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Autore: The DogAndWolf    01/02/2012    7 recensioni
«Non sei un numero.»
Un'affermazione normalmente ovvia.
Forse a Mauthausen nel 1944 non era poi così ovvia.
Genere: Angst, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Olocausto
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Finalmente pubblico questa storia, non ci posso credere nemmeno io! ò____ò
Devo fare delle premesse abbastanza importanti.
Prima di tutto: questo racconto mi è venuto spontaneamente in mente quando, un paio di mesi fa, ho visitato il campo di concentramento di Mauthausen-Gusen in gita scolastica.
In secondo luogo volevo specificare che sono cosciente della forzatura che ho messo in questa storia: un'ariana non sarebbe mai stata sbattuta in questo modo a Mauthausen, lo so. Esigenze di trama, mi dispiace.
Questo racconto e i personaggi in esso sono stati completamente inventati da me, i nomi sono di mia fantasia e le persone in esso non sono mai esistite.
La traduzione del titolo è: "Non sei un numero".
*****



Mi vennero a prendere in una notte di inverno. Mi ricordo che era limpida e fresca, stranamente non troppo gelida e nemmeno ventosa.
Ero con Irina. La bella e perfetta Irina. Rammento ogni singolo particolare di lei, anche se ho e hanno fatto di tutto per farmela scordare. Il suo giovane corpo scattante e ambrato sotto il mio, sudato, formoso ed esperto. Il suo seno quasi infantile, appena accennato, che tradiva tutta la sua adolescenza. La sua adorabile pudicizia che era scomparsa pian piano, andando avanti con il tempo, ma singolarmente sempre presente in ogni suo gesto, compreso il più sensuale. Era ancora una ragazzina, io lo sapevo. Lo sapevo quando l’avevo fatta chiamare nella mia stanza la prima volta, strappandola dalla servitù comune, facendola diventare mia. Lo sapevo quando le avevo ordinato di spogliarsi davanti a me, in tono freddo. Lo sapevo quando avevo colto quel fremito di desiderio nel suo sguardo misto a paura e confusione. Conoscevo quello sguardo, anni prima era stato il mio. Ma quella era ormai un’altra vita. Mi accorsi pienamente di come fosse ancora una ragazzina quando la feci mia per la prima volta. Era così fragile e spaventata.
Le insegnai tutto sull’amore, sul piacere e sul sesso. Tutto quello che doveva imparare. La educai alla perfezione a quella sottile e passionale arte per due anni.
Era diventata una maestra, nonostante i suoi diciassette anni scarsi si muoveva divinamente. Sapeva dove toccare, quando accelerare, come farsi desiderare. Era perfetta.
Ci incontravamo nella camera degli ospiti ogni volta che potevamo, ogni volta che mio marito era lontano da casa. Era la mia unica ragione di vita. Amarla per poche sere a settimana era la mia unica ragione di vita. E sono quasi del tutto certa che fosse anche la sua unica ragione di vita.
Mi ricordo che quella notte era limpida e fresca, stranamente non troppo gelida e nemmeno ventosa.
Irina era sopra di me, le labbra carnose sulla mia femminilità, e, come sempre, ogni sua mossa era dedita al mio piacere. Eravamo completamente nude, buttate disordinatamente sulle coperte che non avevamo nemmeno avuto il tempo di abbassare. Sudate, ansanti, eravamo in una simbiosi di pura estasi. Era una notte come le altre, anche se non troppo gelida.
La mia mano stretta intorno al lenzuolo candido, per cercare vanamente di frenare i gemiti e gli scatti improvvisi provocati dall’illogicità del sesso. La testa riversa sul copriletto, gli occhi chiusi nell’attesa dell’ormai prossimo piacere estremo. Un verso più sonoro degli altri, ondate pulsanti e sconvolgenti. Forse trattenni il fiato durante quei ciechi miseri istanti. Sono ancora convinta che successe tutto per quei maledetti istanti. Fu per colpa di quel momento se la mia vita si sgretolò in un unico debole soffio di vento.
Quando riaprii gli occhi, felicemente ansante e sfinita, una figura si stagliò nella penombra della stanza. Un uomo che in alcun modo avrebbe dovuto trovarsi lì in quei secondi. Mio marito, con un’espressione indecifrabile. Impettito, nella sua ordinata uniforme delle SS, la mandibola contratta dal disgusto per il mio tradimento. Dal disgusto che provava per me.
Non riuscii a parlare, fu Irina la prima a urlare di terrore, cercando di coprirsi. Io rimasi come l’orgasmo mi aveva lasciata: nuda, sudata e sconvolta, abbandonata sul letto. Troppo impaurita per muovermi, troppo contraddetta per parlare.
Altri due uomini, altre due SS come l’uomo appoggiato alla porta della camera da letto, entrarono e trascinarono Irina a terra. Continuava a gridare disperata. Fissai mio marito mentre mi afferrava brutalmente i capelli, buttandomi sul freddo pavimento della stanza con nient’altro addosso che un velo di sudore. Rabbrividii. Aveva perso la sua solita calma glaciale, aveva perso la sua solita compostezza da soldato scelto. Mi vomitava addosso parole d’odio miste a sputo, mi schiaffeggiò per la prima volta in vita sua, fuori di sé. Lui e Irina continuavano ad urlare e io stavo sempre in silenzio.
Lei piangeva, implorava, mi chiamava. Lei mi amava.
Lui sbraitava, accusava, mi picchiava. Lui mi amava.
Non avevo mai realmente amato nessuno dei due. Almeno non quanto loro. Il mio affetto era diverso per entrambi, nessuno dei due si sarebbe accontentato.
Ma non importava più. Non importava più niente.
Le urla continuarono finché mio marito non estrasse la pistola e non fece fuoco. Finalmente il silenzio reale rispecchiava il mio personale e interiore. Proprio quando non serviva più. Troppo tardi.
Osservai il nudo e puerile corpo ambrato immobile, per terra. Le piastrelle sotto di lei si tinsero velocemente di rosso. Non pensavo che una persona così piccola potesse contenere tutto quel sangue. Non era più perfetta, non era più solo una ragazzina. Non era più niente.
Riuscii a strappare il lenzuolo dal letto per stringermelo attorno al corpo completamente nudo, cercando di proteggermi dal freddo non eccessivamente rigido di quella notte. Il bianco appena sverginato brutalmente dal rosso cupo si sporcò di terra quando mi trascinarono nel buio.
Mi spinsero, crollai a terra, non mi rialzarono a suon di calci solo perché ero una nobile di pura stirpe ariana. Anche se in quel momento, sfatta, disperata, denudata, ero molto più simile a una puttana semita di quanto il mio orgoglio smisurato potesse mai permettermi in quella vita.
Un altro schiaffo spezzò il mio basso e inconsapevole lamento. Mio marito mi sovrastava con cipiglio terribile, non gli avevo mai visto un’espressione del genere in volto. Ero così spaventata che non osai nemmeno sputare a terra il rosso sapore ferreo che avevo in bocca. Inghiottii e trattenni il disgusto che mi scivolava in gola, le lacrime congelate nell’orrore.
Una quiete tesa scese sulla notte. Dopo tutte le urla e il boato della pistola mi sembrò quasi surreale.
Gli altri due ufficiali delle SS, sconosciuti o forse semplicemente non riconosciuti per colpa dell’oscurità, distolsero lo sguardo, il capo basso come per non aggravare la situazione. Avevo infangato il mio cognome, il pomposo cognome di mio marito. Anche se quell’uomo che continuava a fissarmi, gelidamente sconvolto e sconfitto, non aveva più nulla a che fare con mio marito. La sua espressione continuava a ricordarmi che avrei dovuto condividere con lui la mia vita. Tutta la mia vita. Avrei sinceramente voluto dedicargli tutto il mio tempo, ma lui non poteva saperlo. Volevo spiegarglielo: non potevo amarlo, non era colpa mia.
Per la prima volta in vita mia abbassai lo sguardo pieno di lacrime di vergogna. Si meritava il mio amore più di qualsiasi giovane sguattera di bell’aspetto. Si meritava di guardarmi con odio. Avrebbe dovuto spararmi come aveva fatto con Irina. Me lo meritavo. Sicuramente più di lei.
Gli ero grata di avermi accolto nella sua vita, di avermi amata come mai nemmeno io stessa avrei saputo e potuto fare. Ma cosa me ne potevo fare della mia gratitudine bastarda se non mi era mai stato possibile confonderla con amore?
Lo vidi mentre si voltava verso i suoi sottoufficiali, senza più avere il coraggio di guardarmi negli occhi. Parlottavano a bassa voce, nel mio stato di shock capii poche parole confuse. Ma bastarono.
 
Mauthausen.

La prima volta che sentii questo nome non poteva avere lo stesso significato di allora. Ero una bambina e quella parola era pronunciata quasi con altezzoso disprezzo dalla sottoscritta. Era troppo anonimo e troppo in periferia per essere interessante. Mi aveva sempre dato l’idea di un posto squallido, popolato da nient’altro che zotici campagnoli semiti istruiti quanto capre.
Ero superiore a loro, l’avevo sempre saputo, me l’avevano sempre ripetuto. Io ero destinata a qualcosa di più importante, di più grande. Li odiavo semplicemente per non essere nati nella famiglia giusta e sapevo quanto questo pensiero fosse corretto.
Ingenuamente mi arrabbiai quando mio marito, Herr Eisler, mi disse che avrebbe supervisionato non sapevo quale operazione in quel paese sconosciuto. Chiesi spiegazioni, insistetti, urlai il mio sdegno finché non mi raccontò tutto.
Mi calmai alla sua risposta, piacevolmente sorpresa dall’efficienza ariana nell’aver finalmente trasformato un posto inutile come quello in qualcosa di utile. Era quasi ironico che quell’insipida cittadina diventasse famosa in quel modo. Successivamente colsi appieno l’ironia: sarei morta in quel luogo che avevo tanto disprezzato.
 
Mi gettai a terra, perdendo l’ultima briciola di dignità. Io ero di pura razza ariana, non potevano mandarmi là con uno schifoso triangolo nero cucito addosso in mezzo a migliaia di bastardi semiti, puttane e stupratori. Non poteva farlo. Non mio marito. Non l’avrebbe permesso, sarebbe rinsavito. Avrei preferito morire, glielo gridai contro. Doveva puntarmi la pistola alla testa e premere il grilletto. Il mio onore si sarebbe salvato, avrebbe ripulito il suo cognome uccidendomi subito.
Non lo fece. Non mi guardò nemmeno. Mi gettò in uno scatto di disgusto dei miei vestiti presi da chissà dove e mi voltò le larghe spalle. Non l’avrei mai più rivisto.
 
Entrai nel campo nel novembre del 1944. Il giorno seguente decisi che mi sarei suicidata lanciandomi sulle reti elettrificate del campo. Qualcosa mi trattenne sempre dal farlo.
Essendo una prominente ariana capii subito che sarei stata trattata decisamente meglio di tutti gli altri prigionieri. Facevo la stessa vita delle prostitute del campo, sebbene fossi esonerata dai loro compiti notturni. Il ché significava doppia razione di minestra e le mansioni più leggere.
Tutte sembravano conoscere la mia storia, nessuno osava avvicinarsi: io ero l’ariana lesbica antisemita. Io odiavo la loro esistenza, loro mi odiavano per i miei privilegi.
Solo una donna si sedeva sempre accanto a me, fissandomi con il suo trasparente sguardo gentile. Era giovane, non avrà avuto più di ventitré anni, estremamente pallida, la sua figura aveva un qualcosa di etereo. Era una prostituta polacca arrivata un paio di mesi prima da Auschwitz con il primo gruppo di donne destinate alla nuova divisione femminile di Mauthausen. Se ne stava sempre in silenzio, guardandomi con attenzione con i suoi occhi di uno strano grigio slavato.
La sua presenza, stranamente, non mi esasperava mai. Me la ritrovavo sempre appresso, taciturna e amichevole. Tanto che, dopo un po’, provai a dialogare con lei. Le domandai curiosamente notizie della sua vita precedente, il suo nome, cosa ci facesse lì e le raccontai tutto su di me, compresa quella notte maledetta. Le spiegai come non amassi Irina. Le chiarii perché non avrei mai potuto amare mio marito.
Non ricevetti altro che sorrisi sempre più incoraggianti, ma quieti. Non aveva capito una singola parola di quello che le avevo detto.
Allora pronunciai il mio nome, nient’altro.
«Laura Eisler».
Mi rispose immediatamente, comprendendo.
«Krystyna Borkowska».
Per la prima volta sorrisi in quell’inferno.
 
Un giorno la Aufseherin del mio Block mi chiamò nel suo ufficio. Sperai per un flebile istante che mi dicesse che tutto quello non era altro che un orribile errore, che non ero destinata a morire come una qualunque sporca ebrea. Ero ariana, grazie al mio sangue non sarei finita ammassata su decine di altri scheletrici mussulmani del Block 20.
Seguii la protetta dell’Aufseherin, alimentando la mia vuota illusione.
Ero libera. Mio marito era venuto a prendermi. Aveva finalmente capito che quella punizione era troppo inumana per chiunque non si fosse macchiato del crimine dell’ebraismo. Soprattutto era troppo inumana per me, sua moglie. Nonostante tutto sua moglie.
Sarebbe tornato tutto com’era. L’avrei amato, ci avrei provato con tutta me stessa. Non sarebbe bastato, ma lui sarebbe stato contento. Lui non aveva mai conosciuto il vero amore, non poteva accorgersi della differenza. Per lui non esisteva alcuna differenza, per lui l’amore puro e incondizionato era quello che gli avevo sempre dimostrato. Crederlo sarebbe stato facile per tutti.
Non per Irina.
Persa com’ero nei miei pensieri, non mi accorsi della particolare espressione della protetta dell’Aufseherin. Non notai subito il suo eccessivo odio, il disgusto nei suoi occhi avrebbe dovuto avvertirmi. Smarrita nella mia illusione non feci caso a quell’ira così fuori luogo.
«Avanti».
Aveva una voce profonda ma sgradevole e monotona. Le arrivavo al naso, aveva spalle larghe e robuste. Mi aspettava in piedi, con un sorriso di glassa nauseabonda ed appiccicaticcia in volto.
Cercavo ancora stoltamente mio marito con lo sguardo quando chiusero la porta dietro di me. Ero tornata la nobile ed altezzosa ariana di un tempo. Non portavo più quel triangolo nero cucito addosso, come se fosse un marchio direttamente sulla mia pelle. Non ero un numero. Ero bella e fiera, ero nuovamente Laura Eisler.
La Aufseherin si presentò: si chiamava Isle Rinkel e mi diede il “benvenuto” nel campo. A quella parola feci un verso sarcastico. Volevo mio marito, lo volevo in quell’istante. Non mi importava chi fosse, non mi importava delle sue scuse. Volevo solo tornare a casa.
«Ho detto qualcosa di divertente?» si informò, avvicinandosi a passi lenti, impassibile. Qualcosa nella sua voce o nel suo modo di muoversi mi mise in guardia e tacqui per un pelo le mie domande su dove si trovasse esattamente mio marito e quando sarei uscita da quell’incubo. Qualcosa mi disse che la risposta non mi sarebbe piaciuta. Insistette, venendo sempre più vicina: «L’ho forse offesa, Frau Eisler?».
Scossi la testa e, finalmente, tutte le mie speranze crollarono lasciandosi dietro nient’altro che vuoto. Non sarebbe arrivato. Non l’avrei mai più rivisto. «Posso sapere perché sono stata convocata qui, Frau Aufseherin Rinkel?» deglutii a fatica, mantenendo un tono di voce fermo nonostante la gola secca, fissandola negli occhi.
Mi sorrise di nuovo leziosamente, sempre più vicina, sfiorando il famigerato triangolo nero sul mio seno sinistro, mormorando: «Le voci circolano in fretta. Soprattutto in un campo. Soprattutto su una puttana come te. Perdere tutto in un modo così stupido…». Fissò il simbolo che mi marchiava, sospirando con superiorità.
Inghiottii il fastidio che mi era sorto in petto, la prudenza riuscì non so come a prevalere sul mio orgoglio. Con esso inghiottii le parole che volevo dirle, le accuse che volevo muoverle, le domande che volevo farle. Lei non si poteva osare, ero un’ariana di sangue nobile. Non ero un numero.
La mia ira mi permise di non indietreggiare quando il suo volto si fece sempre più vicino, pericolosamente vicino. Sentivo il suo fiato caldo sulla faccia, fetido, potevo distinguere ogni singola ciglia, quasi percepire il suo sudore sulla fronte e sulla pelle su di me.
Deglutii nuovamente, sopprimendo il tremito istintivo che mi scosse il corpo. Fissai il ghigno che si allargò sulle sue labbra quando mi soffiò: «Penso proprio di aver ferito il suo orgoglio, Frau Eisler…». Senza preavviso mi trovai brutalmente schiacciata tra il suo corpo e la scrivania, le sue dita mi stringevano i capelli, la sua lingua sulla mia. Bloccai sul nascere un conato di disgusto che minacciava di salirmi in gola da un momento all’altro per colpa del dolciastro nauseabondo in cui mi parve di affogare per un momento. Appena la sua mano raggiunse il mio seno, infilandosi sotto la casacca logora e anonima qualcosa scattò in me e, premendo entrambi i palmi sul suo petto formoso, la spinsi via istantaneamente, orripilata.
Trattenne il fiato per un secondo, sorpresa dalla mia reazione, per poi colpirmi violentemente in volto con qualcosa di freddo e pesante. Mi sfiorai subito la pelle, scoprendo del caldo sangue sotto il mio naso. Identificai l’oggetto che aveva in mano solo quando vidi, attraverso le lacrime che mi erano salite spontanee per la botta, la lucida canna della pistola che mi puntava addosso. I denti stretti e scoperti in un ringhio muto, negli occhi una rabbia folle, il tono di glassa che aveva usato poco prima era solo un lontano ricordo: «Lurida puttana!».
Senza sapere come, mi ritrovai spinta sulla sua scrivania, prona, un braccio girato dietro la schiena, la guancia sinistra a contatto con il legno pregiato. Mi concentrai su di un fermacarte a forma d’aquila, d’oro palesemente falso. Aveva una scheggiatura minuscola, quasi invisibile, sul lato che potevo vedere. La fissai, tentando di dimenticare di essere lì, vietandomi di piangere, non potendo mostrarmi debole. Mi convinsi di non sentire le sue mani sudate su tutto il corpo, non feci caso al suo fiato caldo e fetido sul collo, alle sue labbra sulla pelle nuda. Fissai la svastica dorata sotto la chiara scheggiatura, sorda alle parole cariche d’odio che mi venivano sputate addosso, ignorando l’Aufseherin ansante che mi spogliava. Non esisteva altro che quell’inutile e pesante soprammobile nazista.
 
Mi rivestii sotto il suo sguardo compiaciuto da così tanta mansuetudine, prendendo i vestiti nuovi che mi porgeva senza riuscire ad incrociare gli occhi con i suoi azzurri. Non potevo pensare: avrebbe decretato la mia fine, sarei crollata ai suoi piedi senza più nessuna speranza. Dovevo mostrarmi glaciale, apatica, non dovevo farle notare nulla.
Fu facile: ero un numero. I numeri non hanno emozioni. I numeri non sono umani.
Blaterava di privilegi che avrei avuto nel campo al modesto prezzo intrattabile di essere sempre disponibile per lei, giorno e notte. Diventai così la sua protetta, mi spiegò. Diventai sua.
Non fiatai, eseguii gli ordini senza nemmeno annuire e la seguii fuori dalla porta.
Vidi un volto vagamente familiare, ma non ci feci molto caso: tutti si assomigliavano lì dentro. Eravamo tutti deformati dalla malnutrizione, dal lavoro e dal modo in cui la luce nei nostri occhi si offuscava fino a spegnersi gradualmente del tutto. In quel momento compresi: non c’era speranza, non ce n’era mai stata per noi. Noi omosessuali, noi puttane, noi asociali, noi prigionieri. Noi ebrei. Migliore di loro non lo ero mai stata, io ero loro. Eravamo numeri, cadaveri ambulanti identici gli uni dagli altri. Come potevo aver mai creduto diversamente?
«Aufseherin?».
Guardai la ragazza che mi aveva accompagnata dalla nazista accanto a me. Per un secondo pensai di vendicarmi di lei, poi mi ricordai che lei era me. Era stata la sua protetta prima di me. I miei orrori erano i suoi orrori, non potevo odiarla. Lo capì guardandomi negli occhi, non poteva odiarmi.
Rinkel le ghignò selvaggiamente e il terrore della giovane donna fu il mio per i pochi istanti che le rimanevano da vivere. Non era più utile, l’avevo sostituita involontariamente. Un numero per un altro.
Un semplice cenno della mano e un ordine fermo: un soldato delle SS la prese di peso, gli altri prigionieri si scansarono in fretta per non subire la stessa sorte mentre l’uomo la buttò a terra. Alcuni metri più in là due cani furono liberati dai loro guinzagli. Si avventarono sulla ragazza urlante, che tentò vanamente di proteggersi dalle loro fauci con le sue sottili braccia.
La sbranarono viva davanti ai miei occhi, tra le grasse risate degli ufficiali, brandello per brandello, finché una delle due bestie, forse impietosita dalle grida strazianti, non le addentò la giugulare. Distolsi lo sguardo spento solo quando crollò morta a terra, dissanguata in pochi secondi.
 
Mi trascinai nel dormitorio, era sera, la fine della giornata. Senza ragionare, le mie gambe mi portarono al letto di Krystyna. Era già coricata, sul punto di addormentarsi. La osservai per un attimo, perdendomi in quella visione. Sentendosi il mio sguardo muto addosso, aprì gli occhi e mi guardò, sorpresa. Immediatamente mi rivolse un caldo sorriso, facendomi spazio accanto a lei. Mi sdraiai automaticamente e iniziai a piangere contro il suo seno, sfinita. Singhiozzai, senza alcuna speranza: «Siamo solo dei numeri. Tutti noi siamo solamente dei numeri.».
Stringendomi a sé, mi accarezzò lentamente i capelli, consolandomi senza dire nulla. Non poteva aver capito il tedesco, ma percepì la disperazione nelle mie parole.
Fu l’ultimo pianto della mia vita. Le lacrime scorrevano a fiotti sulle mie guance, tutto il mio orgoglio ariano era dimenticato. Ero come lei. No, non come lei: ero come loro. Alzai il capo per fissarla negli occhi, il volto umido, illuminato da quella rivelazione. Forse c’era ancora speranza per lei, per il suo sorriso, per la sua bellezza, per la sua dolcezza. Ce ne doveva essere.
«Du bist kein Zahl».
La cosa migliore, la cosa più vera e semplice che io abbia mai detto ad anima viva. E lei non poteva capirla. Lo sconforto per quella constatazione non fece in tempo ad attecchire in me che Krystyna mi asciugò le lacrime con la stoffa della sua casacca, per poi sfiorarmi la bocca con le proprie labbra. Lentamente, delicatamente divenne un bacio vero e proprio. Innocente come nessun altro bacio che avessi mai ricevuto. Si scostò, passandomi le dita sulla guancia, sorridendo quasi radiosa.
Una scarica mi travolse. Subito non seppi cosa fosse: se adrenalina, lussuria o altro. Poi capii. Aveva compreso le mie parole, ne ero certa. Non so come avesse fatto, ma aveva compreso perfettamente me e il mio tedesco.
 
I giorni si susseguirono, eterni e monotoni. Sopravvissi solo grazie a lei. Ero nuovamente viva. Ero nuovamente un essere umano. Nonostante le urla agghiaccianti che provenivano dal Block 20, nonostante le frequenti chiamate della Aufseherin, nonostante le notti insonni dovute al pensiero costante e martellante di Krystyna costretta a concedersi a prigionieri e SS, vivevo. Solo grazie a lei. Sopravvivemmo ai mesi più duri, vedendo la primavera insieme. A volte osavo persino pensare che sarebbe veramente finita. Osavo credere in un futuro fuori da quell’inferno e mi chiedevo come sarebbe stato possibile vivere in un altro posto oltre quello. Ne sarei stata capace? Non ne potevo essere sicura.
Iniziai a notare segni di nervosismo da parte dei nazisti. Persino Rinkel dovette rinunciare a molti nostri incontri all’ultimo momento, senza spiegazione. Non che questo mi dispiacesse, certo, ma non poteva passare inosservato. Gli spari erano sempre più vicini.
La situazione precipitò velocemente finché un giorno, senza preavviso, fummo abbandonati a noi stessi: il lager era nel caos più totale. L’Aufseherin, come gli altri capi delle SS, era fuggita, lasciando il campo ai soldati. Tutto degenerò: prigionieri che tentavano di ribellarsi, uomini in divisa che uccidevano a caso e correvano ai forni crematori abbracciati a colonne di fogli svolazzanti e documenti. Urla, schiamazzi, cani che scappavano guaendo ai colpi di pistola.
Nel panico generale, cercai Krystyna con lo sguardo. Evitai i soldati, arrivando a lei, trascinandola con me. Eravamo finalmente libere: le SS non si sarebbero accorte di qualche prigioniero fuggito, sentivo che tutto il loro sistema stava crollando inesorabilmente. Ormai stavo correndo, stringendo la mano della ragazza. Superai una baracca, poi un’altra, voltai a destra per nascondermi da un gruppo di soldati che stavano radunando dei prigionieri davanti alle docce e…
«Dove state andando?».
Alzai lo sguardo sulla svastica in bella vista sulla divisa dell’uomo, odiandomi. L’avevo condotta tra le braccia dei nazisti, sarebbe morta per colpa mia. Il soldato mi bloccò il polso, evitando i colpi che sferrai alla cieca, tentando di distrarlo, mentre urlavo alla ragazza accanto a me: «Scappa. Corri, presto!». Lei non si mosse. Non so perché non si mosse.
Afferrò anche Krystyna. Feci di tutto per liberarla, ma lui era troppo forte. Ci trascinò verso il gruppo davanti alle docce, spingendoci e tirandoci violentemente. Altri nazisti ci abbaiarono ordini, ammassandoci tutti negli spogliatoi ed intimandoci di togliere i vestiti. Era la fine, sapevamo cosa sarebbe uscito dalle docce, sapevamo di dover morire soffocati come bestie.
Mi guardai attorno, eravamo una cinquantina di corpi scheletrici che osservavano le mura candide, spersi. Distolsi lo sguardo quando vidi due bambini completamente nudi giocare inconsapevolmente, persino ridere tra loro. Fissai Krystyna negli occhi, mentendole: «Andrà tutto bene». Anche lei aveva capito cosa stesse accadendo ma mi sorrise lo stesso, gentilmente triste.
Entrammo nelle docce, minacciati dai fucili tedeschi.
Il gas uscì appena chiusero la porta, provocando il panico generale. Ma non mi importava, eravamo strette l’una all’altra. Mi importava solo di lei e a lei di me. C’eravamo solo noi due, calme, a farci coraggio e a sostenerci con la nostra sola presenza. Non provai nemmeno a trattenere il fiato. La vista mi si appannò mentre scivolavamo contro la parete, accasciandoci a terra senza lasciarci.
«Ti amo» sussurrai, sapendo di non poter fare altro.
«Anche io ti amo». La sua voce. La sua voce era perfetta.
Le sorrisi, felice, baciandola sulle labbra per l’ultima volta. Quando mi ritrassi mi accorsi che aveva perso coscienza. Le rimasi accanto, accarezzandole i capelli, stringendola a me.
Improvvisamente si sentirono degli spari, delle urla e il gas smise di scendere dalle docce. Tutti quelli ancora svegli strisciarono verso le porte, chi piangendo, chi supplicando. Si aprirono di colpo, tra lo stupore e il sollievo collettivo. Ma era troppo tardi.
Degli uomini in uniforme così diversa da quella nazista mi trascinarono fuori, separandomi da lei. Non ebbi nemmeno più la forza di muovermi né di protestare né di cercarla. Era troppo tardi per noi.
Ringraziai che Krystyna fosse svenuta e che non dovesse sopportare l’agonia che dovetti fronteggiare io nell’aria aperta con molti altri, sotto gli sguardi orripilati degli americani. La sua ultima speranza non fu brutalmente frantumata come quella di decine e decine di altri numeri. Non la mia, la mia si era già spenta con lei. Dopo rantoli, tosse e violente convulsioni, finalmente, mi fu permesso di andare con l’unica persona che io abbia mai amato.
Era il 5 maggio 1945.
E noi non eravamo dei numeri.
   
 
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