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Autore: shotmedown    29/01/2012    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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~ Succede che...non succede niente di
quello che dovrebbe succedere...

Nicola Aghilar













Quella mattina il negozio sembrava meno ospitale del solito, e il mio umore era di parecchi punti al di sotto dello zero, come accadeva tutte le volte in cui non sentivo l’influenza positiva della vita. Feci involontariamente cadere un paio di rullini a terra, e non potei fare a meno di imprecare e urlare contro qualsiasi cosa mi trovassi davanti e mi fosse d’ostacolo, com’era normale che accadesse quando provavo risentimento verso tutto e tutti. Fortunatamente quel mattino il signor Powell aveva delle fotografie da scattare ad una band, che, mi aveva detto, quell’anno avrebbe pubblicato un CD. Persone famose...Puah. Le detestavo, a volte. Perché mai acquistavano tanta importanza tra la gente? Perché erano venerati come déi? Potresti anche smetterla di prendertela con chi ha avuto più fortuna di te, mi dissi. Posizionai delle fotografie sulle mura appena imbiancate del locale e notai che per quel giorno non c’erano appuntamenti, se non quello preso già dal proprietario, così mi affrettai a fare qualche chiamata e a chiudere. Girai per la piazzetta, osservando quelle poche vetrine che c’erano e rendendomi conto di non avere nulla di interessante da fare. Mi lasciai cadere su una panchina e controllai il cellulare. Nessuna chiamata. Leah quel giorno avrebbe lavorato duramente, a causa di un gruppo di turisti intenzionati a visitare il museo nel quale lavorava da cima a fondo, e Jack era altrettanto occupato. Pierre...inutile dirlo. Erano circa sette giorni che non lo sentivo, e non capivo perché non si fosse ancora fatto vivo. Tuttavia, decisi di fare una cosa. In tre anni, per restare lontana dal passato, avevo lasciato perdere i giornali. Le riviste di qualsiasi genere erano state bandite dal mio intrattenimento, e fino a quel momento neanche avevo fatto caso alla mancanza di informazione sul mondo dei libri alla quale ero andata incontro. Così mi feci coraggio ed entrai in un’edicola. Sembrava ben fornita. Cercai la “Montréal Gazette”, per la quale lavorava il mio amico, speranzosa di leggere uno dei suoi articoli. Sfogliai le pagine del giornale, ma non trovai nulla.
“Mi scusi, lei conosce i giornalisti che risiedono in città?” Domandai alla donna al bancone.
“Certamente. Chi le serve?”
“Pierre Bouvier.” La risata che seguì quella mia richiesta fu tanto inaspettata quanto lievemente offensiva.
“Non credo sia un giornalista, signorina...” Prima che potessi chiedere ulteriori spiegazioni, sentii la tasca vibrare.
“Signor Powell?”
“Signorina Gordon, sto tornando. Ha chiuso il negozio?”
“Sì.”
“D’accordo, bene. Domattina dovrà fare una consegna, la band ha bisogno delle foto.” Confermai e uscii dall’edicola. Non ricordavo di cosa stessi parlando con la donna, sicché tornai a casa. Per passare del tempo, decisi di preparare la cena. Mi rimboccai le maniche e preparai degli spaghetti al pomodoro, cercando di ricordare esattamente la ricetta di mia nonna. Poi mi dedicai al piatto preferito da me e da Leah: cotolette di carne e insalata. Durante la frittura, udii uno strano rumore provenire dalle mie spalle, e quando mi voltai notai che il display del cellulare era illuminato.
“Sì?”
“Sono Pierre.” Restai qualche istante in silenzio, cercando qualcosa da dire. “Che combini?”
“Sto...Sto cucinando.”
“Questa mi è nuova. Cosa stai facendo di buono?” La sua tranquillità rasentava sfrontatezza. Non si era fatto vivo per una settimana intera e...Cercai di mantenere i nervi saldi e parlare con calma.
“Cibo.” Spensi appena in tempo i fornelli. C’era un odorino rigenerante.
“Apri la porta.” Sollevai lo sguardo dal piatto nel quale avevo collocato le cotolette e sussultai. A passo lento mi diressi all’entrata e poggiai una mano sul pomello, che girai lentamente. Quando lo vidi, teneva ancora il cellulare accanto all’orecchio, ma il suo volto era nascosto da un mazzolino di fresie.
“Sei un idiota.” Affermai, facendolo entrare. Annusai quelli che erano i miei fiori preferiti e andai alla ricerca di un piccolo vaso per contenerli. Trovai quello che tenevo da tanti anni ma che mai aveva accolto fiori e lo riempii d’acqua, collocandolo poi nella mia stanza. Tornai in cucina, dove, ovviamente, il ragazzo se la stava spassando con la mia cena. “D’accordo, sei invitato.” Sul suo volto si stampò un sorriso a trentadue denti; quella situazione era esilarante. Il suo sorriso beffardo lo era, e glielo avevo sempre detto. Non c’era nulla di più divertente che vedere Pierre Bouvier ridere, sfoggiare una risata coinvolgente e maledettamente rilassante. Mi avvicinai a lui e lo guardai, e subito dopo mi trovai tra le sue braccia; era così estasiante sentire il suo profumo, familiare.
“Non sparisco più, promesso.” Sussurrò, poggiando il mento sul mio capo.
“Stamattina volevo leggere uno dei tuoi articoli, ma non sono stata molto fortunata.” Si irrigidì improvvisamente, facendomi sobbalzare. Mi allontanai e lo fissai, chiedendogli cosa gli stesse succedendo.
“Nulla. E’ che...ho preso un periodo di pausa. Devo trovare l’ispirazione necessaria.”
“Ah, ti capisco.” Sorrise di nuovo. “Mi stai nascondendo qualcosa, Bouvier?”
“No. Cosa te lo fa pensare?” Feci spallucce, iniziando ad apparecchiare.
“Non so...hai degli strani atteggiamenti. Sarà solo una mia impressione, non pensarci. Chiamo Leah.”
 
Pierre p.o.v
Che iniziasse a dubitare e a porsi delle domande, era lecito. Ma perché aveva deciso di ricominciare a leggere i giornali? Un altro problema si poneva con l’imminente uscita del nuovo album, quell’anno. Mancavano cinque mesi, ma in breve sarebbero stati affissi i poster e le locandine. Dovevo parlarle, dirle tutta la verità, farle sapere ogni cosa, dalla band a...Lachelle. Forse lo avrei fatto quella sera stessa, dopo cena, approfittando del fatto che ormai avesse già iniziato a chiedermi qualcosa. Quando Leah rientrò, l’aiutai a portare dentro le buste della spesa e poi andai a prendere Jack a lavoro. Attesi qualche minuto prima che uscisse e mi raggiungesse in auto. Parlammo del più e del meno, quando improvvisamente, fermi ad un semaforo, mi chiese qualcosa che mai mi sarei aspettato.
“Come va con le canzoni?” Eravamo, fortunatamente, già fermi, sicché non corsi il rischio di schiantarmi contro un palo della luce.
“Che vuoi dire?” Rise, rendendo la situazione ancora più pesante.
“Simple Plan. Non ci crederai, ma Sam e Leah vi ascoltavano fino a cinque anni fa.” Ecco perché considerava la mia voce estremamente familiare. Chinai il capo e colpii più volte il volante, in segno di flagellazione. “Poi hanno smesso per lavoro. Sam ha pensato alla laurea e alla carriera e lo stesso Leah. Si sono completamente dimenticate le vostre facce.”
“Ha riconosciuto la mia voce e non il mio volto.” Affermai, fissando la luce rossa. “Devo parlare con lei.”
“Se non lo fai tu lo farà la pubblicità.” Finalmente uscì il verde. Nel momento stesso in cui rimettemmo piede in casa, ci rendemmo conto che le ragazze si erano cambiate. Erano in pigiama.
“Che sensualità!” Affermò Jack, abbracciandole. Durante la cena non potei fare a meno di osservarla. Sembrava così tranquilla. Cosa ci sarebbe successo dopo la mia confessione? Cosa avrei dovuto fare per riparare a quel danno? A fine pasto, mi lasciai cadere sul divano, chiudendo gli occhi, mentre Leah e Jack andarono a dormire; il ragazzo mi fece un occhiolino e scomparve dietro la porta. Aiutai Sam a mettere le ultime cose a posto, poi insieme ci dirigemmo, al solito, sul terrazzo, nonostante il freddo glaciale. Ora o mai più, pensai. Le carezzai i capelli, sentendo in quel momento la morbidezza al tatto; quello che proprio avrei voluto evitare era sentire ogni “emozione” in modo più enfatizzato; era un segnale estremamente negativo.
“Dovremmo comunicare all’osservatorio le tue scoperte astronomiche.” Mormorò, interrompendomi prima ancora che potessi iniziare.
“Meglio di no. Potrebbero richiedere interviste o cose simili, sarebbe stressante.”
“Potrei fartene una io...Sai, per riassaporare il piacere del colloquio con personaggi di spicco nel campo della scrittura.”
“Se scrivere ti manca tanto, perché non ricominci?” Scosse il capo, portando le ginocchia al petto.
“Magari leggere un tuo articolo potrebbe essere la spinta giusta.” Disse, sorridendomi.
“A proposito di questo...” Mi sgranchii la voce e guardai dritto di fronte a me. Era quello il momento giusto. “Samantha, ho una cosa da confessarti.” 
  
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