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Autore: shotmedown    31/01/2012    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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~ Next time I’ll be braver,
 I’ll be my own savior.

Adele, Turning Tables
 
 







“Pierre, credo solo che tu debba lasciarmi andare.” La sua mano, prima stretta in una morsa che avevo sentito come troppo forte anche per me che sapevo difendermi meglio di qualunque altra donna, era chiusa in un pugno. Nella saletta accanto piombò il silenzio quando ad uscire fui prima io, e David, che prima si era mostrato tanto cordiale nei miei confronti, mi venne incontro. Gli rivolsi un sorriso di circostanza e scesi giù in parcheggio, dove il signor Powell attendeva impaziente il mio ritorno. Negli ultimi mesi il suo caratteraccio era uscito fuori in un modo che mi fece sorprendere di me stessa. Non potevo credere di essere tanto tollerante nei confronti degli schiavisti. 
“Senta un po’, perché non se ne torna in quello stupido negozio e mi lascia in pace, eh?”
“Signorina, non mi faccia prendere provvedimenti...” Disse, sfrontatamente. 
“Stia zitto.” 
Mi avviai lungo la strada che mi avrebbe ricondotta a casa; sapevo che avrei dovuto trovarmi un altro lavoro, e che se proprio avessi voluto fare qualcosa di decente, avrei dovuto tornare a scrivere. L’indomani, avrei presentato una richiesta alla Montréal Gazette per ottenere quel posto che credevo fosse di Pierre e tornare a fare ciò che amavo e che sapevo non mi avrebbe mai tradita. Scrivere. Calciai una lattina, colpendo per sbaglio qualcuno intento ad affiggere un cartello sulla vetrina di un negozio di musica. 
“Non è così che si impara a giocare a calcio, sai?” Chiesi scusa, continuando a camminare. “Hey...ma io ti conosco!” Sollevai gli occhi al cielo, accelerando il passo. 
“No, non mi conosci.” Svoltai un angolo e non seppi come, mi trovai un energumeno di un metro e ottanta di fronte. 
“Il signor Powell ha stressato anche te, vero?” 
“Cosa? E come fai a saperlo?” 
“Ho lavorato per lui fino al tuo arrivo. E’ un tipo insopportabile, lo so bene.” 
“Dovrebbe darsi una calmata, o dovrà trovare assistenti ogni mese.” 
“Hai resistito tanto, per quanto ne so. Sono passato l’altro giorno in negozio, e c’eri ancora tu.” Fu un dettaglio in particolare a farmi tornare alla mente il suo volto: il tatuaggio sul collo, raffigurante una rosa. Era quel patito dei Guns ‘n Roses. 
“Patience.” Mormorai. Quando mi aveva vista, mi aveva dedicato quella canzone, ricordai. Scoppiai a ridere, trovando solo in quel momento il nesso tra la canzone e me. Rientrammo nel negozio in cui lavorava, o sarebbe stato licenziato per cattiva condotta, e continuammo a chiacchierare fino al momento della chiusura pomeridiana. 
“Senti un po’, com’è essere l’altra di Bouvier?” Quella domanda mi colse totalmente alla sprovvista, tanto che sentii mancarmi il respiro. 
“Che cosa stai dicendo?” Scesi dallo sgabello su cui mi ero momentaneamente seduta e indossai il cappotto, pronta ad andare via. Ma prima, volevo una spiegazione. 
“Oh, andiamo, siete fortunati che i giornali non ne parlino ancora. Siete venuti qui qualche volta e giurerei di avervi visti solo un attimo staccati.” Avvampai violentemente, sicché mi coprii il volto con la sciarpa. “La sua fidanzata è davvero sexy. Non che tu non lo sia, insomma...Ma non credevo decidesse di darsi alla pazza gioia.” 
“Io non sono l’altra. Siamo...eravamo solo amici.” Prima che potesse dire qualsiasi altra cosa, mi affrettai ad uscire, sbattendo la porta alle mie spalle. Procedetti a passo spedito fino a casa, dove Leah sembrava decisa a trattarmi allo stesso modo in cui mi avevano trattata gli altri; ma non ero pronta a sentire altro su Pierre. Cenammo in silenzio, lanciandoci di tanto in tanto delle occhiatine complici. Le avrei parlato dopo. Andai a fare una doccia, dopodichè infilai le cuffie e mi nascosi sotto le coperte. Mi sentivo già meglio, così isolata. 
Intorno alla mezzanotte, sentii il freddo tornare a colpirmi in pieno volto, e una luce accecarmi gli occhi. Leah. Si coricò accanto a me e aspettò che iniziassi a parlare. Le raccontai ogni cosa, senza tralasciare neanche un singolo e insignificante dettaglio, quasi stessi riportando per iscritto l’accaduto nel mio diario personale. Solo in quel momento, pensando al suo volto, sentii un groppo alla gola che non volle saperne di scendere se non quando una parola pronunciata sottovoce dalla mia amica fece sì che ben altro uscisse fuori. 
“Piangi così di rado che non può farti che bene.” 
 
Erano passati quattro giorni, e al giornale avevano detto che mi avrebbero fatto sapere. Nel frattempo le mie giornate passavano così lentamente che sentii di poter invecchiare precocemente, e la noia prese ben presto il posto della malinconia. Il giorno dopo quel lungo pianto, avevo deciso di essere sincera e leale nei confronti di me stessa e mettermi all’opera per ricominciare tutto, di nuovo, questa volta da un punto di partenza differente. Quello che volevo io. Al diavolo se fosse andato tutto male, ci avrei provato di nuovo. Per ora, mi limitavo però ad aspettare che l’agenzia si facesse sentire, e per passare il tempo avevo deciso di imparare a suonare la chitarra che avevo comprato all’età di sedici anni, colta dall’improvvisa voglia di possedere uno strumento, tipica di quell’età. Si chiamava Naya, ed era di un blu marino bellissimo, e le corde D’Addario, che mi avevano detto fossero le migliori, rendevano il suono celestiale, come quello che più amavo udire nelle canzoni che ascoltavo di sera, nel letto. Iniziai con il classico giro di SOL, che ancora ricordavo, poi mi dedicai al tanto “amato” barré. Cos’avevano le mie dita che non andavano? Perché non riuscivo a suonare quel Fa?! Cercai di analizzare a fondo tutte le caratteristiche della nota, quando sobbalzai a causa del cellulare. Lo afferrai, imprecando, ma cambiai tono notando il nome apparso sullo schermo. Staccai e mi alzai dal divano, avvicinandomi alla porta. La aprii lentamente, come per dargli la possibilità di andare via. 
“Ciao.” Dissi, scostandomi e lasciandolo entrare. “Hai dimenticato qualcosa?” Tornai a sedermi e impugnai nuovamente lo strumento. 
“Le bacchette per la batteria.” Annuii, cercando di concentrarmi sulle dita. Provai con gli arpeggi, ma neanche in quel caso potei dirmi fortunata o almeno capace. “Non è quello il modo di tenere la paletta.” 
“Come vuoi che si debba tenere una paletta? E’ il mio stupido polso ad avere un problema.” 
“Hai un polso normale, ma una convinzione sbagliata. Tienila così.” Inclinò leggermente la chitarra, facendo poggiare l’incurvatura della cassa sulla mia coscia e raddrizzando la paletta stessa, che, ora, era più atta all’essere impugnata bene. 
“Grazie.” Affermai, chiudendo il libro. Notai che le sue dita stringevano quel paio di bacchette che mi aveva fatto vedere un anno prima, per insegnarmi il ritmo. 
“Domani parto.” Mormorò, prima di uscire. 
“Tour?” Riuscii solo a chiedere. 
“Una specie. Starò via un po’ di tempo.” Annuii, chiedendomi cosa avrei dovuto fare in quella circostanza. 
“Le canzoni sono già pronte?” Domandai, incrociando le braccia sul petto.
“E’ davvero questo quello che ti basta chiedermi?” Preferii non rispondere. Mosse un passo nella mia direzione, e notando che non mi ero mossa di un centimetro, colmò quella distanza che ci divideva. Dovetti leggermente sollevare il capo per poterlo guardare negli occhi e dirgli tacitamente di andar via. 
“Non puoi dire che non voglia ascoltarti, Pierre. Il problema è che non sono più disposta ad udire quella che tu fai passare per verità ma che non è altro che una sporca bugia.” Mugugnai tra i denti.
“Non ho mai detto una cosa simile. Ma le cose che devi sapere mi tocca dimostrartele, non dirtele...” Aggrottai la fronte, non comprendendo a pieno le sue parole. 
“Stai cercando di confondermi?” Scosse velocemente il capo, facendo un passo indietro. Sembrava fin troppo combattuto, e ciò mi fece pensare che almeno in quel momento mi stava dicendo la verità. Poggiò le mani sulla superficie della porta e chinò il capo in avanti, facendomi preoccupare. Istintivamente allungai una mano e gli sfiorai la schiena. Ad un suo sussulto la ritrassi e mi allontanai, ma lui non fu d’accordo. Lo sguardo che mi fu possibile scorgere nonostante il crepuscolo fu uno dei pochi che Pierre mai mi aveva mostrato in quei tre anni. Non seppi se esserne spaventata o attratta, ma quel che era certo e che il suo respiro all’altezza della mia fronte non fu un segnale positivo. 
“Che co...” Non avevo mai capito perché dicessero perché in un istante un gesto tanto semplice quanto baciare avrebbe potuto comportare conseguenze disastrose. Non fui così coraggiosa, così spavalda da rifiutare le sue labbra, e in un momento sentii le mie muoversi con le sue, come impegnate in una sorta di movimento premeditato. La sua mano strinse forte all’altezza della mia mascella spingendo il mio volto verso il suo. Sentii quasi i polmoni gridare affinché concedessi loro un attimo di tregua, sicché feci per scostarmi. Ma non ci riuscii, data la pressione che faceva. Gli morsi il labbro inferiore, facendolo arretrare e ripresi fiato. Tuttavia, come se abbastanza ossigeno fosse arrivato al cervello, non lo lasciai riprendere, sentendomi una vigliacca. 
“Ora sono stato sincero. Contenta?”  
  
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