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Autore: shotmedown    01/02/2012    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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Scrivo finché posso, dato che la mia pausa didattica dura esattamente tre giorni -.-'' Ah, cosa darei per un pizzico di SERENITA'. 
A proposito, chi è che va al concerto di Roma? 


~ Mi dico che forse in fondo, la vita è così: molta disperazione, ma anche
qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come
se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale,
una sospensione, un altrove in questo luogo... un sempre nel mai.
Si, proprio così, un sempre nel mai.

Muriel Barbery, L'eleganza del riccio


 









Mia madre non comprendeva, e mai lo avrebbe fatto; ma infondo, era così felice. Non potevo e non intendevo deluderla. L'acconciatrice prese a pettinarmi i capelli con una delicatezza tale da farmi quasi addormentare e la truccatrice cercò di starmi quanto più lontana possibile: almeno per quello, mia madre mi aveva concesso libertà di espressione. Ovviamente, per il giorno più importante della mia vita, non intendevo farmi dipingere il volto alla stregua di una geisha, o mi sarei sentita in imbarazzo tutto il tempo. Quando lo chignon fu pronto, mi alzai dallo sgabello e chiesi alla mia amica, nonché damigella d'onore, di aiutarmi ad indossare l'abito; azzurro. Era così anacronistico, favoloso nel senso proprio del termine, che non avevo avuto la forza di dirgli "no" il giorno in cui ero andata a sceglierlo. Il corpetto di seta con lievi arricciature di tulle e la gonna a trapezio della medesima stoffa mi fecero sentire come colei che in vita mia non ero mai stata: una principessa. 
"Ci vuole un tocco di me, sono troppo fiabesca." Commentai, chiedendo che mi si passasse la collana d'oro bianco che portavo da sette anni, donatami da mia nonna. Seppure non fosse cambiato granché, ai miei occhi non apparivo più un'altra persona. Mi attaccarono il velo e mi diedero il bouquet di gelsomini e fresie, raccomandandomi di non portarlo in modo troppo rozzo o si sarebbe rovinato, avendo i gelsomini uno stelo abbastanza breve. Li annusai e mi sentii pronta come non mai. Nulla avrebbe rovinato quel giorno. Nulla. Mio padre mi aspettava fuori alla porta e quando mi vide assunse la tipica espressione di un genitore per nulla pronto a cedere la propria figlia a un altro per il resto della vita.
I miei avevano insistito affinché mi sposassi in chiesa, nonostante le ripetute volte in cui li avevo supplicati di realizzare il mio sogno di maritarmi in un prato, sotto un gazebo di legno decorato con decine e decine di fiori. Iniziarono a suonare la marcia nuziale, e il lungo percorso che mi avrebbe portata da Benjamin era ricoperto di petali di rose bianche; notai, tra gli invitati, mia nonna, una delle persone più importanti della mia vita, la mia famiglia e quella del mio futuro marito, e Maggie. Le sorrisi, notando che si fosse accorta che l'avevo vista. Allungai una mano verso Ben, la cui espressione estasiata mi lasciò intendere che almeno quel giorno mi avrebbe amata sul serio. Nonostante le divergenze e i litigi il cui peso riuscivo effettivamente a sentirlo solo io, eravamo arrivati lì, più grazie a mia madre che grazie alla "forza dell'amore". Io, lo avrei detto per sempre, non ci credevo. Non ero convinta, per niente, che ci fosse qualcosa di più potente della razionalità, e che l'amore non fosse altro che un simbolo dell'affetto smisurato che due persone provavano l'una per l'altro. Il reverendo pronunciò allora il sermone che precedeva le nostre promesse nuziali, e il tanto atteso momento della verità arrivò.
"...Parli ora o taccia per sempre." Mai la mia sicurezza era stata tanto messa in ginocchio in ventitré anni di vita. Quando dal centro sala udii provenire un grido, stridetti i denti e anziché voltarmi verso la folla per guardare in faccia colui o colei che era contrario alla nostra unione, fulminai Ben con lo sguardo. Io sapevo. Ma non avrei mai e poi mai voluto che accadesse proprio lì, davanti a tutte quelle persone arrivate da altri Stati dell'America solo per vedermi incoronare il sogno di una vita di ogni ragazza. Perché, si, nonostante tutto, nonostante l'assurdità dei miei ideali tutt'altro che principeschi e per niente "rosa", a diciassette anni avevo iniziato a pensare e a sognare il giorno del mio matrimonio. Un sogno per nulla conforme alla massa, ma pur sempre un sogno. Margareth si avvicinò a Ben e in un istante che mi parve un'eternità, tirò il colletto della sua camicia in modo da avere il suo volto all'altezza di quello del ragazzo. Quello che era successo dopo, era storia ben nota.

Fu ciò a cui pensai nel momento in cui avevo chiesto a Pierre di non farsi mai più vedere. Fu ciò a cui pensai quando rimproverai me stessa di essere stata troppo debole per fuggire alla tentazione ed essere scesa così in basso.

Pierre p.o.v
Quella volta era finita sul serio. Com'era ovvio che fosse, iniziai a sentirmi uno schifoso bastardo solo dopo aver compiuto l'azione peggiore della mia vita, e in quel momento sentii di non poter far altro che bere per dimenticare. Ma non potevo. Dovevo preparare i bagagli e prendere qualcosa per addormentarmi, o non avrei avuto la forza di cantare l'indomani. Chiaramente, non potevo nascondere nulla a Lachelle, fintanto che oramai la mia scelta l'avevo fatta; da un pezzo, sì, ma solo ora avevo davvero deciso. Se solo ripensavo all'odore della sua pelle, alla morbidezza di quelle labbra che ero finalmente riuscito a stringere, e alla sua voce rotta che mi chiedeva di andarmene per non farmi mai più vivo, mi sentivo estasiato e distrutto, disintegrato. Ma pur pensando a tutto quello, non potevo non sorridere; per un breve, ma intenso momento lei era stata mia. Spensi il cellulare e iniziai a mettere in valigia quello che mi sarebbe tornato utile, quali vestiti, scarpe e spazzolino da denti. Lachelle si appoggiò allo stipite della porta, muovendo tra le dita quello che doveva essere il mio rasoio.
"O ti crescerà una barba così lunga che al tuo ritorno non ti riconoscerò." Sarebbe stato comunque così, ma per odio. Mi lasciai cadere sul letto e le strinsi i fianchi, avvicinandola a me. Poggiai il capo sul suo ventre e sussurrai: "Che pensi degli addii?"
"Che sono tristi. Ma cosa c'entrano?"
"Io tengo a te, Lachelle. Ma il problema è proprio questo."
"Pierre, mi stai spaventando." Disse, ridendo nervosamente.
"Non voglio fare troppi giri di parole, anche se ti meriteresti un discorso serio e ben fatto, ma..."
"Mi stai lasciando? Diavolo, Pierre, mi stai mollando dopo tutto questo tempo?!"
"Non ti sto mollando!" Rabbuiai, inveendole contro. Quando mi resi conto di aver alzato troppo la voce, cercai di calmarmi e tornare ad essere una persona almeno sopportabile. "Mi odio per tutto questo, e so che dipende solo ed esclusivamente da me. Ma sono tre anni che..."
"Stai con un'altra?" Scossi il capo.
"Sono di un'altra." Preferii usare, con lei, quel tipo di linguaggio. Samantha non era 'un'altra', benché oramai nel linguaggio convenzionale si usasse portar avanti quel tipo di lessico. Uscii di casa prima che lo facesse lei e mi diressi dall'unica persona che avrebbe potuto capirmi, in quel momento. David era in casa, ma dovetti attendere un po' prima di poter entrare. Guardò prima me e poi il bagaglio e l'altro borsone, e mi lasciò entrare.
Quel mattino raggiungemmo i ragazzi al tour bus, che non vedevo da tanto, troppo tempo. Mi era mancata quella casa ambulante e tutte le notti insonni passate a causa degli attacchi di sincerità di almeno uno dei componenti della band. O per le mie follie da ubriaco, ma poco importava. Erano dettagli. Caricammo le valige e iniziammo a mettere sotto sopra l'intero bus, per ricominciare da dove avevamo lasciato prima di prenderci una pausa. Pronto per affrontare un lungo ed estenuante viaggio, tolsi le scarpe e mi distesi su quello che eravamo soliti chiamare letto. Bentornata, vita su strada.

Samantha p.o.v
"Pronto?" 
"Montréal Gazette. Signorina Gordon?" 
"Sì, mi dica." Leah incrociò le dita e iniziò a pregare, mentre il mio cuore iniziava a perdere battiti.
"Riteniamo che il suo curriculum sia idoneo alle nostre aspettative. Saremmo onorati di averla tra noi." Non ricordavo precisamente quando avessi iniziato a saltellare, ma fatto stava che poco dopo ero senza fiato.
"E' una notizia grandiosa, mille grazie!"
"Ma le pare...Però ci sarebbe un piccolo problema." Con una mano feci segno a Leah di aspettare. "Il Boston Globe ha richiesto la sua collaborazione per un paio di articoli, la cui stesura potrà essere messa a punto solo in sede. Dovrà tornare a Boston qualche mese."
"A Boston? Io mi sono licenziata da quel posto, non dovrebbero più richiedere la mia presenza." Leah giunse le mani, avvicinandosi alla cornetta per sentire.
"Il contratto lo firma con noi, ma pubblica gli articoli sul loro giornale."
"Scusi, ma non è controproducente?" Domandai, cercando di trovare un modo per non tornare nell'Inferno.
"Non si direbbe. Anzi, più presto torna a farsi sentire, prima riprenderà quel successo che l'aveva colta durante la sua attività e alla Montréal Gazette farà un'ottima pubblicità." Alla fine, fui costretta ad accettare, o avrei potuto dimenticarmi della scrittura. Sarei dovuta partire entro un paio di giorni, così chiesi a Leah di uscire e andare a bere qualcosa nel locale in cui eravamo state il giorno dopo il nostro arrivo, per innaugurare la nostra nuova vita a Montréal. Infondo, nessuno avrebbe dovuto sapere che ero tornata in città e che ero tornata per restarci tre mesi. Cercai sull'elenco telefonico l'agenzia immobiliare a cui ero ricorsa quando io e Ben avevamo cercato insieme un appartamento dopo il nostro fidanzamento, e quando lo trovai, chiesi alla donna al di là della cornetta di trovarmi qualcosa di economico e vicino agli uffici del giornale. Doveva essere la stessa donna che ci aveva trovato casa, perché fu così veloce che neanche mi accorsi di essere rimasta in attesa. L'affitto era di cinquecento dollari, compresi luce e gas. Una camera da letto, un bagno, un piccolo salotto e una cucina. Perfetto. Quando Jack rientrò, lo spingemmo nuovamente fuori casa e ci dirigemmo al locale. Trovammo libero proprio il tavolo che avevamo occupato tre anni prima e ordinammo delle birre per brindare.
"Non dare la mia camera in affitto, o quando torno ti uccido."
"Potremmo venire con te, no?"
"Non pensarci nemmeno. Sono stanca di voi, ho bisogno di staccare un po'." Affermai, sarcastica. Strinsi forte la mia amica e poi abbracciai Jack. In tre anni, stare sempre con loro mi aveva portata ad esserne dipendente. Come avrei fatto a sopravvivere?
"E se...torna Pierre?" Chiese, improvvisamente. Ci pensai su, poi, voltandomi altrove, dissi: "Non tornerà." 
Passammo il resto della serata a ordinare cibo alquanto improbabile; lasciai che i miei due amici bevessero quanto bastasse per farli addormentare, poi li trascinai a forza fuori al locale. Li spinsi in auto, poi mi misi alla guida, per tornare in quella casa alla quale mi ero affezionata più del dovuto. Sono solo tre mesi, suvvia. 
L'indomani iniziai a fare i bagagli e ricontrollai più volte con la speranza di non aver dimenticato nulla di importante. Il giorno della partenza, tipicamente, Leah iniziò a piangere. Jack l'abbracciò, stringendola a sé e permettendomi di andare via. Feci il check-in, e mi imbarcai, pronta a tornare nella città dalla quale credevo di essermi separata per sempre. 

 






 

  
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