avrebbe fatto meglio a tornarsene nella sua stanza e a non causargli imbarazzo con la sua detestabile presenza. Si trovava nella sua dimora e se aveva voglia di fare a pezzi una bambola e gridare al vento, nessuno glielo avrebbe impedito.
“Che avete da guardare?” le chiese con tono brusco e scortese, senza muoversi dalla sua posizione inginocchiata. Guardandosi le mani che ora giacevano, inerti, in mezzo ai brandelli del manichino, notò che le unghie erano incrostate di cera e che vi erano rimasti incastrati nugoli di capelli aggrovigliati. Se le pulì sui pantaloni senza successo, nervoso senza un motivo preciso.
“Niente” la risposta che arrivò da lei era fin troppo calma e serena: “Ero venuta a riportarvi il vassoio”.
“Ah, sì?” egli lasciò vagare lo sguardo sulle fiammelle delle candele, risoluto ancora a non incontrare gli occhi della sua ospite: “Mi pare di avervi spiegato che dovevate lasciarlo sulla soglia e che io l’avrei poi ritirato al momento opportuno” gli uscì una voce più dura e aspra di quanto avrebbe voluto, ma la rabbia che la vista di Christine aveva scatenato in lui non se n’era andata e aveva pur bisogno di prendersela con qualcuno.
“Sì, lo so” commentò Vivian, sorprendentemente remissiva: “Perdonatemi. Ho pensato soltanto che sarebbe stato carino riportarvelo di persona”.
Certo pensò Erik con un lieve sorriso sarcastico. Era uscita dalla sua stanza per fargli una gentilezza. Le cose erano andate assai diversamente: la dannata impicciona aveva udito le sue grida e i rumori inequivocabili di una colluttazione ed era andata a vedere cosa stesse accadendo. Credeva davvero di ingannarlo con trucchi così dilettanteschi?
“Capisco” lasciò trapelare tutto il suo scetticismo: “La colazione è stata di vostro gradimento?”
“Oh, sì!” il tono della ragazza assunse una sfumatura di sincera soddisfazione: “Le…com’è che si chiamano? Le acciughe in vinaigrette erano deliziose. Fresche al punto giusto”.
“Non le avete trovate pesanti, a quest’ora del mattino?”
“Al contrario. Quando vivevo ad Annecy, mio padre a quest’ora mi portava con sé alla taverna di Pierre Boeuff e condividevamo focaccia accompagnata da carne allo spiedo e latte di capra appena munto. La panna era talmente spessa che riuscivo a tagliarla con il coltello…” c’era della nostalgia in quel discorso: “Sono abituata alle colazioni sostanziose, monsieur”.
Ancora quel maledetto padre. Aveva fatto il suo nome anche durante la loro precedente discussione, tirandolo in ballo per difendersi dalle sue accuse rivolte alla sua bassissima levatura sociale. Rassicurato dalla piega presa dal discorso, Erik si voltò finalmente a guardarla e colse sul suo volto un sorriso trasognato, perso, una certa ombra malinconica negli occhi che gli fece supporre, nel caso lei non lo avesse mezzo informato con quei verbi al passato, che il famoso padre doveva essere deceduto.
Lui non aveva mai conosciuto il proprio. Sapeva che era di nobile nascita, e che la sua faccia doveva averlo disgustato fin dal primo istante, a giudicare da come l’aveva in seguito abbandonato per non farsi più vedere. Pareva proprio la storia della sua vita…una lunga sequela di abbandoni. Grazie al cielo non bastavano certo simili cose a fermarlo o a farlo vacillare. Ci voleva ben altro, per fiaccare una volontà come la sua.
“Allora in futuro cercherò di accontentarvi come ho fatto oggi, mademoiselle” le disse smentendo il significato gentile di quelle parole con un accento scortese e alzandosi in piedi per recuperare una parvenza di dignità. Quella rivoltante bambola l’aveva imbrattato tutto quanto di cera e aveva ciocche dei suoi capelli posticci impigliate nei bottoni della camicia. Si chinò a cercare di rimuoverli e, mentre si dedicava a tale infruttuoso lavoro, il suono di una risata fresca e contagiosa, un suono che mai era echeggiato nella Dimora sul Lago, giunse del tutto inaspettato alle sue orecchie. Alzò i grandi occhi azzurro scuro, sorpreso e infastidito, e vide Vivian che rideva di cuore, gli occhi luminosi e un bel sorriso aperto sulle labbra, e che lo guardava con un’espressione di maliziosa ilarità. Non si poteva certo dire che si contenesse, né che la sua risata assomigliasse solo lontanamente a quella di Christine, un melodioso trillo di campane…era sgangherata e potente, inframmezzata da singhiozzi e grugniti, e sembrava non finire mai. L’acustica della sua dimora faceva sì che riecheggiasse ovunque con migliaia di echi e dava l’impressione che un’intera folla di fanciulle non troppo beneducate si stesse abbandonando al divertimento.
“Cosa avete da ridere?!” la mano scattò immediatamente a tastare la mezza maschera bianca, trovandola al posto consueto. Ormai, per lui, quel gesto era divenuto inconscio: “Mi trovate ridicolo?”
“No, no…” ansimò lei, riprendendosi un poco. Si asciugò una lacrima che le era spuntata all’angolo dell’occhio e si coprì la bocca con la mano, soffocando un risolino soffocato: “È solo che…stavate tentando di uccidere una bambola, monsieur”.
Erik aggrottò le sopracciglia, senza capire: “E che cosa c’è di tanto divertente?”
“Niente, ma…vedervi tutto coperto di cera, con l’aria di prenderla terribilmente sul serio…di solito siete così controllato!”
“Quel che faccio non è affar vostro”.
“Sì, ma l’ho trovato comunque uno sfogo…geniale. Che poi è superfluo da dire, trattandosi di voi” scosse la testa e rise nuovamente, stavolta di se stessa.
Erik seguitava a non comprendere. Pur ammettendo che per lei doveva essere stata una visione inconsueta, non si spiegava quella risata priva di cattiveria o di derisione, quel sincero buonumore…chiunque altro si sarebbe subito spaventato, avrebbe avuto paura di trovarsi da solo con un uomo dai comportamenti così incontrollabili…invece, da lei emanava tutto fuorché il timore. Anzi, pareva addirittura a suo agio, come se averlo sorpreso in quella maniera l’avesse rassicurata sul suo conto.
“Voi siete una ragazza alquanto strana, mademoiselle Carré” osservò con tono asciutto, ma non scevro della solita malevolenza: “Ve l’hanno mai detto?”
“Senti da che pulpito!” la pronta replica, come al solito, lo stupì. Vivian non smetteva mai di sorprenderlo: “Non ero io quella che si accapigliava sul pavimento con un manichino informe, monsieur Fantòme. Ammetto di non assomigliare molto alle signorine francesi che abitualmente frequentano l’Opera, ma a certi livelli, sia ringraziato nostro Signore, non arrivo”.
Erik non poté impedirsi di sgranare impercettibilmente gli occhi di fronte a tanta audacia. Mademoiselle Carré non l’aveva mai trattato come gli altri, con quella paura velata di disgusto e di servilismo, fin dal loro primo incontro, quando le aveva passato intorno al collo il laccio del Penjab e le aveva fatto credere che l’avrebbe uccisa, aveva interagito con lui da pari a pari, replicando ad ogni sua stoccata e abbassando solo raramente gli occhi in sua presenza. L’aveva persino affrontato, allorché l’aveva tanto sprezzantemente definita una “provinciale ragazza di campagna”. E nulla di ciò che lui aveva fatto, né la prova della Sfinge, né le frasi gratuitamente crudeli, né le regole tiranniche l’aveva indotta a cambiare atteggiamento, le aveva scagliato contro tutte le armi di cui disponeva, deciso a mettersi in cattiva luce ai suoi occhi, a sollecitare in lei il dovuto rispetto nei riguardi del Fantasma dell’Opera, ed esse si erano miseramente scontrate sulla barriera di cui la fanciulla si era circondata, inutili. Poteva dire o fare qualsiasi cosa, ma non le avrebbe strappato dal volto quell’espressione fiera e determinata.
Però, a proposito di volti…forse, se l’avesse visto in faccia, avrebbe finalmente distolto quello sguardo impudente da lui! La stessa Christine, durante il suo breve soggiorno nella Dimora sul Lago, aveva ignorato di cosa lui fosse realmente capace finché le sue mani non gli avevano tolto la maschera a tradimento. Soltanto allora la malefica curiosità, l’interesse inopportuno avevano abbandonato i suoi lineamenti, sostituiti da una tragica smorfia d’orrore e paura. Doveva comportarsi allo stesso modo con Vivian, ma stavolta essere lui stesso a scoprire le piaghe? Mettere a nudo il suo segreto più terribile, la fonte delle sue disgrazie, l’orrore che induceva le donne a distogliere lo sguardo con un brivido? L’avrebbe finalmente dissuasa dal tentare di conversare con lui?
….no. No, meglio di no. Lo incuriosiva vedere come mademoiselle avrebbe reagito alla vista delle cicatrici che gli deturpavano la carne, e quanto il suo comportamento si sarebbe avvicinato a quello di Christine, ma la vergogna e la riluttanza avevano radici ben affondate nel suo cuore ed erano più forti di qualsiasi altra cosa. Era un’ipotesi da non prendere neanche in considerazione.
“Monsieur…monsieur Fantòme?” mentre sprofondava nelle sue riflessioni, Vivian aveva pian piano smesso di ridacchiare e l’ilarità dipintasi sul suo viso aveva lasciato il posto ad una specie di timoroso disagio. Pronunciando quest’invocazione s’avvicinò a lui di qualche passo, ma si fermò ad una distanza di sicurezza. Non aveva paura di lui, tuttavia non era tanto stupida da provocarlo troppo quand’era di quell’umore.
Erik mise a fuoco lo sguardo con una certa fatica, tornando presente alla situazione: “Cosa?”
Vivian chinò il capo, torturando con le mani la ricca stoffa verde del suo abito da giorno. Appariva…mortificata. Come se ciò fosse possibile! Forse trovava scomodo il vestito, dato che in passato gli era capitato di vederla solamente nuda, seminuda o in camicia da notte…aveva una curiosa concezione del pudore, per essere una ragazza. Christine, e parecchie altre, ci avrebbero pensato due volte prima di presentarsi ad un uomo con addosso solo la camicia da notte, senza disturbarsi nemmeno di indossare una vestaglia. Invece lei non aveva mostrato alcun accenno di imbarazzo.
Sicuramente era dovuto alle sue deprecabili origini.
“Mi dispiace di aver riso, monsieur Fantòme” gli si rivolse con tono franco e sincero, lasciando in pace l’abito, e incurvò le labbra in un sorriso di scuse che riuscì a farlo ammutolire per diversi minuti: “Non volevo mancarvi di rispetto. Probabilmente non sarei dovuta neanche uscire dalla mia stanza. Però… non vivo bene circondata da muri di pietra. Mi sento come un animale in gabbia”.
Adesso la sua incomprensione era totale. Era dispiaciuta di aver urtato la sua sensibilità? Si scusava con lui dopo che l’aveva quasi lasciata morire nella Stanza della Sfinge e che l’aveva insultata in tutti i modi possibili? Quale oscuro incantesimo la opprimeva per far sì che gli mostrasse quell’improvvisa gentilezza? E che razza di logica c’era nelle sue azioni in netto contrasto l’una con l’altra? Erano tutte così, le donne? No, naturalmente, Christine l’aveva trattato con lo stesso orrore terrorizzato fin da quando le aveva mostrato la sua identità umana e non era mai venuta meno alla sua decisione.
Ma perché crederla migliore di Vivian, in fondo? Forse era più coerente, più pudica e dotata di maggiore bellezza e talento, ma aveva donato il suo cuore ad un bamboccio ricomparso da un passato dimenticato senza neanche conoscerlo a fondo e non aveva esitato neppure un attimo a strappargli la maschera dinnanzi a tutta l’alta società parigina, nel corso della notte del Don Juan, rendendo nota all’intera città la sua maledetta deformità. Le urla femminili, le esclamazioni di orrore e i mormorii concitati lo perseguitavano tuttora.
Ancora non la conosceva bene (e neanche voleva conoscerla, ovviamente), ma era sicuro, e non aveva motivo di dubitare di una simile intuizione, che Vivian non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Non avrebbe mai finto di ricambiare il suo amore, spingendolo ad abbassare la guardia, per poi tradirlo in maniera tanto palese, svelando all’aristocrazia francese il suo terribile segreto. Possedeva un animo troppo franco e diretto per avere il coraggio di compiere un’azione così viscida e ingiusta.
S’accorse con immenso fastidio di averle appena fatto un complimento mentale. Non aveva giurato di disprezzare qualsiasi essere umano? A quanto pare s’era ciecamente illuso, s’era ingannato di aver recuperato le forze, se permetteva ad un “mi dispiace” pronunciato con accento più cordiale di quelli a cui era avvezzo di elevare la sua opinione riguardo alla sua mittente. Non era altro che una stracciona sola e disperata, un essere indegno di respirare la sua stessa aria installatosi con presunzione in casa sua. Ed era una donna. Crudele e fatua come tutte le sue simili, incapace di provare vere emozioni e creata con lo scopo apposito di tentarlo.
Tentarlo? Non si lasciava certo tentare da una grazia così insignificante e poco incisiva! Christine era stata un vanto per la sua razza, sia fisicamente che vocalmente, ma questa qui, in merito a ciò, non era degna neanche di allacciarle le scarpe.
“Non dispiacetevi, mademoiselle” disse freddamente, chinandosi a raccogliere i resti della bambola distrutta: “La vostra risata non mi ha fatto né caldo né freddo, se può consolarvi”.
Lei scelse di ignorare quell’ultimo commento. Dava l’impressione di cominciare ad abituarsi ai modi del suo ospite e aveva preso la saggia decisione di passarci sopra, senza perder tempo a ribattere. Gli venne incontro, invece, sollevando la gonna verde per non averne impiccio (era scalza; un classico) e si inginocchiò a sua volta sul pavimento di pietra, raccogliendo un vacuo occhio di vetro finito vicino ad uno dei drappi che abbellivano le pareti: “Aspettate, vi aiuto”.
“Non ce n’è bisogno” scattò lui, messo a disagio dalla sua presenza: “Faccio da me”.
“Lasciatevi aiutare, santo cielo!” sbottò la giovane: “Stavo per morire di noia in quella camera. Non ho nulla di meglio da fare, perciò non negatemi di raccogliere brandelli di cera”.
Erik lo avvertì come un insulto rivolto alla sua ospitalità, e il suo tono si abbassò di qualche ottava, inasprendosi: “Vi avevo avvertita che sarebbero state queste le condizioni del vostro soggiorno presso di me”.
“Lo so. Ma non sono un cane, monsieur, non potete pretendere che me ne resti buona in una stanza per dieci giorni senza uscire a prendere aria nemmeno una volta”.
L’uomo alzò espressivamente le folte sopracciglia castane e alluse al salone sotterraneo con un largo gesto della mano: “Vi sembra il luogo adatto in cui prendere aria?”
Una smorfia divertita si impresse sulle labbra di lei: “Sempre meglio della stanzetta in cui mi avete confinata. Una prigione resta una prigione, ma è sicuramente più confortevole di una cella”.
A questo, egli non seppe cosa ribattere. Rimase immobile mentre lei percorreva in ginocchio il pavimento, ammucchiando tra le braccia parti smembrate del corpo della bambola, e notò che il suo abito si stava vistosamente chiazzando di scuro. Ma non glielo fece notare. Una fanciulla che si presentava a piedi nudi non prestava certo attenzione allo stato del suo vestito. Decise, invece, ch’era venuto il momento di frenare la sua lunga lingua, e che non le avrebbe più concesso il privilegio di spiazzarlo.
“Monsieur” ricominciò Vivian, rilassata come chi aveva ormai rotto il ghiaccio: “Posso sapere come mai avete scelto di sistemarvi proprio nei sotterranei? Non li definirei un locus amenus”.
Egli venne meno ai suoi propositi, spiazzandosi l’ennesima volta: “Conoscete il latino?” era una lingua in uso tra le classi più alte, che aveva ovviamente appreso poiché compariva spesso anche nella musica, ed era davvero sorprendente che la figlia di un “ubriacone fallito”, come lei stessa aveva descritto il padre lo conoscesse.
Si volse verso di lui con un sorriso furbesco, gli occhi brillanti, e chinò il capo con falsa modestia: “A dire il vero no, affatto. Mio padre diceva sempre che il latino andava bene per i morti e che sapeva di cimitero. Però la mia tutrice, Madame Lefevre, borbotta sempre in questa lingua, trova che sia di moda, e alla lunga, ascoltandola, se hai un minimo di orecchio, qualcosa lo memorizzi”.
“Oh…” fu tutto quello che Erik ebbe la forza di tirar fuori. Una pausa di silenzio si dilatò nell’atmosfera viziata del salone principale della Dimora sul Lago, durante la quale il Fantasma dell’Opera contemplò gli scuri mulinelli dell’acqua con occhi vuoti, e Vivian continuò la sua meticolosa raccolta, fissandolo in attesa d’una risposta alla sua originale domanda. Vedendo che egli non accennava a dargliela, lo sollecitò con un colpetto di tosse.
“Io…” l’uomo non poteva rivelarle il vero motivo per cui s’era isolato là sotto, perché in tal caso avrebbe dovuto renderle noti tutti i suoi segreti e l’avrebbe trasformata in una testimone: “L’ho costruita nel luogo che più si adattava alla mia indole. Qui nessuno viene a seccarmi, nessuno interrompe le mie faccende” evitò di pronunciare il nome di lei, l’eccezione alla regola: “E posso vivere in pace con me stesso e con i miei averi”.
La giovane piegò la testa da un lato, gli occhi vispi e attenti che lo studiavano con sincero interesse: “Credo che non siate in pace con voi stesso, monsieur”.
Lui si irrigidì: “Voi non sapete niente di me, mademoiselle”.
“Forse. Ma mi basta quello che vedo. Una persona che brama la distruzione di tutte le altre, che semina caos e confusione nel bel mezzo di una tranquilla rappresentazione, che salva una sconosciuta e poi rimpiange d’averlo fatto quando ne deve pagare il prezzo…non è una persona felice”.
Erik evitò di risponderle. Se l’avesse fatto, le avrebbe urlato contro. Cosa ne sapeva, lei, dell’infelicità?! Con che diritto assumeva quell’aria saccente e catartica in sua presenza? Credeva di conoscere tutto solo perché aveva vissuto in condizioni di degrado ed aveva quindi appreso quanto la vita fosse ingiusta? Aveva la metà dei suoi anni, era una bambina, in confronto a lui (che a pesargli sulle spalle ne aveva solo trentasette, ma il loro calibro faceva sì che ne avvertisse ottanta), e la sorte finora era stata sin troppo clemente con lei, l’aveva fatta vivere in un piccolo, confortevole microcosmo fatto di abitudini e di dispiaceri talmente lievi da assomigliare a punture di spillo che svanivano in confronto ai suoi, pugnalate inferte al cuore. Se avesse conosciuto appieno il marciume e l’orrore della sua esistenza, tutti i delitti di cui s’era macchiato e i sacrifici compiuti per un falso amore, sarebbe crollata svenuta al suolo, il suo animo fragile non avrebbe mai potuto tollerarli.
Ma era inutile tentare di spiegarlo ad una diciottenne impudente e saputa, perciò ingoiò tutta la sua rabbia e s’impose l’abituale freddezza: “Avete le idee molto chiare, vedo”.
Lei dovette cogliere la nota aspra nel suo tono di voce. Abbandonò per un attimo la sua pulizia, raddrizzandosi, e si posizionò davanti a lui, vicina come solo una volta era stata, senza che alcun accenno di timore alterasse i suoi lineamenti irregolari ma, allo stesso tempo, affascinanti. Cercò d’incontrare il suo sguardo ed Erik glielo permise, rifiutandosi di abbassare la testa di fronte a lei. S’accorse, non senza sorpresa, che in una maniera segreta e riservata era dotata di una sua bellezza. Ovviamente non era abbagliante e visibile come quella di Christine, che irretiva tutti quanti e illuminava la notte con il suo splendore. Era una bellezza più offuscata, più profonda, che si coglieva con il tempo e con la buona volontà e si nascondeva, schiva, dietro una nuvola, e che spesso e volentieri sbiadiva a confronto con quella del suo antico amore, scintillante in mezzo al cielo. Le sue iridi, di un anonimo marrone finora, alla luce delle candele brillavano di riflessi dorati e c’erano sfumature bluastre nei suoi riottosi riccioli bruni. Forse, se avesse incontrato un giovanotto tanto sensibile da cogliere certi particolari, avrebbe avuto anche lei il suo bel marito aristocratico e il protettore che tanto bramava, e non avrebbe avuto bisogno di rinchiudersi nelle viscere della terra insieme al Fantasma dell’Opera.
“Monsieur” disse piano. Per la voce non c’era nulla da fare: troppo volitiva, troppo secca per modularsi in dolci intonazioni e gorgheggi. Andò avanti con rispetto: “Non vi sto giudicando. Ben pochi esseri umani potrebbero definirsi felici, ed io certo non rientro nella loro categoria. Ho dovuto scavarmi un tunnel per pulirmi dal disonore della mia nascita e tuttora che ho trovato una tutrice ricca e agiata e un posto di allieva in uno dei teatri più celebri al mondo, sono perseguitata dallo spettro di una donna che, per un motivo o per un altro, ha reso la mia vita un’eterna lotta. Ho accettato di inserirmi in un ambiente di gran lunga più elevato di quelli a cui ero abituata, consapevole dei rischi che ciò comportava, e neanche due settimane dopo il mio arrivo a Parigi mi ritrovo perseguitata da un nobilotto viziato che non riesce a concepire il mio rifiuto. Per giunta, al contrario di voi, non sono certo un genio né vanto alcuna abilità particolare. Sono solo…Vivian. E a volte parlo troppo”.
Tacque, arrossendo leggermente, e ascoltò l’eco delle sue parole che aleggiava intorno a loro. Non lo aveva detto per compiacerlo o per conquistarsi la sua fiducia. Pensava davvero tutte quelle cose, e una parte di lei, nuova e totalmente incoerente, lo ammirava per la selvaggia perseveranza con cui andava avanti e per le sue straordinarie doti musicali, che di sicuro doveva aver perfezionato da solo poiché dubitava molto che avesse ricevuto insegnamenti di sorta. E averlo sorpreso a distruggere la sosia dell’ormai Viscontessa de Chagny le aveva provocato una sensazione strana, una repentina comprensione. Non aveva forse lei stessa desiderato ardentemente di bruciare tutti i ritratti di sua madre quando ancora la sua stella brillava fulgida, di cui la casa di Madame Lefevre abbondava? Sapeva fin troppo bene cosa voleva dire vivere con un’ombra sopra la testa, o cosa significasse amare e odiare contemporaneamente una persona. Era un sentimento che ti rodeva dall’interno come un tarlo, che ti consumava, che ti portava alla follia e alla disperazione, alle suppliche e all’omicidio…quando sua madre era morta, s’era sentita liberata da un peso immane, ma allo stesso tempo era corsa piangendo fuori dalla loro casupola e aveva maledetto tutti i santi per quell’evento. C’era forse logica in questo? Per tale motivo la spaventosa vista dello sfogo dell’uomo non l’aveva scandalizzata.
Erik, da parte sua, non seppe come sentirsi di fronte a quella sorprendente dimostrazione di umiltà. Gli occhi color miele della ragazza erano sinceri, erano gentili, e affondavano nei suoi senza vergogna, emanando franchezza e comprensione. Non era dunque tipo da inutili giri di parole…finora, tutte le volte in cui s’erano parlati, aveva indugiato solo al principio in oziose frasi di circostanza e subito s’era immersa nel succo del discorso. In quello si assomigliavano, anche lui amava andare in fondo alle questioni e non perdersi in chiacchiere. Ma era anche un atteggiamento pericoloso. Se non avesse fatto attenzione, gli avrebbe estorto prima o poi qualcosa di proibito e forse non se ne sarebbe neanche accorto.
“Ehm…” imbarazzata dal suo silenzio, Vivian distolse lo sguardo e fece un passo indietro, le braccia ancora cariche dei brandelli di seta del vestito della bambola: “Credo che…sia arrivato il momento di tornare in camera. Avrete senz’altro da fare e non voglio tediarvi ancora. Questi…” alluse al suo fardello sollevandolo leggermente verso di lui: “…questi vorrei tenerli, se non vi dispiace. Ho trovato una scatola con il necessario per cucire e pensavo che con questa stoffa potrei realizzare qualcosa. Siete contrario?”
“No. Teneteli pure” rispose Erik d’impulso, chiedendosi perché avesse acconsentito così rapidamente.
Lei sorrise: “Grazie. Vado, allora”.
Era arrivata sulla soglia della sua camera da letto, quando lui la richiamò improvvisamente, mosso da un folle e fulmineo istinto: “Aspettate!”
Vivian si fermò, le dita strette sul tessuto della tenda per scostarla dal suo cammino e i ricci che formavano una nuvola intorno al suo capo, e si voltò lentamente dalla sua parte, dubbiosa: “Sì?”
Erik la fissò in silenzio per diversi minuti. Quello che aveva deciso di fare, così, sull’onda di un’emozione momentanea, era pura follia. Era il massimo esempio di incoerenza.
Ma allora perché avvertiva il dovere di mostrare a quella ragazza l’origine di ogni cosa? La causa, e non il motivo, delle sue azioni?
È proprio vero che l’essere umano è quanto di più imprevedibile esista al mondo.
Senza una parola, posò la mano destra sulla liscia superficie della maschera che gli copriva il volto e indugiò un istante, gli occhi azzurro scuro intensamente fissi in quelli interrogativi e calmi della sua ospite. Le orbite ambrate di lei si spalancarono appena, intuendo ciò che lui stava per fare, e lasciò la presa sulla tenda con repentino disinteresse, girandosi del tutto verso di lui. Egli notò gli esili muscoli delle braccia che le si irrigidivano e ne percepì con forza il nervosismo e la tensione. Forse un tempo, prima di Christine, sarebbe bastato questo a farlo desistere da quell’insano proposito.
Ma adesso non gli importava più. Cos’aveva da perdere? Quell’improvvisa comprensione dimostrata da lei? Non se ne faceva nulla d’un sentimento ispirato da cause sbagliate; ella, in fondo, era una donna, proprio come Christine. Alle donne interessava unicamente l’aspetto esteriore, la loro mente superficiale non era capace di accettare un volto tragicamente segnato dai giochi del fato, e in un certo senso, voleva sfidare Vivian, che sembrava tanto diversa dalle altre, e dimostrarle quanto in realtà la sua fosse tutta una recita. Il disgusto che si sarebbe dipinto sul suo viso segretamente bello gli avrebbe dato la conferma che anche gli esseri umani più sensibili erano in realtà feccia della peggior specie. Ci avrebbe pensato lui a demolire quella sua aria di falsa sicurezza.
Si sfilò la maschera dal volto, con una sorta di rabbiosa e ardente soddisfazione nello scoprirsi in tutto il suo orrore, e la gettò a terra senza riguardo, ributtando indietro i capelli castani in modo che i suoi lineamenti fossero perfettamente illuminati dalle candele. Non temeva più la reazione di un altro a quella vista, aveva contemplato troppe volte quell’espressione di inorridito ribrezzo per farne ancora un dramma. Che gridasse pure, che si voltasse di scatto con la mano premuta sulla bocca, la cosa non l’avrebbe intaccato minimamente.
Gli occhi di Vivian si posarono sulla parte destra del volto dell’uomo che l’aveva accolta di malavoglia in casa sua e un pallore improvviso si diffuse sulle sue guance olivastre. Inspirò bruscamente, senza, tuttavia, arretrare o distogliere il viso per godersi uno spettacolo più piacevole di quel reticolo di piaghe e cicatrici, e le sue labbra si dischiusero appena, conferendole un’espressione di stupore e di angoscia. Molti altri, Christine compresa, avrebbero preferito chiudere le palpebre su quella deformità un secondo dopo averla assaggiata la prima volta, invece lei si imbevve di un tale, crudele marchio con rispettosa attenzione, scorrendo uno sguardo angosciato sulle ferite che gli percorrevano il volto dalla fronte alla mandibola e riprendendo gradualmente colore. Erik restava immobile sotto quell’esame accurato, ma non morboso, e aveva le labbra serrate e gli zigomi raggrinziti in una smorfia di orgogliosa sfida. Attendeva che lei fuggisse nella sua stanza per non dover vedere più la sua condanna, e che si dileguasse dietro la tenda per non riapparirvi se non dopo che il suo periodo presso la Dimora sul Lago fosse terminato. Era la reazione più scontata, e non s’aspettava niente di meglio da lei.
Ma Vivian non accennò né ad andarsene, né a manifestare il disgusto a cui, dopo tanti anni, era assuefatto. Allungò una mano, come se volesse sfiorare le orribili piaghe che rovinavano completamente l’armonia dei suoi lineamenti, perfetti sul lato sinistro del volto, poi la ritrasse e se la nascose dietro la schiena. Sembrava incapace di distogliere gli occhi da lui; le cicatrici esercitavano sul suo animo un fascino analogo a quello che una contorta opera d’arte suscita in uno spettatore abbastanza sensibile da coglierne il vero significato, e il suo atteggiamento incominciava a diventare maleducato.
“Come…” mormorò, la voce appena un soffio: “Come è successo?”
Erik si mosse, a disagio. In lui si faceva strada pian piano l’antica vergogna e stava rimpiangendo con tutto se stesso d’aver gettato lontano la sua diletta maschera: “Sono sempre stato così” disse, con un tono che appariva inespressivo per quanto era in realtà carico di emozioni.
“Io credevo…”
“È quello che credono tutti. Ma non ho avuto alcun incidente, mademoiselle. Il buon Dio, se esiste” il suo accento si riempì di scetticismo: “Ha deciso di rendermi omaggio con questo difetto comune solo a me”.
Lei ne prese atto in un silenzio teso e angosciato. Ma che cosa la angosciava?
“È per questo che voi…” le parole le sgorgarono dalla gola concitate, ma s’interruppe quasi subito, arrossendo, e non completò la frase. Abbassò lo sguardo sulla testa mozzata della bambola che giaceva, semipelata, sul pavimento di pietra del salone sotterraneo, e lo alzò quindi nuovamente sul suo viso sfigurato. Un bagliore le illuminò le pupille, indecifrabile per Erik.
“Mi dispiace davvero molto, monsieur” disse infine, un po’ impacciata, consapevole di quanto suonavano banali e lievi le sue parole.
Lui spalancò leggermente gli occhi chiari, incredulo dinnanzi a quella reazione imprevista.
“Ma vedete…” continuò Vivian a fatica. Adesso aveva distolto lo sguardo da lui, ma non per una forma di ribrezzo o di orrore, cercava soltanto di non fissare in modo inappropriato le piaghe e di non metterlo troppo a disagio: “Essere diversi non è per forza una brutta cosa”.
Le labbra di Erik, piene e morbide sul lato sinistro del viso e storte e arricciate sul destro, si piegarono in una smorfia amara: “Voi non potete capire”.
“No…in effetti no…” l’imbarazzo s’imponeva prepotente nella fisionomia della ragazza: “Ma non vi sto raccontando frottole. Avete una bellissima voce e le vostre mani alitano vita in qualsiasi strumento. La natura non è stata dunque tanto malvagia nei vostri confronti, se ha voluto donarvi una simile abilità. E che cosa sono delle cicatrici, paragonate alle utopie che sapete creare?”  
L’uomo alzò su di lei uno sguardo talmente straziante da farle tremolare il cuore dentro al petto come un uccellino in gabbia: “Vorrei che tutti la pensassero come voi, mademoiselle” per un attimo la sua voce tremò, ma con una brusca ispirazione, si riprese da quell’inappropriato cedimento. Eppure gli occhi marroni di Vivian non erano orripilati come aveva creduto in un primo momento, non lo condannavano e aborrivano per la sua deformità…a lei dispiaceva. Un’esperienza totalmente nuova per lui.
Maledizione, l’aveva battuto per l’ennesima volta, e peraltro in una sfida che era stato Erik stesso a lanciarle! Che cosa doveva inventarsi per averla vinta su di lei?
“Io bella non lo sono mai stata” stava dicendo Vivian nel frattempo: “Ma naturalmente posso a malapena immaginare cosa si provi nella vostra situazione. Non sono brava in queste cose, però…vi ringrazio per avermi concesso questa fiducia. Deve essere stato molto difficile per voi mostrarmi…” gli accarezzò con lo sguardo la parte deturpata del volto e si umettò le labbra.
Ringraziarlo per averle concesso quella fiducia? Non le aveva certo fatto vedere il suo volto per dimostrarle che si fidava di lei, bensì per cancellare con il disgusto il suo assurdo desiderio di avere un contatto con lui. Prima di quel giorno glielo avrebbe subito detto, ma adesso scelse invece di tacere. Gli sembrava così meschino ricambiare il suo garbo con la malignità! Portò lentamente una mano a coprire le piaghe e chinò il capo, sentendosi all’improvviso molto stanco.
La fanciulla raccolse da terra la sua mezza maschera bianca, quasi avesse compreso il suo disagio, gli si accostò a passi lenti e misurati, senza sembrare spaventata o disgustata da quella vicinanza, e gliela tese proprio come aveva fatto Christine sei mesi orsono, quando l’aveva incontrato in carne ed ossa per la prima volta. Ma al contrario della sua antica musa, che aveva compiuto un tale gesto per pena e timore, ella lo fece per lui, per non protrarre ulteriormente la tortura di rimanere a volto scoperto innanzi a lei.
Erik la prese, muovendosi con tale agilità da non sfiorare la mano che gliela porgeva neppure con un dito, e si volse a mezzo per sistemarsela al posto consueto. Allorché il cuoio aderì rassicurante alla parte piagata della sua sventurata faccia, i suoi muscoli si rilassarono, sollevati che quella prova fallita fosse cessata. Si sentiva stranamente svuotato. Si era smascherato alla sua ospite per tormentare un essere umano con il suo aspetto diabolico e per svelare la superficialità nascosta dietro al suo apparente ardore, e invece lei si era dispiaciuta per lui. Probabilmente aveva smesso persino di disprezzarlo con tanta forza.
Il fruscio della tenda rosso porpora gli segnalò che la ragazza doveva essersi eclissata in camera sua, e il profondo silenzio calato sulla Dimora sul Lago gli pesò d’improvviso assai più di prima, gravandogli sulle spalle come un macigno. Levò uno sguardo torbido sulla gondola ormeggiata sul molo e avvertì il desiderio di allontanarsi dai suoi domini per qualche tempo e di ritrovare la calma abituale nel rumore dell’acqua gorgheggiante, nella caligine infernale che tutto avvolgeva e nella solitudine di Rue Scribe, perfettamente raggiungibile dal lago Averno. Anche lui, dopotutto, aveva bisogno di prendere aria.
Una volta ripulito l’animo da quelle strane sensazioni, sarebbe ritornato freddo e lucido come prima, ne era sicuro.
Doveva soltanto scomparire nella nebbia impenetrabile e lasciarsi alle spalle lo sguardo comprensivo e rammaricato di Vivian Carré.

 
  
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