Eccomi qui, puntuale
come un orologio svizzero! :D Come avevo preannunciato sulla mia
pagina FB,
solo per voi un nuovo capitolo, uno degli ultimi. Ormai siamo agli
sgoccioli, non ci posso credere! Dopo tutto questo tempo in cui mi sono
fatta dannare, finalmente questa FF giungerà al termine.
Spero solo che qualcuno rimanga fino alla fine ;)
Bene, non mi resta che ringraziare coloro che leggeranno e colei che ha
recensito lo scorso capitolo, ___Unbroken - Grazie mille! :) -
ed augurarvi buona lettura! :3
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Capitolo 18
I
giorni si susseguirono in fretta uno dietro l’altro, ricchi
d’avvenimenti e di emozioni, tanto che passai la peggiore
settimana della mia vita. Almeno per quanto riguardava il sonno. Avevo
dormito per quattro giorni interi, dopo la “battaglia
finale” con la vecchia megera, e le preoccupazioni per quello
che mi aspettava al risveglio mi rendevano difficile addormentarmi.
Delle volte era capitato che mi svegliassi nel cuore della notte e
nemmeno il respiro né i battiti regolari del cuore di Nick,
stretto al mio fianco, riuscivano a tranquillizzarmi.
Così mi alzavo e, seduta all’isola della cucina,
con una tazza di thè caldo di fronte al viso, restavo a
riflettere e a scarabocchiare sui post-it, per esempio, le parole che
avrei potuto usare alla mia conferenza.
Era
la prima conferenza a cui partecipavo e mai, mai avrei pensato che
avrei vissuto quell’esperienza stando seduta ad un lungo
tavolo, con un microfono posizionato di fronte alla bocca e una marea
di giornalisti, cameraman e fotografi come spettatori.
Per fortuna a darmi un po’ di conforto, seduti ai miei
fianchi, c’erano Nick e Davide, mio fratello; accanto a lui,
inoltre, c’erano anche Fiore, che ne sapeva sicuramente
più di me e dava il suo contributo nelle spiegazioni
più dettagliate dei fenomeni, e Alessandro, che aveva
ottenuto quel posto di diritto perché era stata la mia prima
“cavia” per sperimentare l’efficacia
della mia teoria.
In più Alessandro, qualche giorno prima della conferenza, mi
aveva spiegato ciò che non era riuscito a dirmi quella volta
sulla spiaggia, scacciando definitivamente ogni mio dubbio sulla
fondatezza della mia teoria.
«Quando
abbiamo fatto l’esperimento, io non sono comparso al tuo
fianco ed entrambi, ovviamente, abbiamo creduto di aver fallito, ma in
realtà… ci eravamo solo separati durante il
teletrasporto. Ho il forte sospetto, anzi ne sono quasi sicuro, che
mentre ci teletrasportavamo io abbia pensato a casa mia, in Messico.
Desideravo davvero molto vedere un’ultima volta la mia
famiglia, assicurarmi che mia madre, mio nonno e le mie due sorelline
stessero bene, ed è proprio lì che mi sono
trovato, nel giardino di casa mia».
Dopo
quel racconto, capii che durante la fase di passaggio fra le due
dimensioni non era efficace solo la volontà di chi aveva il
dono, ma anche di chi veniva trasportato. Questa presa di coscienza
aveva risollevato in parte l’animo di mio fratello, il quale
si era sempre sentito colpevole di aver spedito in chissà
quale altra dimensione il signore anziano che lo aveva aiutato, e
inoltre aveva dato un grosso contributo alla gestione tecnica di quello
che sarebbe diventato, col tempo, un vero “aeroporto
dimensionale”.
Un
giornalista si alzò in piedi e prese la parola:
«Signorina, ci spieghi la sua idea più nei
dettagli».
Mi
schiarii la voce allontanandomi dal microfono ed annuii.
«Quello a cui ho pensato somiglia molto ad un aeroporto, solo
dimensionale. Prendiamo per esempio un ufficio, o comunque un luogo in
cui potrebbe essere possibile radunare tutte le persone che, secondo il
loro appuntamento, devono essere trasportate nell’altra
dimensione».
«Come
una specie di sala d’aspetto?», chiese
un’altra giornalista.
«Sì,
esatto!», esclamai. «Come dal medico, ognuno
aspetta il proprio turno e nel frattempo compila un modulo in cui si
richiedono i dati anagrafici e una piccola biografia, nulla di molto
approfondito. Questo servirà alle persone
nell’altra dimensione per prepararsi al loro arrivo ed
assicurarsi che tutto sia andato secondo i piani. Tutto qui. Ci ho
messo un po’ di tempo per capire che bastava solo questo, ma
alla fine ce l’ho fatta e spero che possa essere
d’aiuto a moltissime persone».
Da quando la notizia si era diffusa e ormai tutti ne parlavano, nelle
radio, nei TG e per strada, aveva scatenato un’eccitazione
generale, tanto che qualcuno stava già pensando di
accamparsi di fronte all’edificio che sarebbe poi diventata
la sede dell’aeroporto dimensionale per accaparrarsi i primi
posti.
Gli scettici di certo non mancarono, però la maggior parte
della popolazione reagì in maniera positiva, animati di
nuovo dalla speranza di poter tornare finalmente a casa.
Un’altra di quelle preoccupazioni che non mi permise di
dormire la notte fu il funerale di Charlotte, che avvenne qualche
giorno dopo la famosa conferenza. Anche in quella lunga notte insonne
mi ero ritrovata a scrivere sui post-it. Quella volta avevo
scarabocchiato poche parole che magari Charlotte, lassù da
qualche parte nel cielo, avrebbe ascoltato.
Nel
piccolo cimitero del paese, immerso nel verde, c’erano poche
persone. La mattinata era uggiosa e il vento freddo che spirava dal
mare mi faceva tremare, in piedi accanto a Nick, Joe, Kevin, Alessandra
e Davide, che non sarebbe mancato per nulla al mondo, visto che le
doveva la vita. Di fronte a noi si trovava la bara di Charlotte,
coronata da fiori colorati e rose rosse, che come le vidi mi fecero
ricordare il colore dei suoi capelli.
Le
sue due migliori amiche e compagne di vita, la cheerleader bionda e
quella mora, erano poco lontane da noi e per la prima volta le vidi
indossare dei vestiti normali, anche se a lutto.
Piansero
per tutta la durata della funzione, semplice ed essenziale, senza
fronzoli inutili. Piansero persino mentre dicevano qualche parola in
ricordo di Charlotte. E continuarono, inconsolabili, anche quando fu il
mio turno, per questo non seppi se le mie parole fossero state gradite
o meno.
«Charlotte…»,
incominciai a bassa voce, per poi rafforzarla man mano che parlavo e
scorrevo quei ridicoli post-it gialli che non avevo voluto lasciare a
casa. «Ricordo come fosse ieri la prima volta in cui la
incontrai, quando con le sue inseparabili amiche ha provato a
catturarmi. E per quanto io possa averla conosciuta, posso affermare
che credeva molto in tutto ciò che faceva, ci metteva il
cuore. Credo che abbia sempre messo il cuore in ogni cosa, anche quando
sapeva che avrebbe potuto rimetterci persino la vita. Si è
rivelata tardi ai miei occhi, era una persona davvero fantastica e
migliore di ciò che si poteva pensare e… non mi
dimenticherò mai di lei, mai, perché nonostante
il dolore ha provato a sorridere e questa è la
più grande lezione di vita che potesse mai donarmi. Dormi in
pace, Charlotte… te lo meriti».
Una
volta tornata alla villa dei Jonas, ero rimasta sotto tono per il resto
della giornata, lasciandomi andare più volte a quelle
lacrime che non ero riuscita a mostrare apertamente di fronte alla sua
bara, trovando ogni volta le braccia di Nick pronte ad accogliermi e a
consolarmi. In quegli istanti, stretta a lui, mi ero persino sentita in
colpa per essere lì con lui, quando al mio posto avrebbe
potuto esserci benissimo Charlotte, ma poi mi ero subito rimproverata
ripetendo dentro di me la promessa che le avevo fatto.
Due giorni dopo il funerale, nei quali ero riuscita a recuperare un
po’ di ore di sonno perduto, l’insonnia
tornò a colpire, ma quella volta per uno strano sogno dal
quale era nata una riflessione piuttosto profonda e a tratti
sorprendente, anche per me che in qualche modo le avevo dato il via
nella mia testa.
Avrei
voluto svegliare Nick per discuterne con lui, ma alla fine lasciai
perdere: era così bello quando dormiva, così
sereno, che mi dispiaceva fin troppo turbarlo.
Così feci come al solito, mi alzai e andai a farmi una tazza
di thè. Nel frattempo perfezionai la mia riflessione e mi
venne un’idea che al solo pensiero mi parve
un’assurdità, ma che, di pari passo con la
lancetta dei secondi che andava avanti sull’orologio, prese
forma e consistenza.
Finito
il thè andai a farmi una doccia e mi cambiai, scrissi un
bigliettino a Nick, lasciandolo sul cuscino accanto al suo, ed uscii di
casa insieme al sole che sorgeva nel cielo terso e roseo.
Decisi di camminare un po’ sugli scogli per sentire
l’aria fredda entrarmi nei vestiti e nei polmoni, poi presi
una scorciatoia per arrivare in paese, che, ancora addormentato, non
avevo mai sentito più silenzioso.
Raggiunsi
l’ospedale e avrei dovuto essere sorpresa di vedere Fiore a
quell’ora di mattina, ma per ovvie ragioni non lo ero. Lei
era una sorpresa continua, inutile stupirsi.
Era seduta su una sedia, di fronte alla camera di sua madre, e la
sensazione che provai vedendola non fu ottima: sembrava che le stesse
facendo da guardia, più che vegliare il suo sonno.
Provai ad immaginarmi una Fiore adolescente, sola al capezzale del
padre morente, e in parte capii quello che probabilmente stava provando
in quel momento.
Mi
avvicinai e le posai una mano sulla spalla. Lei sollevò il
capo e mi guardò negli occhi come se stesse scavando nella mia
anima, poi mi sorrise teneramente.
«Che
ci fai qui?».
Ebbi
come la sensazione che lo sapesse già, ma mi sedetti al suo
fianco e le raccontai l’idea che avevo partorito quella
notte. Mi ascoltò senza mai modificare quel sorriso tenero
che aveva sulle labbra e quando finii, mi passò una mano fra
i capelli.
«Per
me va bene. Credo che l’aiuterà molto».
«Okay,
allora… vieni con me?».
Fiore
si coprì la bocca in una risata silenziosa ed
annuì, seguendomi all’interno della camera di sua
madre.
Appena
la donna anziana mi vide, sobbalzò e il suo sguardo si fece
sospettoso. Lasciai correre e con calma mi sedetti accanto al suo
letto, fissando le varie coperte che la coprivano.
«Perché
sei qui, ragazzina?».
Sollevai
di scatto gli occhi ed incontrai le sue iridi grigiastre e prive di
vita. Mi chiesi se potesse vedermi, ma non ebbi tempo per appurarlo,
perché la mia lingua fu più veloce del mio
cervello a formulare la risposta: «Sono venuta a proporle una
cosa».
«Ossia?».
Mi
lasciai andare ad un breve sospiro e finalmente sputai fuori la
verità, quella che a Fiore non ero riuscita a dire e che
nemmeno io avevo del tutto accettato.
«La storia della sua vita mi ha colpita davvero e anche se la
razionalità mi diceva e tutt’ora mi sta dicendo di
non fare nulla per lei, il mio cuore è rattristato dai
motivi per cui lei è diventata quella che è ora e
so che ne risentirei, se non facessi qualcosa per lenire il suo dolore.
Quindi ho pensato che potrebbe scrivere la sua biografia, o qualcosa
del genere, in cui potrebbe descrivere tutte le dimensioni che ha
visitato, le esperienze che ha vissuto, per tutte le persone che
possiedono il dono. Sarebbe come una guida sulle diverse dimensioni e
tutta la sua preziosa conoscenza, i suoi studi, i suoi viaggi, non
andrebbero persi per sempre. Renderebbe un grande servizio a tutti
quelli… come noi», gettai uno sguardo a Fiore e la
vidi sorridere.
La
donna invece posò il capo sul cuscino e chiuse gli occhi,
come se ci stesse pensando. «Sono troppo debole e stanca,
neanche se volessi potrei…».
«A
questo ho già pensato: se lei non se la sente di scrivere
potremmo farlo io e Fiore; lei dovrebbe soltanto raccontare».
Allora
aprì di nuovo gli occhi e li fissò nei miei,
tanto che ne ebbi quasi soggezione. Guardando con attenzione,
però, vidi una lacrima sfuggire dall’angolo del
suo occhio destro e finire fra i suoi capelli candidi.
«Perché vuoi fare tutto questo per me? Io ho fatto
del male a tante persone innocenti, ho fatto del male anche a te e ai
tuoi amici, ho ucciso la tua amica…».
Pensai
a Charlotte e mi chiesi se da lassù mi stesse guardando con
aria di rimprovero oppure con un sorriso sulle labbra.
Alla fine sospirai e scrollai le spalle: «Portare rancore,
odiare, non serve a nulla, anzi fa male all’anima. E poi, se
devo dire tutta la verità, sono curiosa di sapere quali
altre dimensioni parallele esistono oltre a questa».
L’anziana
donna mi guardò con un sorrisino sulle labbra e mi
posò una mano sulla guancia, in una carezza che
probabilmente conteneva quell’unica parola che non sarebbe
mai riuscita a dirmi a voce: «Grazie».
«Oh»,
disse con voce ricca di entusiasmo, «credo che dovremmo
iniziare subito, se vuoi davvero che te le racconti tutte».
Con
la coda dell’occhio vidi Fiore che ridacchiava sommessamente
con una mano di fronte alla bocca, come se qualcosa nella mia
espressione la facesse divertire. Me l’avrebbe detto solo
qualche tempo dopo, quando finimmo di scrivere quei due volumi di
viaggi che sarebbero poi diventati i primi cimeli storici di quel
paesino e ormai l’anziana donna non c’era
più, che a quelle parole il mio viso aveva sprizzato gioia
da tutti i pori.
***
Tornai
a casa, alla villa dei Jonas, e la trovai silenziosa come
l’avevo lasciata. Di solito Nick era un tipo mattiniero e mi
stranii quando non lo vidi in cucina a prepararmi la sua colazione
speciale (succo d’arancia, tazza enorme di caffè
con un po’ di latte, toast con burro e marmellata, muffin ai
mirtilli o pancake con sciroppo d’acero) o seduto sul divano
a guardare il baseball alla TV e rimpiangendo il campionato degli
“unici ed inimitabili” NY Yankees.
A
proposito degli Yankees… Tempo prima mi aveva promesso che
appena saremmo tornati nell’altra dimensione mi avrebbe
portata a vedere una partita allo stadio.
Mi ricordai di quella buffa promessa con un sospiro arrendevole,
perché io odiavo il baseball ma non avevo avuto il coraggio
di dirglielo, per paura di ferire i suoi sentimenti.
Salii
le scale dopo essermi tolta le scarpe, per non far rumore, e sbirciai
nella sua camera, dove dormivo anche io da quando eravamo rimasti soli
in quell’enorme villa. Stava ancora dormendo, con la bocca
socchiusa e scoperto come al solito, incurante del sole che gli baciava
il viso.
Lo
raggiunsi camminando a quattro zampe sul letto e sorrisi quando mi
trovai di fronte al suo viso con il mio. Stavo per svegliarlo con un
bacio a fior di labbra, quando mi venne un’idea migliore: gli
avrei preparato la colazione e gliel’avrei portata a letto,
come aveva fatto lui dopo la notte che avevo passato insonne prima
della conferenza, nella quale l’avevo tenuto sveglio con me
giusto per poter parlare con qualcuno.
Scesi
dal letto con la stessa cautela con cui ero salita e zampettai di nuovo
al piano inferiore. Provai a copiare la sua colazione speciale, ma in
cucina non ero mai stata brava e non avevo abbastanza tempo. Inoltre,
per fare i muffin buoni come li faceva lui bisognava essere dotati
proprio di un dono, che purtroppo non era quello che possedevo io!
Così misi su un vassoio un bicchiere di succo
d’arancia, una tazza di caffèlatte, due fette di
toast imburrato e con la marmellata e una brioche preconfezionata che
trovai nell’armadio. Ero certa che mi avrebbe riso in faccia
per quell’ultima mia trovata, ma non mi importava: ero molto
orgogliosa della colazione speciale by Ary.
Stando
attenta a non far rovesciare tutto mentre facevo le scale, raggiunsi di
nuovo la camera e lo trovai ancora addormentato come un bambino. Posai
il vassoio sul suo comodino e mi sedetti al suo fianco, appoggiata al
suo petto, col viso a poca distanza dal suo.
Avvicinai la bocca al suo orecchio e sussurrai: «Derek
Jeter…?».
Nick
serrò le labbra in un sorriso e ancora nel sonno
mugugnò: «Nato il 26 giugno 1974, capitano dei New
York Yankees, ruolo interbase».
Sbalordita,
ma nemmeno troppo, non riuscii a trattenere una leggera risata.
«Non sono sicura di volere un marito ossessionato dal
baseball».
A
quelle parole Nick sembrò riprendersi e lentamente si
svegliò, strizzando le palpebre un paio di volte a causa del
sole che entrava dalla finestra. Misi una mano per fargli ombra e
finalmente fu in grado di aprire interamente gli occhi, incrociando
subito i miei.
«Buongiorno»,
esclamai con voce dolce. «Dormito bene?».
Lui
annuì col capo e si stiracchiò, poi si
tirò seduto con la schiena incurvata in avanti, la fronte
posata contro la mia. Mi guardò fisso negli occhi e mi
sentii quasi svanire, di fronte a tanta bellezza.
Si chinò e socchiuse gli occhi, mi diede un bacio sulle
labbra, soffermandosi in particolare sul mio labbro inferiore, e poi un
altro.
«Non
siamo ancora marito e moglie e già devo scegliere fra te e
il baseball?», mi domandò a bassa voce, ma con
tono divertito.
Entrambi
infatti scoppiammo a ridere.
«Guarda»,
dissi appena mi calmai, «ti ho preparato la
colazione!».
Lui
si voltò e mi guardò mentre prendevo il vassoio e
glielo mettevo sulle gambe, in mezzo a noi.
Come immaginavo, afferrò la brioche preconfezionata, ancora
nella sua plastica trasparente, e me la fece dondolare davanti al viso.
«E
questa?», chiese arricciando le labbra per non ridere.
«Lo
sai che sono un disastro in cucina! E poi non potevo di certo competere
con i tuoi muffin!».
«Questo
è vero», ammise e fece scoppiare la confezione con
una mano, facendomi spaventare.
Gli
tirai uno schiaffettino sul braccio. «Idiota!».
«Scusa
amore, vieni qui dai». Provò a prendermi per la
nuca ed attirarmi a sé per darmi un bacio, ma io mi spostai,
facendo la finta offesa con le braccia strette al petto.
Lui
dopo un po’ ci rinunciò, concentrando tutta la sua
attenzione sulla tazza di caffè, e come al solito fui io ad
andare da lui a ricercare le sue coccole. Non ce la facevo proprio a
fare l’arrabbiata con lui!
Così
mi sistemai accoccolata al suo fianco, con la testa posata
nell’incavo della sua spalla, e parlammo del più e
del meno, mentre lui faceva colazione e ogni tanto mi allungava una
fetta di pane tostato con burro e marmellata per farmi dare un morso.
«Come
mai prima mi hai chiamato con il nome del mio giocatore di baseball
preferito?», mi domandò ad un tratto, dopo aver
bevuto un sorso di succo d’arancia, che poi passò
a me.
«Prima
mi è tornata in mente la promessa che mi hai fatto, quella
che mi avresti portata a vedere una partita degli Yankees allo
stadio».
«Oh,
sì!», esclamò, improvvisamente animato
dalla gioia. «Non vedo l’ora, sarà
bellissimo tornare a vederli dopo tutto questo tempo!».
«Già…»,
balbettai con un sorrisino incerto. «Amore, io…
devo dirti una cosa».
«Che
cosa?». Mi guardò negli occhi e ancora una volta
mi si spezzò il cuore: non potevo davvero fargli questo, non
potevo dirgli che io odiavo il suo sport preferito.
«Preparati,
perché domani torniamo a casa, nell’altra
dimensione».
Nick
aprì la bocca, sorpreso, e tutto d’un tratto
iniziò a ridere come un matto, rischiando di rovesciarsi
addosso ciò che era avanzato della sua colazione.
Fui
felice di non avergli detto le parole che dovevo dirgli
originariamente, perché le sostitute che avevo pronunciato
senza nemmeno pensarci lo resero molto più contento e non
potevo volere di meglio.
***
«Hai
tutto?».
Entrai nella camera di Nick e rimasi senza fiato: era
così… vuota! Provai un moto di nostalgia,
nonostante non me ne fossi ancora andata, e probabilmente Nick stava
provando la stessa sensazione, perché si guardava intorno
quasi spaesato e con aria malinconica.
«Sì,
credo di aver preso tutto», rispose e si voltò
verso di me, accennandomi un sorriso.
Io
abbassai lo sguardo, come colpita dai sensi di colpa, anche se in quel
caso non avrei dovuto averne.
«Mi dispiace», sussurrai. «Prometto che
ci torneremo, che la useremo come casa di villeggiatura quando non
vorremo essere trovati da nessuno, dove ci rifugeremo quando ne avremo
voglia, dove…».
Nick
mi prese il viso fra le mani e mi costrinse a sollevarlo. Mi
posò un delicato bacio sulle labbra. «Amore, non
hai nulla di cui dispiacerti. Anche se qui mi mancherà, sono
contento di tornare a casa, soprattutto perché ci torno con
la cosa più importante, che non avrei mai trovato se non
fossi finito qui per chissà quale motivo».
Le
guance mi si infiammarono e lui ridacchiò, avvolgendomi un
braccio intorno alle spalle. «Forza, andiamo».
Dopo
esserci assicurati ancora una volta di aver chiuso
dall’interno tutte le porte e le finestre, raggiungemmo il
salotto, dove avevamo sistemato le valigie che sarebbero venute con noi
nell’altra dimensione.
«Pronto?»,
gli chiesi, prendendogli la mano nella mia. Lui la strinse forte ed
annuì.
«C’è un posto in particolare in casa tua
dove vorresti comparire?».
Ci
pensò su un attimo, poi sorrise. «Sì,
la mia…».
«Non
serve che tu me lo dica», lo interruppi. «Basta
solo che tu pensi intensamente a quel posto, okay?».
Sospirò
e chiuse gli occhi. «Okay».
«Allora
vado. Tre, due, uno…», e sparimmo.
Ricomparimmo
qualche secondo dopo e fui costretta a riaprire subito gli occhi a
causa di un frastuono che all’inizio non riuscii ad
identificare. Così mi coprii la testa e quando tutto parve
tornare tranquillo, mi guardai intorno: le nostre valigie non avevano
fatto proprio un bell’atterraggio ed erano sparse per tutta
la stanza, e non si trattava di una stanza comune, ma della camera da
letto di Nick. La riconobbi subito, nonostante non ci fossi mai stata.
Come feci? Semplice, grazie ai poster degli Yankees appesi alle pareti
e alle lettere delle fan, imballate in grosse scatole di plastica
trasparente ed indirizzate proprio a Nick dei Jonas Brothers.
Nella mia rapida ispezione, notai anche una cornice posata su una
mensola sopra la scrivania, dentro la quale c’era la foto di
una ragazza che avevo già visto, ma della quale non ricordai
subito il nome.
«Chi
è quella?», berciai subito, voltandomi verso Nick
che si era seduto sul letto, ancora un po’ scombussolato dal
teletrasporto. Su di lui aveva proprio un brutto effetto!
«Quella
chi?», mi chiese con una mano sulla fronte, confuso.
Acciuffai
il portafoto dalla mensola e quasi glielo spalmai sulla faccia.
«Questa!».
Nick
se l’allontanò dal viso e mi sorrise, anche se
glielo lessi negli occhi che era imbarazzato ed innervosito.
«È una mia cara amica, tutto
qui…».
«Tutto
qui? Sei sicuro? Guarda che a me non mi freghi, Nicholas Jerry
Jonas!».
«Te
lo giuro, amore, adesso è solo una mia cara
amica!».
Aggrottai
ancora di più le sopracciglia e mi avvicinai al suo viso,
guardandolo con i fulmini negli occhi. «Adesso?
Lo sapevo, è una tua ex! E perché hai ancora la
sua foto?!».
«Amore,
per favore, calmati!».
Improvvisamente
la porta della camera si aprì e tutta la famiglia Jonas al
completo, compreso un labrador beige, ci vide mezzi stesi sul letto,
mentre io gli puntavo al petto il portafoto.
Nick si alzò subito, dimenticandosi completamente di me e
della nostra prima discussione da fidanzati, e corse ad abbracciare i
suoi genitori e il suo fratellino Frankie, che non vedeva da un sacco
di tempo.
Addolcita
da quella scena commovente me ne dimenticai anche io e scoppiai a
ridere quando sentii il soprannome con cui lo chiamava sua madre:
«Nicky».
I suoi genitori mi guardarono come se fossi scema e allora, rossa
d’imbarazzo, mi ammutolii. Nick al contrario si
avvicinò a me, mi prese per mano e mi portò da
loro per presentarmi ufficialmente.
«Mamma,
papà, lei è Arianna, la ragazza che ha permesso a
tutti noi di tornare e la mia fidanzata».
A
sua madre brillarono gli occhi quando sentì quelle magiche
paroline e mi strinse in un forte abbraccio. «Noi ci siamo
già conosciute, ma permettimi di ringraziarti ancora una
volta per aver portato i miei piccoli a casa».
«Non
c’è di che signora Jonas, davvero»,
dissi, imbarazzata.
«Adesso
fai parte della famiglia, chiamami semplicemente Denise!».
«Oh,
okay», balbettai.
«Ah,
guarda come sei rossa!», gridò Joe prendendosi
gioco di me, ma invece di mandarlo a quel paese pensai a quanto mi
fosse mancato in quella settimana in cui non ci eravamo visti.
Solo allora mi resi conto che, davvero, loro erano diventati la mia
seconda famiglia.
***
Avevo
usato il cellulare di Joe per avvisare la mia famiglia del mio ritorno
a casa e gli avevo detto anche che sarei rimasta a cena a casa dei
Jonas.
In
quel frangente avevo scoperto che Ale e Joe ormai erano proprio una
coppietta, a causa di un sms che Ale aveva inviato al mezzano dei
fratelli Jonas e che io avevo letto. Per sbaglio, ovviamente.
Allora avevo iniziato a prenderlo in giro come lui faceva sempre con me
e Nick chiamandoci piccioncini, mentre correvo per la sua stanza per
non farmi acciuffare e leggevo ad alta voce, sotto gli occhi divertiti
di Nick che era dalla mia parte, tutti i messaggi sdolcinati che si
inviavano a vicenda. Questo mi aveva alquanto sorpresa,
perché Ale non era solita a quelle smancerie, e mi ero
promessa che gliene avrei dette tante anche a lei, appena
l’avrei rivista!
Per
farmi smettere, Joe si era fatto furbo e aveva detto: «Vuoi
sapere o no chi è quella ragazza nella foto con
Nick?».
Mi
ero immobilizzata sul posto e Nick aveva guardato il fratello
disperato, come se gli avesse appena infilzato un coltello nella
schiena, ma Joe scrollò le spalle con una faccia che parlava
da sé: «Non avevo scelta!».
«Sì,
certo che lo voglio sapere!», gridai, di nuovo rossa di
gelosia, e fu così che scoprii che la famosa ex di Nick era
niente popò di meno che Miley Cyrus, attrice per la Disney
nei panni di Hannah Montana e cantante. Ecco dove l’avevo
già vista!
«Sono
stati insieme due anni, più o meno», aveva ripreso
a raccontare Joe. «E quando si sono lasciati sono stati
così male tutti e due… pensa che si sono scritti
persino delle canzoni! Ma adesso è tutto passato, sono
ottimi amici, e credo che sia meglio non andare oltre, o il mio
fratellino potrebbe piangere!».
Joe era scappato via da camera sua, capendo di essere andato un
po’ troppo oltre nelle spiegazioni, e ci aveva lasciati soli.
L’imbarazzo
e la tensione che aleggiavano nell’aria si potevano tagliare
a fette e ci avvolgevano come una pesante coperta nella quale ci
eravamo incastrati.
Io per prima mi ero mossa e mi ero lasciata cadere seduta sul letto
alle mie spalle, con le mani sul viso che andava in fiamme.
«E
adesso che cosa ti prende?», mi aveva chiesto in tono dolce
Nick, sedendosi al mio fianco, una mano posata sulla mia nuca, che mi
accarezzava i capelli.
«Mi
dispiace tanto», avevo mugugnato, senza accennare a scoprirmi
il viso. «Non volevo farti soffrire facendoti
ricordare… Non so perché mi sono comportata
così, io non sono mai stata gelosa… solo
che…».
Nick
mi aveva preso le mani nelle sue e mi aveva guardato in viso,
trovandolo rosso come un peperone. Mi aveva sorriso e mi aveva posato
un bacio sulle labbra.
«Non ti preoccupare, quella storia è stata molto
importante, lo ammetto, ma ormai è andata, fa parte del
passato. Tu sei il mio presente e il mio futuro, non
c’è niente di più importante per
me».
Ecco,
lo odiavo quando faceva così, perché mi diceva
tante di quelle cose dolci che mi scioglievano come un cubetto di
ghiaccio al sole e io non sapevo affatto come rispondere.
Ciononostante, avevo replicato con poca voce: «Ti amo,
Nick».
Mi
aveva stretto nelle braccia e mi aveva cullata per un po’.
«Anche io, tanto. Ma promettimi di non fare più
queste scenate, prima con il portafoto in mano mi hai fatto davvero
paura, credevo che mi volessi colpire!».
Tutto
alla fine si era risolto con una risata, per fortuna, e dopo sua madre
venne a chiamarci, dicendoci che era pronta la cena.
Avevo
pensato che mi sarei sentita in imbarazzo a mangiare con la sua
famiglia, invece i suoi genitori mi fecero sentire subito a mio agio
e Joe fu un vero mago a riempire i vuoti di silenzio che ogni
tanto si creavano, raccontando le cose più assurde che
gli erano capitate nell’altra dimensione e, come al
solito, prendendo in giro me e Nick, raccontando nei particolari il
modo in cui ci eravamo conosciuti e le varie fasi del nostro
innamoramento.
Mentalmente, mi ero appuntata che avrei dovuto picchiarlo appena ne
avessi avuta la possibilità.
Quando
finimmo di cenare, i genitori dei Jonas Brothers mi chiesero se volevo
restare a dormire lì, perché era già
tardi e prendere il treno per tornare a casa era pericoloso, ma io
rifiutai gentilmente, dicendo che mi avevano già ospitato
abbastanza.
«Un
modo per tornare a casa lo troverò», dissi e gli
feci l’occhiolino.
Per
un momento i due non capirono, poi sua madre si ricordò del
bellissimo tuffo che avevo fatto nella loro piscina quando ero
scomparsa e ricomparsa, e scoppiò a ridere.
«Tesoro,
scusami, ma mi ero completamente dimenticata di questo tuo…
potere! Sei una ragazza così carina e
semplice…».
Chinai
leggermente il capo. «La ringrazio molto, è bello
sentirmi dire che sono normale».
«Va
bene, allora… buon viaggio», mi disse,
abbracciandomi. «Spero di rivederti presto, perché
con tutti gli impegni che i nostri piccoli avranno dopo che la notizia
del loro rientro sulla scena musicale si diffonderà non
penso che avranno molto tempo libero, ma ti prometto che Nicky te lo
controllerò io!».
Accennai
un mezzo sorriso, tra l’impacciato e il nervoso, e mi
congedai con la valigia che avevo portato con me dall’altra
dimensione.
Nick mi seguì a ruota per salutarmi meglio, con un
po’ di privacy, e
mi guardò mentre mi sedevo sul dondolo in veranda,
pensierosa e con un’ombra di tristezza negli occhi.
Si
sedette al mio fianco e non fece domande. Con le dita della mano
intrecciate alle mie sopra il suo ginocchio, aspettò
pazientemente che io parlassi.
«Più
di una volta mi sono chiesta come sarebbe stato, quando saremmo tornati
in questa dimensione. Mi chiedevo se sarebbe stato possibile continuare
qualcosa che era iniziato in un mondo parallelo e quasi surreale, se
anche nella realtà, soprattutto la tua realtà,
saremmo riusciti a stare ancora insieme e… ho la maledetta
paura che qualcosa fra di noi cambi. Insomma, tu hai la tua vita, la
tua carriera musicale a cui pensare, e hai sentito cos’ha
detto tua madre… Quando riprenderete a suonare in giro per
il mondo non avrete più tempo libero, noi ci vedremo poco
e…».
Nick
mi prese il viso fra le mani, fondendo i nostri sguardi.
«Ary, non hai nulla di cui temere. Noi ce la faremo. Ci siamo
sempre riusciti in un modo o nell’altro, abbiamo superato
difficoltà ben peggiori di quelle che ci attendono,
perché non dovremmo farcela?».
«Io…
io non lo so, ho paura di perderti…».
«Non
mi perderai mai, ti amo troppo per poter lasciarti andare
via».
Lo guardai negli occhi e a quelle parole parte di quella stupida paura
svanì, liberandomi da un peso sul petto.
«Ti amo, Ary, e non c’è nulla di
più forte di ciò che mi lega a te».
Sospirai
sollevata e gli gettai le braccia al collo, stringendolo forte a me.
Lui ridacchiò e mi posò un bacio sulla tempia e
uno sulla guancia, prima di cercare le mie labbra.
«Ci
sentiamo e ci vedremo presto», sussurrò.
«Okay.
Buona notte, Nicky».
Roteò
gli occhi verso il cielo, sentendo il soprannome con il quale avevo
iniziato a chiamarlo pure io a mo’ di presa in giro, ma poi
sorrise e disse anche lui: «Buona notte».
Posai
una mano sulla valigia al mio fianco e in pochi attimi sparii,
lasciandolo seduto nella veranda di casa sua.
***
Nick
alzò il viso per guardare la luna e le stelle e finalmente
si disse che era tornato a casa, ma ciò non lo rendeva
felice del tutto: sentiva che qualcosa, o meglio, qualcuno
gli mancava, senza il quale non avrebbe mai potuto sentirsi a casa
pienamente.
Così si aggrappò alle stesse parole che le aveva
detto poco prima per rassicurarla e pregò perché
lei non lo abbandonasse mai.
***
Ricomparii
in camera mia, dove caddi sul letto, e la valigia, invece, produsse un
tonfo sordo cadendo e rotolando sul pavimento.
Mi
tirai su seduta sul letto e mi portai le dita sulle labbra, sentendo
ancora il sapore di quelle di Nick, e sorrisi.
Dopo quello che mi aveva detto, il mio cuore si era rasserenato ed ero
certa che in un modo o nell’altra ce l’avremmo
fatta, avevamo dimostrato più volte che il nostro amore era
più forte di qualsiasi difficoltà e inoltre io lo
amavo troppo per permettere che qualcosa o qualcuno ci separasse.
Scesi
dal letto di corsa, ricordandomi della mia famiglia, e mi lanciai a
capofitto giù dalle scale, incontrando alla fine della rampa
mio fratello che probabilmente si era insospettito sentendo quel tonfo.
«Sei
tornata!», esclamò e mi si gettò fra le
braccia, facendomi barcollare. Poi mi trascinò in salotto,
dove trovai mia madre, mio padre e persino Alessandra, che fu la
seconda a saltarmi in braccio.
Risi,
felice di rivederli, ma qualcosa mi fece rimanere con l’amaro
in bocca. Per la mia completa felicità avevo bisogno di
altre persone e mi trovai a ridere facendo quella considerazione,
perché non avrei mai immaginato di dover ammettere che oltre
che di Nick necessitavo anche di Kevin e soprattutto di Joe!, colui che
avevo sempre detestato ma che alla fine si era rivelato uno dei miei
migliori amici.
Solo allora la mia famiglia sarebbe stata completa.