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Autore: Iolyna92    31/01/2012    3 recensioni
I capelli biondi profumavano ai fiori di lavanda e stavano ancora bagnati e scompigliati sulla testa.
Il viso dai lineamenti eleganti era leggermente più roseo per l’ambiente caldo che aveva abbandonato e gli occhi leggermente lucidi e arrossati.
Le larghe spalle, nude e umide, insieme alle braccia possenti e il petto, dove scolpiti c’erano muscoli sviluppati dai frequenti allenamenti, brillavano invitanti sotto le luci del pomeriggio.
Sulla pelle calda e profumata, una brillante goccia d’acqua attirò il suo sguardo.
Questa era partita dalla giuntura dei capelli sopra la tempia e pian piano scivolava sul bel fisico di lui, seguendo i contorni perfetti fino all’addome, dove fu assorbita dalla tovaglia che copriva il resto del corpo fin sopra le ginocchia.
Dorothy non si fermava spesso ad osservare la fisicità dei ragazzi e mai ad osservare quella di Seifer, almeno non fino ad adesso.
°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*
Spero di avervi incuriosito con questo pezzo tratto dalla mia storia^^
Vi sarei davvero grata se deste un occhiata e, anche se poi decideste di non leggerla, lasciare comunque una recensione. Accetto ben volentieri sia critiche che apprezzamenti xP grazie in anticipo^^
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Buona sera ^^!!! Come avevo predetto, non ero sicura di aggiornare velocemente, infatti mi sono tirata un mesetto D: ma tranquilli ne è valsa la pena!!! Infatti vi presento il 10° cappy!!! XD E’ un po’ piccino rispetto agli altri, ma moooooooolto molto figo ^^ (Parere mio XD poi voi lo sapete che dovete essere sinceri e che se è una cacca me lo dovete dire)!!!
Cmq, tengo tantissimo ad avvertirvi che, essendo in periodo d’esami (-.-“ e ciò comporta che dovrei studiare e non scrivere) non posso aggiornare prestissimissimo!!! Però farò di tutto, promesso ^^!!!
Vi auguro una buona lettura, e vi avverto di nuovo… Non credo che sia crudissima come scena, ma ha il suo valore ^^
Ioly :3



Capitolo 10°
Hai finito? Si. Bene, perché io ho appena incominciato.


 

 

Con passo fermo e deciso percorreva in fretta il corridoio del secondo piano sotterraneo.
 
Insieme al terzo e al quarto costituivano le prigioni del palazzo, le più oscure e protette di tutto il dominio di Hojo.
In queste, rinchiusi, stavano solo i prigionieri “particolarmente importanti” per il Padrone: un esempio erano militari dei ribelli di alto grado o spie scovate all’interno del sistema.
Il destino della maggior parte di queste persone era la tortura che un essere umano, sano di mente, non poteva immaginare e probabilmente neanche sopravvivere.
 
I suoi passi rimbombavano nel corridoio, all’apparenza desolato.
Il pavimento, nero in ceramica lucida, rifletteva scintillante il suo aspetto tenebroso oltre alle luci delle lanterne accese che illuminavano l’intero corridoio, soffusamente.
In entrambe le mura, grigie, umide e macchiate di muffa, che diffondeva una terribile puzza nello stretto corridoio; a ritmo preciso e ripetitivo, si presentavano porte blindate in pesante titanio, dove solo una piccola finestrella, accuratamente sigillata e aperta solo per i pasti, permetteva agli addetti di vedere l’interno.
Regnava il silenzio in quel lugubre luogo, perché, chi vi risiedeva, sapeva che neanche il respiro si doveva udire se volevano rimanere vivi… Se vita si poteva ancora chiamare.
 
Con le mani rilassate dentro le tasche del lungo cappotto in pelle nera, che ondeggiava vicino alle caviglie protette con i soliti stivaloni neri chiusi con decine di borchie, si avviava verso alla cella numero duecento, usualmente chiamata “la stanza dei marchi”.
 
La mente serena e il viso serio lo rendevano stranamente umano quella sera, anche se le luci gli davano un’aria spettrale.
Per un attimo era sparito lo sguardo freddo e perfido, ed insieme ad esso anche il sorriso maligno di chi si diverte a vedere la sofferenza dei nemici.
Ma ben presto sarebbero riaffiorati. Lo sapeva.
Arrivato davanti alla porta della cella interessata, che si trovava proprio in fondo al lunghissimo corridoio, per aprirla la spinse con il minimo sforzo.
La porta era molto pesante, ma lui era abbastanza forte per compiere il gesto senza un minimo di fatica.
 
All’interno, si presentò una situazione a lui ormai troppo familiare: la stanza aveva mura quadrate e grigie, come il pavimento, in cemento armato e malconci entrambi.
Era completamente vuota, a parte una grande pentola nera, dove all’interno scoppiettava un piccolo fuoco ardente.
Accanto, posati ordinatamente, stavano i ferri, con cui più tardi si sarebbe divertito volentieri.
 
Quattro uomini, eleganti nella loro divisa nera e argento, stavano messi sugli attenti negli angoli della grande stanza, e altri due stavano al centro, accanto alla sedia di ferro su cui, imbavagliato e legato saldamente, stava il prigioniero.
 
Appena entrò nella cella, i sudditi al servizio del supremo, quasi istintivamente e coordinati tra loro, lo salutarono con un gesto comune e veloce, a cui rispose con un accenno della testa; mentre l’uomo, che prima si agitava freneticamente, sgranò appena gli occhi alla sua visione.
Riuscì solo a provare piacere per quella dolce visione.
Se aveva già paura di lui, il compito che avrebbe eseguito in seguito gli sarebbe risultato più facile del previsto.
 
Alzò lo sguardo verso l’alto: in una specie di balcone comodamente seduto su un trono meno elaborato di quello presente nella stanza del trono, ma sicuramente pregiato e prezioso quanto quello, stava, in attesa di godersi lo spettacolo, il Padrone scortato da due ottimi servitori.
Appena si chinò per salutarlo con devozione, Hojo accavallò la gamba destra, lisciò la veste in velluto nero e poggiò il braccio sinistro sul bracciolo del trono, portando sul pugno il peso del volto.
Lo osservò severo per un istante: quando gli era stato fedele nell’arco della sua vita quel ragazzo.
Lo aveva trattato sempre come se fosse stato suo figlio e gli era sempre stato devoto e in debito per come lo aveva graziato.
Mai gli era passato per la testa di avere un apprendista a cui lasciare il trono, ma quegli occhi, le suppliche, come lo crebbe… Sicuramente non aveva perso del tempo inutilmente, anzi, ora che la vecchiaia pesava sulle sue spalle, gradiva sempre di più la sua collaborazione.
-Procedi pure.- poi ordinò in un sussurro gelido che rimbombò nella stanza.
 
Al proferire di quelle parole, Victor si mise subito a lavoro.
Mentre sbottonava il cappotto di pelle lucida, per rimanere solo nella sua maglietta attillata nera a maniche corte, fece notare al prigioniero, perfidamente, la frusta attaccata accuratamente alla cinghia che sosteneva i suoi jeans scuri.
Era composta da un manico in pelle, intagliato e decorato manualmente e su misura per le sue forti mani. Dal suo interno partivano varie corde, lunghe e in cuoio scuro, che già di per sé, avrebbero fatto male anche alla pelle più dura e callosa. Ma a terminare l’arma perfetta, alla cima di ogni singola corda, dieci con l’esattezza, stavano piccole palline in puro titanio, che avevano il compito di lasciare dei bei segni sulla carne viva della sfortunata vittima.
Quante persone aveva portato a soffrire fino alla morte quell’arma e in quante altre occasioni lo avrebbe ancora aiutato.
Perché per lui non era solo un’arma, ma una fidata amica che non l’avrebbe mai tradito o deluso.
Con un’amorevole carezza sfiorò il rigido manico.
 
-Toglietegli il bavaglio- ordinò secco, mentre buttava a terra il cappotto e scrollando appena spalle e braccia.
La voce gelida e distaccata, ma allo stesso tempo severa, era sempre efficace in situazioni come quella.
 
I sudditi presenti obbedirono immediatamente: i due uomini sugli attenti accanto al prigioniero, rimediarono a togliere la grossa pezza sporca che obbligava al silenzio l’uomo, che appena fu libero, iniziò a supplicare piangendo e continuandosi ad agitare sulla sedia piantata nel pavimento.
“Tutti uguali” si disse Victor, innervosendosi.
-Silenzio!- impose, prendendo dalla cintura l’amata arma che aveva accuratamente portato con sé per l’occasione.
L’uomo, intimorito, ubbidì istantaneamente continuando a piangere silenziosamente.
Victor si voltò lentamente e notando le scintillanti gocce che rigavano il viso ruvido dell’uomo, non riuscì più a trattenersi:
-Sei una donna!- iniziò a gridargli, avvicinandosi sempre di più al suo viso.
-Lo eri quando hai scelto di tradire il tuo supremo padrone e lo sei ora che devi affrontare la tua punizione! Vergognati! Lurido vigliacco!-
Conclusa la frase, fece schioccare la frusta per terra e gli sputò in faccia con tutta la rabbia che continuava a trattenere.
Il corpo allo sforzo di non fargli immediatamente del male, tremava sotto la tensione dei muscoli tesi, che volevano attaccare immediatamente.
-Cane - aggiunse, pendendo un pugnale nascosto nello stivale destro, e avvicinandolo al collo.
Con uno sguardo ordino ai sudditi sugli attenti ai lati del prigioniero di allontanarsi, mentre la lama, argentea e affilata, brillò sotto la luce dei neon che illuminavano la stanza, soprattutto quando la punta appuntita si appoggiò sul collo roseo della vittima.
 
Victor, costringendolo con l’altra mano a tenere il viso alzato, era rimasto per un attimo incantato da quel luccichio.
Amava le armi, forse più di qualunque altra cosa al mondo, oltre al potere ovviamente.
 
Ma la sua attenzione fu attirata da l’ennesima pietosa supplica:
-Ti prego, non farmi del male. Ti prego.-
La voce dell’uomo era un sussurro, accompagnato pietosamente da gemiti di paura e gocce di rugiada che fuoriuscivano lente dagli occhi che teneva chiusi, nell’attesa di un dolore atroce o della visione del paradiso.
Ogni parola che emetteva provocava dei leggeri movimenti del pomo d’Adamo, mettendo a rischio la sua pelle. O la sua vita.
- Non credere che te la passerai con una semplice pugnalata al cuore- disse in tutta risposta Victor, abbassando di colpo la lama.
 
Un sospiro tirò l’uomo dopo essersi accorto che non era arrivato alcun dolore.
Aveva avvertito solo un brivido di freddo.
Trovando il coraggio di aprire gli occhi si accorse che l’unica cosa che era cambiata, era la sua maglietta tagliata perfettamente a metà, che penzolava nei suoi polsi, trattenuta dagli stessi bracciali e dalle stesse corde che lo bloccavano alla sedia.
 
Victor riposò il pugnale nello stivale da cui lo aveva preso, e si avviò verso la brace, che scoppiettava allegra.
Mentre con cura prendeva i ferri, iniziò a chiacchierare con il “giocattolo” di quella sera.
- Sai come si chiama questa stanza Denny?- chiese, non curante, al prigioniero, mentre con uno strofinaccio sporco puliva la cima dei ferri, quella che in seguito gli sarebbe servita.
-S-si – disse un po’ balbettante l’uomo legato alla sedia.
Continuava ad agitare le braccia nel tentativo di rompere o allargare le corde che gli segavano strette i polsi, ma senza alcun successo.
- E come si chiama?- chiese con voce suadente, alzando appena lo sguardo.
La pezza che gli avevano porto i sudditi, già lurida di suo, continuava ad annerirsi, raccogliendo la fuliggine presente sul ferro.
- L-la stanza dei m-marchi- disse ancora l’uomo, insicuro.
La voce rotta dalla fatica dei muscoli che impiegavano tutte le loro energie nel tentativo di liberarsi.
-E sai anche il perché viene chiamata così?-
La voce, ancora più sdolcinata di prima, metteva paura, perché è risaputo che il cobra, prima di attaccare, sibila dolcemente.
 
L’uomo azzardò a guardarlo negli occhi, sperando che si fossero addolciti, magari prendendo l’ipotesi del perdono.
Fu l’errore più grosso della sua vita: un freddo sguardo perforò il suo congelandolo.
- Te lo dico io- disse Victor, non avendo ricevuto una risposta.
Posò il ferro dentro la brace lasciando fuori solo il manico in legno, gettò la pezza per terra, agguantò la frusta e iniziò a passeggiare in torno a lui accarezzandola.
- All’inizio, il nostro supremo padrone, non aveva nemici. Era UNICO e SOLO, ONNIPOTENTE su tutta la terra e tutti, ogni singolo uomo o donna che sia, bambino o adulto, lo adorava, amava e venerava con tutto se stesso-
I cerchi che compiva intorno alla sedia erano laghi, vaghi, lenti e indecisi; mentre l’uomo continuò a tenere lo sguardo abbassato sulle ginocchia, ormai fermo, immobile, rassegnatosi alla fine che il perfido Victor aveva programmato per lui.
- E, il nostro eterno padrone, non aveva bisogno di prigioni e celle come queste. Quelli si che erano bei tempi.- continuò non curante, come se si ritrovasse a raccontare una favola.
- Ma purtroppo, arriva sempre qualcuno che deve rovinare le cose. Così, degli ignoranti incompetenti, che non comprendevano l’estrema grazia e il bene che compiva il supremo su queste terre che rese meravigliose, decisero di fondare quell’inutile e patetica organizzazione-
La voce andava sempre di più indurendosi mentre continuava il discorso.
I cerchi diventavano sempre più stretti in torno alla sedia.
- Fatto sta, che divennero dei nemici. Dei fastidiosi ed insignificanti nemici. Ma il nostro padrone doveva pur distinguere chi era con lui o contro di lui, così, per riconoscerli, almeno quelli che già erano passati per mano sua, gli venne una brillante idea. Sai quale?-
 
Ora era proprio alle sue spalle. Una fredda e tesa mano si poggiò sulla sua stanca spalla, mentre Victor si avvicinava avidamente all’orecchio dell’uomo:
- Quelli di marchiarli a fuoco sulla pelle viva, come animali. Perché dopotutto, è quello che sono. Anzi, neanche un animale è così privo d’intelligenza da mettersi contro il padrone.-
 
Un brivido di ferro percorse la sua schiena all’udire quelle parole; ed era impossibile non immaginare il seguito e la fine di quella giornata.
 
Con una risata, tolse la gelida mano dalle spalle curve e striminzite del suo prigioniero e lentamente si avvicinò al ferro, ancora riposto all’interno della brace.
Lo sollevò, curandosi di prenderlo dal manico in legno, e vide che la cima che aveva immerso nella brace poco prima era incandescente.
Il ferro era diventato rovente, di un colore rosso acceso e fumava sotto al calore a cui era stato sottoposto.
Un sorriso malvagio affiorò spontaneo sulle labbra sottili di Victor, che rivolse uno sguardo furtivo all’uomo legato sulla sedia.
“Ora iniziamo a giocare”.
 
-Ti prego!- riprese a supplicare l’uomo alla visione del ferro rovente.- Ho una moglie e due figli! Ti scongiuro! Non farmi del male! Ho imparato la lezione! Ho capito di aver sbagliato!-
-Taci!- gli urlò contro con foga. - Ormai è troppo tardi per rimediare. E lo sai che il supremo non perdona. Hai scelto tu di diventare un suo nemico, e ora devi affrontare ciò che ti aspetta!!!-
-Ma- era pronto a ribattere l’uomo ma fu interrotto.
-Imbavagliatelo!- disse Victor, secco e glaciale allo stesso tempo.
I servitori in un attimo sistemarono il bavaglio, tolto poco prima, per obbligare nuovamente al silenzio l’uomo.
Appena finirono, afferrarono le spalle curve e le braccia dell’uomo per immobilizzarlo al meglio, mentre Victor, con fare minaccioso si avvicinava sempre di più con passi lenti e decisi.
Appena fu abbastanza vicino, sussurrò:- Ora sentirai bruciare un pochino-.
E tra gemiti soffocati, Victor premette, con tutta la forza che il suo corpo possedeva, la cima rovente sulla pelle chiara e nuda dell’uomo che doveva punire.
Al dolore, il prigioniero, tentò di contorcersi, ma non solo era trattenuto dai sudditi che gli stavano accanto, ma il ferro bloccava il suo petto tra esso e lo schienale freddo della sedia su cui era legato.
I gemiti si acuirono e le lacrime scivolavano più velocemente sul volto, per poi essere assorbite dallo strofinaccio che lo zittiva.
Era tremendo il dolore che lo attanagliava.
Il bruciore era così intenso, paragonabile solamente a milioni di aghi che gli bucavano il petto penetrando tutti contemporaneamente.
I polmoni, sotto la sofferenza, espiravano ed ispiravano velocemente e con molta fatica, sperando che il ferro incandescente si allontanasse il più velocemente possibile da quella che era la sua pelle. 
Il continuo agitarsi nel disperato tentativo di liberarsi o almeno sottrarsi al dolore causò un’improvvisa sudorazione fredda.
Gli sembrò un’eternità quella che passò sotto il ferro rovente che lo ustionava dolorosamente, ma furono solamente pochi minuti. Lunghissimi, ma pochi minuti.
Quando Victor ne ebbe abbastanza, tolse il ferro rovente dal petto del suo prigioniero e lo buttò per terra, vicino alla pentola, dove la brace continuava a scoppiettare.
Sulla carne viva, fino a poco prima così chiara e intatta, era apparso, formato dalla pelle ustionata, uno stemma grande quando il pugno di una mano.
Era un cerchio con, all’interno, un’elegante h maiuscola, decorata con motivi simili a quelli floreali.
H di Hojo ovviamente.
-Ti piace il tuo nuovissimo tatuaggio Danny?- chiese perfido Victor, sogghignando e sciogliendogli bavaglio.
Si sentivano, dall’alto, le risate del Padrone, divertito dallo spettacolo entusiasmante a cui assisteva.
 
L’uomo non riusciva a parlare.
Ispirava ed espirava velocemente, senza riempire a pieno i polmoni, indolenziti dall’ustione.
Dopo qualche minuto, dove stranamente Victor pazientò aspettando una sua risposta, riuscì ad emettere qualche gemito e a smettere di piangere.
Poi sussurrò con il minimo coraggio e le poche forze rimaste:
- Un mostro ecco quello che sei. Tu e quello che chiami Padrone siete solo questo! DEI MOSTRI! HA FATTO BENE IL MIO COMPAGNO SOPRAVVISSUTO AD UNIRSI AI RIBELLI! ALMENO PUO’ AIUTARLI A MANDARE A PUTTANE TUTTO QUELLO CHE VOI AVETE COSTRUITO!-
Victor lo fissò per un attimo.
Le sue parole erano dure e franche, gli rimasero impresse a fuoco in mente.
- Hai finito?- chiese poi, freddo ed inespressivo.
- Si- sussurrò l’uomo, ora piegatosi di lato senza forze, mantenendo uno sguardo coraggioso e di sfida contro Victor.
- Bene, perché io ho appena iniziato-.
 
 
Gli era sempre riuscito facile torturare un uomo fino a farlo impazzire così riuscendo ad ottenere le informazioni di cui aveva bisogno.
Ma questa volta era stato diverso.
Questa volta non aveva torturato quell’uomo solo per lo scopo di ottenere quelle informazioni.
Affatto.
Questa volta lo aveva fatto con così tanta foga, rabbia e passione … Si fece paura da solo.
 
A terra, coricato in pancia in giù, che tentava ad alzarsi aggrappandosi alla sedia di freddo ferro, piantata nel pavimento al centro della stanza, stava l’uomo senza forze che ferito, tremante e terrorizzato, provava a raccogliere le gambe mettendosi in una posizione fetale.
Piangeva per ogni movimento che compiva.
Era quasi nudo, se non per qualche straccio rimasto dai vestiti indossati in precedenza, che poi furono strappati dalla furia delle frustate, delle mazzate, e dalla violenza generale che aveva subito durante quelle tremende ore.
Victor osservandolo, forse un po’ schifato, non dei suoi gesti, ma dell’immagine che si ritrovava di fronte, non riuscì a far a meno di paragonare quell’uomo, all’embrione che nasce e cresce dentro il grembo di una donna.
“ Cenere siamo e cenere ritorneremo” pensò.
 
Voltando le spalle al raccapricciante spettacolo, cercò con lo sguardo il Signore e Padrone.
 
Hojo, teneva un espressione compiaciuta e divertita, e all’incrocio con lo sguardo del servo preferito, poggiò completamente allo schienale battendo le mani, con lenta teatralità.
Poi ordinò:- Lo voglio per cena!- si alzò e sparì nella porta alle sue spalle.

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