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Capitolo XI L'impatto
Cap XI^
14 aprile 1912 – Tempo del
Titanic, ore 21.00
Erano le 21.00 e Russel fece appena in tempo a
vedere di sfuggita il Comandante che, lasciata la festa in suo onore al
Ristorante A la Carte, si recava al ponte di comando. (Il giornalista sapeva
che avrebbe dato le ultime disposizioni
della giornata al personale in servizio, ossia il primo ufficiale Mc Master
Murdoch, assistito dal quarto ufficiale Groves Boxhall. Malgrado gli avvisi sul
ghiaccio, non dette alcuna particolare istruzione circa la velocità che quindi sarebbe rimasta
invariata. Il giornalista si recò in sala fumatori di prima classe per vedere come si comportavano i suoi compagni
di viaggio. La scena che gli si presentò era quella consueta di alcune persone
di buon livello che, dopo una lauta cena, aspettavano l'ora di andare a
dormire, concedendosi il lusso di una buona conversazione, con l'aggiunta di un
buon sigaro ed un piacevole bicchiere di liquore. Ad uno dei tavoli vide un gruppo formato dal sig Hays, dal colonnello
Gracie e dal capitano Edward Crosby. Il
sig Hays stava dicendo agli altri che
era convinto che le grandi dimensioni di un mezzo di trasporto, come quello su
cui si trovavano, secondo lui pregiudicavano la sicurezza invece di aumentarla.
Il colonnello Gracie, accettava in parte la tesi dell'altro ma affermava che il
viaggio che stavano facendo sarebbe stato comunque indimenticabile e dovevano
ritenersi fortunati per aver potuto partecipare a quell'evento di cui si
sarebbe parlato a lungo. Diversi
passeggeri erano intenti a giocare a carte come tutte le altre sere. Il
giornalista notò al lavoro i 'sig.ri' George Brereton e Harry Homer, per
citarli con il loro vero nome, che in
coppia, stavano tentando di 'mettere in mezzo' il sig. Rotschild che però
sembrava un osso veramente duro. Si mosse per tutto il salone indugiando con lo
sguardo su tutte quelle cose belle che fra poco sarebbero finite nel buio dell'oceano.
In particolare giunse al caminetto in fondo al salone e volle poggiare le mani
sulla sommità in marmo, e passare delicatamente le dita sui profili della
statuetta di Artemide che lo adornava. Questi gesti gli trasmisero una notevole
soddisfazione e poteva capire il sig
Andrews che indugiava quasi sempre la sera in quel luogo particolare,
considerando un po' la nave come una sua creatura. Si recò nel posto dove in quei giorni aveva
vissuto dei bei momenti con piacevoli sensazioni. Entrando nel Cafè Parisienne, rimase un attimo sorpreso. Non lo aveva mai
visto così affollato. Ciò perchè lui aveva frequentato quel locale solo per fare colazione al mattino. Ma il Cafè
Parisienne era in realtà un ristorante dove si potevano consumare le stesse
vivande della sala da pranzo, ma dall'ora di pranzo, senza interruzione, almeno
fino alle ore 23.00. Il cameriere, riconosciutolo, lo condusse ad uno dei
pochissimi tavoli liberi e prese la sua ordinazione relativa ad un caffè forte.
Attorno a lui c'erano diverse persone conosciute che commentavano i fatti della
giornata, terminando di cenare, assaporando i gustosissimi sorbetti
caratteristici del locale o sorbendo un liquore. Ad un tavolo vicino vide lo
scultore Romain Chevre che giocava tranquillamente a bridge con i suoi amici
Pierre Merechal, Alfred Fernand Aumont e Lucien Smith. Russel, sorseggiando il
suo buonissimo caffè, lontano 1000 miglia da quella gente, ripensava a quanto
vissuto in quei favolosi giorni. Non aveva mai avuto un'esperienza simile nella
sua vita e di questo doveva certo essere grato a Marcus. Ma sapeva che ora la
'vacanza' sarebbe terminata e il conto da pagare sarebbe stato salatissimo. Era
abbastanza sicuro che la sua missione non era stata ancora portata a termine.
Aveva conosciuto tante persone, ascoltato tante conversazioni, visitato
praticamente ogni angolo interessante della nave. Poi si era imbattuto in gente
strana, che probabilmente aveva addirittura cercato di farlo fuori ma che poi,
inspiegabilmente, era semplicemente sparita. Lo rafforzava nella sua
convinzione il fatto che avrebbe dovuto vivere il naufragio fino in fondo. Egli
sperava solamente che quanto vissuto sul Titanic, magari negli ultimi istanti,
lo mettesse in grado di agire nel modo giusto. Erano ormai le 22.00 e immaginò
che in terza classe, come tutte le sere, il personale avesse iniziato a
spengere le luci ed a chiedere ai passeggeri di raggiungere le loro cabine o i
dormitori per andare a dormire. Mancava un'ora e mezza circa all'impatto.
Doveva trovare il modo di occupare quel tempo o sarebbe diventato matto. Era in
questi momenti che avvertiva i cambiamenti intervenuti con l'età. Suo malgrado
aveva preso atto di essere diventato emotivamente più fragile di tanti anni
prima. In altri tempi aveva assistito a scene di incredibile violenza e
barbarie, limitandosi a registrare ciò che accadeva attorno a lui. Ora si trovò
a chiedersi dove fosse in quelle circostanze la sua umanità. Si chiedeva
addirittura chi fosse quella persona capace di assistere a certe scene con così
totale distacco. Forse era questa la fama che si era fatta e questo era il
motivo che aveva indotto Marcus a scegliere proprio lui per un incarico del
genere. Bene! Al suo ritorno avrebbe messo in chiaro che si erano sbagliati sul
suo conto. Lui era un essere umano, ora, ben contento di esserlo, di essere
capace di commuoversi, di soffrire per la sorte di quelle persone e con molta
probabilità, che ciò che l'avevano mandato a fare, gli sarebbe costata l'anima.
Ritenne che sarebbe stato piuttosto importante poter assistere all'imbarco
sulle scialuppe di salvataggio e quindi si recò sul ponte delle lance.
Dall'alto, da prua a poppa, lo scenario del Titanic illuminato era grandioso.
L' effetto era tanto più sensibile quanto più si prendeva atto che attorno, il
mare, nella notte senza luna, era nero come l'inchiostro. Lo stellato fitto
che si vedeva in cielo, era incredibile
e caratteristico di un mondo più pulito e senza smog, insufficiente però ad
illuminare il mare sottostante. Dal blocco dei locali del ponte di comando non
giungevano segni di particolare attività. Di certo ci si preparava ad una lunga
notte di guardia in un mare che si
riteneva deserto, attenti più che altro a mantenere la rotta, a dispetto delle
correnti marine ed a mantenere la velocità quasi al massimo. Sul ponte non c'era
molta gente. Un po' per il freddo e un po' perchè era stata una giornata
piuttosto impegnativa e densa di emozioni. Russel sapeva che da lì a poco quel
posto sarebbe stato il centro di una attività frenetica e poi addirittura
disperata. Si sarebbero svolti in quel luogo atti di coraggio, di generosità ma anche di violenza,
vigliaccheria e brutalità. I passeggeri non si sarebbero potuti imbarcare sulle
scialuppe da quel ponte. Infatti non c'era via di accesso alle barche che erano
sollevate rispetto al livello di passeggiata di almeno un metro e mezzo. Per l'
imbarco erano previsti dei portelloni sulle fiancate del ponte sottostante, il
ponte A, per cui le scialuppe sarebbero prima state abbassate all'altezza di
questo ponte e poi, una volta al completo, calate in mare. Russel scese sul
ponte A e cercò un modo, una via che gli consentisse di spostarsi con una certa
facilità sui due lati della nave per documentare le operazioni di imbarco dei
passeggeri. La necessità di spostarsi sia a tribordo che a babordo derivava dal
fatto che erano accaduti eventi particolari sui due lati, specie perchè i due
ufficiali addetti a controllare le operazioni di imbarco, il sig William
McMaster Murdock sul lato sinistro ed il sig Charles Herbert Lightoller sul lato destro, dalle testimonianze dei
superstiti, non avrebbero seguito le stesse direttive o non avrebbero comunque
seguito lo stesso metro di giudizio. Infatti, mentre McMaster Murdock fece
osservare scrupolosamente, salvo rarissime eccezioni, la norma "prima le
donne e i bambini", Lightoller si dimostrò assai più elastico, badando più
che altro a calare le scialuppe più in fretta possibile. Peccato che comunque
tutti e due abbiano avuto lo stesso comportamento nel far ammainare le lance
prima che fossero completamente piene. Avrebbero di certo consentito a molte
più persone di salvarsi. Trovò un passaggio abbastanza diretto all'altezza
degli scaloni di prima e seconda classe. Decise che si sarebbe servito di
quello della prima classe finchè fosse stato possibile e poi con il salire
dell'acqua a prua, avrebbe iniziato ad usare l'altro passaggio, quello a poppa.
Consultò l'orologio e vide che erano le 22.45. Un'ora, ancora un'ora da
trascorrere, un'ora di pace per chi si apprestava ad andare a dormire dopo una
bella giornata, un'ora per dormire sonni tranquilli, un'ora per passeggiare al
chiaro delle stelle, per fare progetti, per scambiarsi confidenze, per stare
insieme. Il giornalista sentiva il cuore che gli martellava in petto, come se
il suo movimento e l'intensità del suo battito crescessero all'avvicinarsi di
quel mostro di ghiaccio che li aspettava nell'ombra da lì a poche miglia. E
loro che ci stavano filando contro a piena velocità! Che pazzia, che stupido
gioco! Ma poi perchè, visto che non
avrebbero mai potuto battere nessun record? Infatti ciò era stato realizzato
dal piroscafo Mauritania della compagnia concorrente, la Cunard Line, nel
settembre del 1909. Il record era stato ottenuto mantenendo in permanenza la
velocità di 26 nodi. Visto che il Titanic procedeva ad una velocità massima di
23 nodi, ogni tentativo era completamente inutile. Sembra che però il sig.
Ismay fosse convinto che sarebbe stato di grande impatto riuscire a raggiungere
New York con un giorno di anticipo rispetto alla data prevista. Pensò a quali
locali avrebbe potuto visitare nell'attesa,
per documentare quegli ultimi minuti. Sarebbe stato sufficiente per
trovare quelle risposte che ci si aspettavano da lui? Scartò decisamente la
terza classe, A quell'ora le luci erano state spente e la gente era stata
invitata a dormire e poi, se qualcosa fosse andata storta, avrebbe rischiato di
restare intrappolato con gli altri in fondo alla nave. Nervosamente tornò nel
salone fumatori di prima classe. Se qualcosa di importante doveva accadere,
forse, visto il calibro dei presenti, era lì che l'avrebbe notata. Ad un tavolo
vide ancora seduti il sig. Hays, il col
Grace ed il capitano Edward Crosby che stavano ancora discutendo sull'argomento
di poco prima. Hays insisteva nel definire la nave come troppo grande e
pericolosa. Faceva notare, infatti, che se alla partenza non fosse stato
evitato l'incidente con la nave New York, sarebbero colati a picco già nel
canale di Southampton. Ascoltando quei discorsi che testimoniavano come
parecchi dei passeggeri prevedessero qualcosa di pericoloso e drammatico, malgrado
i suoi buoni propositi, il giornalista si fece portare un' altro bicchiere di whisky
che ingoiò in un fiato e poi, vista l'ora, uscì e si recò alla balaustra posta
in corrispondenza della parte anteriore della passeggiate del ponte A. Sotto di
lui, lo spazio aperto del ponte C, riservato alla terza classe. Notò nella
scarsa luce proveniente dalle lampade della nave in quel posto, che sedute ai
tavoli c'erano alcune persone, segno che qualcuno era sfuggito al coprifuoco e
si godeva la nottata con i compagni di viaggio. Alle ore 23.40, ora della nave, Russel fissò il suo
sguardo a prua. Voleva vedere con i suoi occhi l'iceberg che li avrebbe spediti
in fondo al mare. Lui era avvantaggiato rispetto alle vedette, perchè, a differenza
di loro, sapeva che l'ostacolo c'era ed era proprio lì, davanti a loro. Con il
passare dei secondi, aguzzava lo sguardo, notando con disappunto che si era
alzata una leggera nebbiolina. Le mani serrate sul parapetto sembravano voler affondare nel legno
del mancorrente. "Dove sei, maledetta montagna di ghiaccio, lo so che sei
lì, fatti vedere!" Gli avevano detto che la presenza di un iceberg veniva
segnalata da un odore particolare, che si avverte anche a grande distanza,
derivante dai vegetali che il ghiaccio ingloba e che a contatto con l'acqua di
mare marciscono. Ma non sentiva nulla, non sentiva e non vedeva nulla. Poi all'improvviso,
tre tocchi di campana gli annunciarono che gli eventi stavano precipitando e da
ora sarebbe stata una corsa per la sopravvivenza. Dalla coffa dell'albero di
trinchetto, vide un uomo che scendeva precipitosamente. Si trattava di un delle
vedette, il marinaio Frederik Fleert, una delle famose vedette dalla vista
d'aquila, che, avvistato l'iceberg aveva suonato la campana, per indicare con il segnale convenuto la presenza di un
ostacolo a prua, ed ora si recava di corsa in sala comando per riferire. L'
altra vedetta, Reginald Robinson Lee, a quell'ora stava facendo la stessa cosa,
ma utilizzando l'apparecchio telefonico della coffa. Ed eccolo là! Ora lo vedeva
anche lui. Imponente, massiccio, sinistro, se ne stava lì davanti, come a
sfidare quel gioiello della tecnica, come per far vedere chi era il vero
padrone del mare. E per questo avrebbe preteso un tributo di vite altissimo.
Percepì una variazione nel moto della nave, una forte vibrazione, un
rallentamento, ma rallentare quella massa non era un' impresa da poco. Sapeva
che durante le prove in mare, ad una velocità di venti nodi, per fermare il
Titanic ci erano voluti 950 metri. Ora invece, a 22 nodi, ne avevano a
disposizione ormai meno di quattrocento, per evitare il disastro. Poi vide l'iceberg,
lentamente, spostarsi sulla destra. Ed ora gli erano addosso. La cima della
montagna di ghiaccio era alla loro destra e probabilmente almeno per un attimo,
in plancia dovevano aver tirato un sospiro di sollievo, ma non avevano fatto i
conti con la parte sommersa. Un suono terribile derivò dall' impatto. Una
miscela di suoni, quali un rumore di lamiere lacerate, un suono simile ad un
lamento profondo, un tambureggiare violento, uno stridio di metalli
violentemente sfregati fra loro che durò per dieci secondi interminabili. Lo
scafo ebbe un sobbalzo e per un attimo sembrò inclinarsi leggermente sulla
sinistra. Era chiaro a tutti coloro che avevano assistito all'evento che
l'impatto c'era stato. Vista la sequenza degli ordini che erano stati impartiti
in sala comando, ossia : “macchine indietro tutta, turbina ferma e timone tutto
a sinistra”, lo scafo era andato ad urtare l'ostacolo sbandando in
frenata. La manovra peggiore in assoluto che poteva essere eseguita. Al momento
solo in sala macchine sapevano di quale entità fosse il danno. Dalla sala
comando, per precauzione, sarebbe stato dato l'ordine di abbassare le
saracinesche e di soffocare i fuochi delle caldaie, in attesa di valutare la
situazione. Era previsto che fosse comunque mantenuto il tiraggio sufficiente
per produrre l'energia elettrica necessaria all'illuminazione della nave.
Russel sapeva che malgrado le scalette a chiocciola previste per far mettere in
salvo i fuochisti e i macchinisti, quelli delle prime due sezioni, a causa del
tremendo flusso d'acqua che entrava dalla micidiale falla che si era prodotta, non avevano avuto
scampo. Inoltre per alcuni minuti si poterono avvertire suoni cupi e profondi
provenire dalla prua,dovuti al fatto che pur avendo soffocato i fuochi, l'acqua
gelida si trovò a contatto con elementi arroventati, producendo diverse
esplosioni di vapore. Per i disgraziati che si trovavano lì sotto doveva essere
stato un inferno. Diversi passeggeri intanto, si affacciavano alla murata di
destra per vedere l'iceberg che, compiuta la sua micidiale missione, e lasciati
sul ponte della nave alcuni pezzi di ghiaccio, staccatisi durante l' impatto, silenziosamente
scivolava nel buio così come ne era venuto. Infatti, la nave, obbedendo alla
fine agli ordini che aveva ricevuto, iniziò a indietreggiare e continuò ancora,
causa l'abbrivio, per circa dieci minuti. A quel punto, ore 23.55, l'acqua nei
compartimenti allagati, aveva raggiunto i 4 metri e stava iniziando ad allagare
il quinto compartimento, fatto questo che dette il via agli eventi che
portarono alla perdita della nave. L'altezza del ponte dalla superficie del
mare e le scarse condizioni di luce, non permettevano a dei profani che si erano affacciati al parapetto, di
valutare se c'era un danno reale e quanto questo poteva essere grave. In quel
momento, intanto, il sig. James Paul Moody, sesto ufficiale, era andato a
svegliare personalmente il comandante, visto che non c'era linea telefonica fra
la sala comando e la sua cabina. Fra coloro che erano ancora svegli, la notizia
dell'incidente si era andata diffondendo. All'inizio veniva presa come un
interessante argomento di conversazione, perchè nessuno poteva immaginare la
reale portata dell' evento che li aveva colpiti. Finalmente comparve il
comandante sul ponte C assieme al sig Andrews e tutti e due, affacciati alla
murata di dritta, osservarono a lungo lo scenario visibile poi, parlando
animatamente fra loro, accompagnati dal sig Hanry Tingle Wilde, comandante in
seconda, e da due marinai, si avviarono
verso lo scalone di prima classe per scendere e valutare con i loro occhi il danno. In realtà non
riuscirono a vedere un granchè, questo Russel lo sapeva dalle nozioni che gli
erano state trasferite in sede di addestramento. Infatti il gruppo scese fino
al ponte F e poi procedette verso prua per raggiungere le scale che portavano
al ponte G. Da lì, avanzarono ulteriormente per raggiungere la sala caldaie.
Rimasero invece letteralmente impietriti dall'orrore quando, giunti all'
altezza dell'ufficio postale, lo trovarono in parte allagato, con gli impiegati
preoccupatissimi per mettere in salvo i sacchi della posta. La constatazione
del danno, si rivelò per tutti come una mazzata. La nave era perduta! L'acqua,
alle ore 00.10 del 15/4 aveva superato nella sezione allagata il livello di 14
metri, quindi aveva debordato dalle saracinesche e, fatto un rapido calcolo, il
progettista dello scafo era giunto alla conclusione che la prua aveva già
imbarcato almeno 8000 metri cubi d'acqua. Al Titanic restava non più di un'ora
e mezza prima di finire in fondo all'oceano! Due fuochisti della sala caldaie n
4, una delle meno danneggiate, neri di fuliggine e con serie ustioni, che erano
stati mandati dal sig. Edward Dodd, 3^ ingegnere di macchina, per farsi medicare, e che
risalivano da quell'inferno, confermarono l' incredibile, atroce verità. La
falla era terribile e non c'era nulla da fare. L' acqua entrava senza controllo
da una serie di squarci sovrapposti, se ne erano prodotti almeno 6, e le pompe elettriche potevano solo
ritardare l'inevitabile, almeno finchè fossero rimaste in funzione. Occorse qualche minuto al comandante e agli
altri per accettare la realtà. Per impedire il diffondersi del panico sui ponti
inferiori, non dissero nulla, però, delle loro conclusioni al personale del
ponte G. Gli impiegati dell'ufficio postale, nel tentativo di mettere al sicuro
il maggior numero possibile di sacchi di posta, persero tutti e cinque la vita.
Il comandante e gli altri del gruppo,
risaliti al ponte di comando, dettero ordine agli ufficiali di disporre
per l'abbandono della nave. Intanto furono messi al lavoro i radiotelegrafisti
per cercare aiuto da chiunque lo potesse fornire. Inoltre si sapeva che la nave
Californian era piuttosto vicina e sarebbe potuta intervenire in modo efficace.
Purtroppo la nave in questione, che era effettivamente a breve distanza, e che si era fermata per la
notte per paura dei ghiacci, aveva l'impianto radio spento. Questo ,vuoi perchè
il capo-radiotelegrafista del Titanic aveva detto all'altro operatore di
togliersi di mezzo, che aveva da spedire un sacco di telegrammi importanti e
non voleva interferenze nei segnali, vuoi perchè sul Californian c' era un solo
radiotelegrafista che, fatta eccezione per casi particolari, la notte dormiva.
Erano le ore 00.25. Fu organizzato un
servizio di informazione per avvisare tutti i passeggeri, poichè la nave non
era dotata di altoparlanti. Fu disposto di avvertire anzitutto i passeggeri
della prima classe e poi quelli della seconda. Tutti sapevano che le scialuppe
non erano sufficienti che per la metà circa dei passeggeri. Se la terza classe
avesse conosciuto immediatamente la reale gravità del danno, si sarebbe
riversata in coperta per cercare di salvarsi, mettendo così a repentaglio la
vita dei passeggeri di prima e di seconda, ritenuta più preziosa. Per evitare
che il panico facesse perdere il controllo delle operazioni all'equipaggio, fu
comunque fatta circolare la notizia che l'imbarco sulle scialuppe era più che
altro una iniziativa legata ad un eccesso di prudenza poichè la situazione era
tutt'ora sotto controllo. Fu quindi mandato del personale in terza classe,
rassicurando tutti che non ci sarebbe stato alcun problema e che intanto indossassero,
solo per cautela, il salvagente, e aspettassero tranquillamente di venire
chiamati. Contemporaneamente l'equipaggio avrebbe verificato che i cancelli di
separazione fossero accuratamente chiusi, almeno in quella prima fase
dell'emergenza. In quel momento intanto il primo radiotelegrafista, sig John
Philips, stava ancora disperatamente cercando di contattare chiunque fosse in
grado di recare loro aiuto. La nave più vicina. che rispose all'appello fu
purtroppo il Carpatia, che mettendo le macchine a tutta forza, li avrebbe
potuti raggiungere però solo in tre, quattro ore. Avrebbe comunque fatto del
suo meglio, se non altro per soccorrere i naufraghi. Malgrado la situazione di
allarme, l' incredulità sul possibile affondamento della nave e la voce che l'imbarco
fosse più che altro una precauzione, non invogliò più di tanto i passeggeri di
prima classe ad imbarcarsi. Subito dopo l'ordine di abbandono nave, le squadre
di marinai addetti alle scialuppe, ognuna costituita da dieci elementi, si era
recata sul ponte delle lance e, agli ordini dei due nostromi appositamente
addestrati, sgg. ri Albert Haines e Nichols Alfred, le aveva calate fuori bordo
fino all'altezza del ponte A sottostante. In quel luogo, altri marinai addetti
all'imbarco, avevano spalancato dei portelloni nella murata, permettendo così un
migliore accesso alle barche. D' improvviso, dal ponte superiore, si udirono
due esplosioni, seguite da un lampo di luce intenso.