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Autore: _Pulse_    03/02/2012    2 recensioni
Una volta usciti dall’acqua, ancora placcata da i due Jonas, il terzo si avvicinò e passò due asciugamani ai fratelli.
«Tante grazie!», gridai, fuori di me.
«Non iniziare a lagnarti! Vieni qui con me!», gridò il più piccolo, attirandomi a sé e avvolgendomi nel suo asciugamano con lui. Rimasi piacevolmente sorpresa da quel gesto e mi arresi al fatto che ormai non mi restava altro da fare che seguirli e scoprire che cosa volevano da me.
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Joe Jonas, Kevin Jonas, Nick Jonas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi qui, puntuale come un orologio svizzero! :D Come avevo preannunciato sulla mia pagina FB, solo per voi un nuovo capitolo, uno degli ultimi. Ormai siamo agli sgoccioli, non ci posso credere! Dopo tutto questo tempo in cui mi sono fatta dannare, finalmente questa FF giungerà al termine. Spero solo che qualcuno rimanga fino alla fine ;)
Bene, non mi resta che ringraziare coloro che leggeranno e colei che ha recensito lo scorso capitolo, ___Unbroken - Grazie mille! :) - 
ed augurarvi buona lettura! :3

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Capitolo 18

 

I giorni si susseguirono in fretta uno dietro l’altro, ricchi d’avvenimenti e di emozioni, tanto che passai la peggiore settimana della mia vita. Almeno per quanto riguardava il sonno. Avevo dormito per quattro giorni interi, dopo la “battaglia finale” con la vecchia megera, e le preoccupazioni per quello che mi aspettava al risveglio mi rendevano difficile addormentarmi.
Delle volte era capitato che mi svegliassi nel cuore della notte e nemmeno il respiro né i battiti regolari del cuore di Nick, stretto al mio fianco, riuscivano a tranquillizzarmi.
Così mi alzavo e, seduta all’isola della cucina, con una tazza di thè caldo di fronte al viso, restavo a riflettere e a scarabocchiare sui post-it, per esempio, le parole che avrei potuto usare alla mia conferenza.

Era la prima conferenza a cui partecipavo e mai, mai avrei pensato che avrei vissuto quell’esperienza stando seduta ad un lungo tavolo, con un microfono posizionato di fronte alla bocca e una marea di giornalisti, cameraman e fotografi come spettatori.
Per fortuna a darmi un po’ di conforto, seduti ai miei fianchi, c’erano Nick e Davide, mio fratello; accanto a lui, inoltre, c’erano anche Fiore, che ne sapeva sicuramente più di me e dava il suo contributo nelle spiegazioni più dettagliate dei fenomeni, e Alessandro, che aveva ottenuto quel posto di diritto perché era stata la mia prima “cavia” per sperimentare l’efficacia della mia teoria.
In più Alessandro, qualche giorno prima della conferenza, mi aveva spiegato ciò che non era riuscito a dirmi quella volta sulla spiaggia, scacciando definitivamente ogni mio dubbio sulla fondatezza della mia teoria.

«Quando abbiamo fatto l’esperimento, io non sono comparso al tuo fianco ed entrambi, ovviamente, abbiamo creduto di aver fallito, ma in realtà… ci eravamo solo separati durante il teletrasporto. Ho il forte sospetto, anzi ne sono quasi sicuro, che mentre ci teletrasportavamo io abbia pensato a casa mia, in Messico. Desideravo davvero molto vedere un’ultima volta la mia famiglia, assicurarmi che mia madre, mio nonno e le mie due sorelline stessero bene, ed è proprio lì che mi sono trovato, nel giardino di casa mia».

Dopo quel racconto, capii che durante la fase di passaggio fra le due dimensioni non era efficace solo la volontà di chi aveva il dono, ma anche di chi veniva trasportato. Questa presa di coscienza aveva risollevato in parte l’animo di mio fratello, il quale si era sempre sentito colpevole di aver spedito in chissà quale altra dimensione il signore anziano che lo aveva aiutato, e inoltre aveva dato un grosso contributo alla gestione tecnica di quello che sarebbe diventato, col tempo, un vero “aeroporto dimensionale”.

Un giornalista si alzò in piedi e prese la parola: «Signorina, ci spieghi la sua idea più nei dettagli».

Mi schiarii la voce allontanandomi dal microfono ed annuii. «Quello a cui ho pensato somiglia molto ad un aeroporto, solo dimensionale. Prendiamo per esempio un ufficio, o comunque un luogo in cui potrebbe essere possibile radunare tutte le persone che, secondo il loro appuntamento, devono essere trasportate nell’altra dimensione».

«Come una specie di sala d’aspetto?», chiese un’altra giornalista.

«Sì, esatto!», esclamai. «Come dal medico, ognuno aspetta il proprio turno e nel frattempo compila un modulo in cui si richiedono i dati anagrafici e una piccola biografia, nulla di molto approfondito. Questo servirà alle persone nell’altra dimensione per prepararsi al loro arrivo ed assicurarsi che tutto sia andato secondo i piani. Tutto qui. Ci ho messo un po’ di tempo per capire che bastava solo questo, ma alla fine ce l’ho fatta e spero che possa essere d’aiuto a moltissime persone».


Da quando la notizia si era diffusa e ormai tutti ne parlavano, nelle radio, nei TG e per strada, aveva scatenato un’eccitazione generale, tanto che qualcuno stava già pensando di accamparsi di fronte all’edificio che sarebbe poi diventata la sede dell’aeroporto dimensionale per accaparrarsi i primi posti.
Gli scettici di certo non mancarono, però la maggior parte della popolazione reagì in maniera positiva, animati di nuovo dalla speranza di poter tornare finalmente a casa.

 
Un’altra di quelle preoccupazioni che non mi permise di dormire la notte fu il funerale di Charlotte, che avvenne qualche giorno dopo la famosa conferenza. Anche in quella lunga notte insonne mi ero ritrovata a scrivere sui post-it. Quella volta avevo scarabocchiato poche parole che magari Charlotte, lassù da qualche parte nel cielo, avrebbe ascoltato.

 

Nel piccolo cimitero del paese, immerso nel verde, c’erano poche persone. La mattinata era uggiosa e il vento freddo che spirava dal mare mi faceva tremare, in piedi accanto a Nick, Joe, Kevin, Alessandra e Davide, che non sarebbe mancato per nulla al mondo, visto che le doveva la vita. Di fronte a noi si trovava la bara di Charlotte, coronata da fiori colorati e rose rosse, che come le vidi mi fecero ricordare il colore dei suoi capelli.

Le sue due migliori amiche e compagne di vita, la cheerleader bionda e quella mora, erano poco lontane da noi e per la prima volta le vidi indossare dei vestiti normali, anche se a lutto.

Piansero per tutta la durata della funzione, semplice ed essenziale, senza fronzoli inutili. Piansero persino mentre dicevano qualche parola in ricordo di Charlotte. E continuarono, inconsolabili, anche quando fu il mio turno, per questo non seppi se le mie parole fossero state gradite o meno.

 

«Charlotte…», incominciai a bassa voce, per poi rafforzarla man mano che parlavo e scorrevo quei ridicoli post-it gialli che non avevo voluto lasciare a casa. «Ricordo come fosse ieri la prima volta in cui la incontrai, quando con le sue inseparabili amiche ha provato a catturarmi. E per quanto io possa averla conosciuta, posso affermare che credeva molto in tutto ciò che faceva, ci metteva il cuore. Credo che abbia sempre messo il cuore in ogni cosa, anche quando sapeva che avrebbe potuto rimetterci persino la vita. Si è rivelata tardi ai miei occhi, era una persona davvero fantastica e migliore di ciò che si poteva pensare e… non mi dimenticherò mai di lei, mai, perché nonostante il dolore ha provato a sorridere e questa è la più grande lezione di vita che potesse mai donarmi. Dormi in pace, Charlotte… te lo meriti».

 

Una volta tornata alla villa dei Jonas, ero rimasta sotto tono per il resto della giornata, lasciandomi andare più volte a quelle lacrime che non ero riuscita a mostrare apertamente di fronte alla sua bara, trovando ogni volta le braccia di Nick pronte ad accogliermi e a consolarmi. In quegli istanti, stretta a lui, mi ero persino sentita in colpa per essere lì con lui, quando al mio posto avrebbe potuto esserci benissimo Charlotte, ma poi mi ero subito rimproverata ripetendo dentro di me la promessa che le avevo fatto.

 
Due giorni dopo il funerale, nei quali ero riuscita a recuperare un po’ di ore di sonno perduto, l’insonnia tornò a colpire, ma quella volta per uno strano sogno dal quale era nata una riflessione piuttosto profonda e a tratti sorprendente, anche per me che in qualche modo le avevo dato il via nella mia testa.

Avrei voluto svegliare Nick per discuterne con lui, ma alla fine lasciai perdere: era così bello quando dormiva, così sereno, che mi dispiaceva fin troppo turbarlo.
Così feci come al solito, mi alzai e andai a farmi una tazza di thè. Nel frattempo perfezionai la mia riflessione e mi venne un’idea che al solo pensiero mi parve un’assurdità, ma che, di pari passo con la lancetta dei secondi che andava avanti sull’orologio, prese forma e consistenza.

Finito il thè andai a farmi una doccia e mi cambiai, scrissi un bigliettino a Nick, lasciandolo sul cuscino accanto al suo, ed uscii di casa insieme al sole che sorgeva nel cielo terso e roseo.
Decisi di camminare un po’ sugli scogli per sentire l’aria fredda entrarmi nei vestiti e nei polmoni, poi presi una scorciatoia per arrivare in paese, che, ancora addormentato, non avevo mai sentito più silenzioso.

Raggiunsi l’ospedale e avrei dovuto essere sorpresa di vedere Fiore a quell’ora di mattina, ma per ovvie ragioni non lo ero. Lei era una sorpresa continua, inutile stupirsi.
Era seduta su una sedia, di fronte alla camera di sua madre, e la sensazione che provai vedendola non fu ottima: sembrava che le stesse facendo da guardia, più che vegliare il suo sonno.
Provai ad immaginarmi una Fiore adolescente, sola al capezzale del padre morente, e in parte capii quello che probabilmente stava provando in quel momento.

Mi avvicinai e le posai una mano sulla spalla. Lei sollevò il capo e mi guardò negli occhi come se stesse scavando nella mia anima, poi mi sorrise teneramente.
«Che ci fai qui?».

Ebbi come la sensazione che lo sapesse già, ma mi sedetti al suo fianco e le raccontai l’idea che avevo partorito quella notte. Mi ascoltò senza mai modificare quel sorriso tenero che aveva sulle labbra e quando finii, mi passò una mano fra i capelli.

«Per me va bene. Credo che l’aiuterà molto».

«Okay, allora… vieni con me?».

Fiore si coprì la bocca in una risata silenziosa ed annuì, seguendomi all’interno della camera di sua madre.

Appena la donna anziana mi vide, sobbalzò e il suo sguardo si fece sospettoso. Lasciai correre e con calma mi sedetti accanto al suo letto, fissando le varie coperte che la coprivano.

«Perché sei qui, ragazzina?».

Sollevai di scatto gli occhi ed incontrai le sue iridi grigiastre e prive di vita. Mi chiesi se potesse vedermi, ma non ebbi tempo per appurarlo, perché la mia lingua fu più veloce del mio cervello a formulare la risposta: «Sono venuta a proporle una cosa».

«Ossia?».

Mi lasciai andare ad un breve sospiro e finalmente sputai fuori la verità, quella che a Fiore non ero riuscita a dire e che nemmeno io avevo del tutto accettato.
«La storia della sua vita mi ha colpita davvero e anche se la razionalità mi diceva e tutt’ora mi sta dicendo di non fare nulla per lei, il mio cuore è rattristato dai motivi per cui lei è diventata quella che è ora e so che ne risentirei, se non facessi qualcosa per lenire il suo dolore. Quindi ho pensato che potrebbe scrivere la sua biografia, o qualcosa del genere, in cui potrebbe descrivere tutte le dimensioni che ha visitato, le esperienze che ha vissuto, per tutte le persone che possiedono il dono. Sarebbe come una guida sulle diverse dimensioni e tutta la sua preziosa conoscenza, i suoi studi, i suoi viaggi, non andrebbero persi per sempre. Renderebbe un grande servizio a tutti quelli… come noi», gettai uno sguardo a Fiore e la vidi sorridere.

La donna invece posò il capo sul cuscino e chiuse gli occhi, come se ci stesse pensando. «Sono troppo debole e stanca, neanche se volessi potrei…».

«A questo ho già pensato: se lei non se la sente di scrivere potremmo farlo io e Fiore; lei dovrebbe soltanto raccontare».

Allora aprì di nuovo gli occhi e li fissò nei miei, tanto che ne ebbi quasi soggezione. Guardando con attenzione, però, vidi una lacrima sfuggire dall’angolo del suo occhio destro e finire fra i suoi capelli candidi.
«Perché vuoi fare tutto questo per me? Io ho fatto del male a tante persone innocenti, ho fatto del male anche a te e ai tuoi amici, ho ucciso la tua amica…».

Pensai a Charlotte e mi chiesi se da lassù mi stesse guardando con aria di rimprovero oppure con un sorriso sulle labbra.
Alla fine sospirai e scrollai le spalle: «Portare rancore, odiare, non serve a nulla, anzi fa male all’anima. E poi, se devo dire tutta la verità, sono curiosa di sapere quali altre dimensioni parallele esistono oltre a questa».

L’anziana donna mi guardò con un sorrisino sulle labbra e mi posò una mano sulla guancia, in una carezza che probabilmente conteneva quell’unica parola che non sarebbe mai riuscita a dirmi a voce: «Grazie».
«Oh», disse con voce ricca di entusiasmo, «credo che dovremmo iniziare subito, se vuoi davvero che te le racconti tutte».

Con la coda dell’occhio vidi Fiore che ridacchiava sommessamente con una mano di fronte alla bocca, come se qualcosa nella mia espressione la facesse divertire. Me l’avrebbe detto solo qualche tempo dopo, quando finimmo di scrivere quei due volumi di viaggi che sarebbero poi diventati i primi cimeli storici di quel paesino e ormai l’anziana donna non c’era più, che a quelle parole il mio viso aveva sprizzato gioia da tutti i pori.

 

***

 

Tornai a casa, alla villa dei Jonas, e la trovai silenziosa come l’avevo lasciata. Di solito Nick era un tipo mattiniero e mi stranii quando non lo vidi in cucina a prepararmi la sua colazione speciale (succo d’arancia, tazza enorme di caffè con un po’ di latte, toast con burro e marmellata, muffin ai mirtilli o pancake con sciroppo d’acero) o seduto sul divano a guardare il baseball alla TV e rimpiangendo il campionato degli “unici ed inimitabili” NY Yankees.

A proposito degli Yankees… Tempo prima mi aveva promesso che appena saremmo tornati nell’altra dimensione mi avrebbe portata a vedere una partita allo stadio.
Mi ricordai di quella buffa promessa con un sospiro arrendevole, perché io odiavo il baseball ma non avevo avuto il coraggio di dirglielo, per paura di ferire i suoi sentimenti.

Salii le scale dopo essermi tolta le scarpe, per non far rumore, e sbirciai nella sua camera, dove dormivo anche io da quando eravamo rimasti soli in quell’enorme villa. Stava ancora dormendo, con la bocca socchiusa e scoperto come al solito, incurante del sole che gli baciava il viso.

Lo raggiunsi camminando a quattro zampe sul letto e sorrisi quando mi trovai di fronte al suo viso con il mio. Stavo per svegliarlo con un bacio a fior di labbra, quando mi venne un’idea migliore: gli avrei preparato la colazione e gliel’avrei portata a letto, come aveva fatto lui dopo la notte che avevo passato insonne prima della conferenza, nella quale l’avevo tenuto sveglio con me giusto per poter parlare con qualcuno.

Scesi dal letto con la stessa cautela con cui ero salita e zampettai di nuovo al piano inferiore. Provai a copiare la sua colazione speciale, ma in cucina non ero mai stata brava e non avevo abbastanza tempo. Inoltre, per fare i muffin buoni come li faceva lui bisognava essere dotati proprio di un dono, che purtroppo non era quello che possedevo io!
Così misi su un vassoio un bicchiere di succo d’arancia, una tazza di caffèlatte, due fette di toast imburrato e con la marmellata e una brioche preconfezionata che trovai nell’armadio. Ero certa che mi avrebbe riso in faccia per quell’ultima mia trovata, ma non mi importava: ero molto orgogliosa della colazione speciale by Ary.

Stando attenta a non far rovesciare tutto mentre facevo le scale, raggiunsi di nuovo la camera e lo trovai ancora addormentato come un bambino. Posai il vassoio sul suo comodino e mi sedetti al suo fianco, appoggiata al suo petto, col viso a poca distanza dal suo.
Avvicinai la bocca al suo orecchio e sussurrai: «Derek Jeter…?».

Nick serrò le labbra in un sorriso e ancora nel sonno mugugnò: «Nato il 26 giugno 1974, capitano dei New York Yankees, ruolo interbase».

Sbalordita, ma nemmeno troppo, non riuscii a trattenere una leggera risata. «Non sono sicura di volere un marito ossessionato dal baseball».

A quelle parole Nick sembrò riprendersi e lentamente si svegliò, strizzando le palpebre un paio di volte a causa del sole che entrava dalla finestra. Misi una mano per fargli ombra e finalmente fu in grado di aprire interamente gli occhi, incrociando subito i miei.

«Buongiorno», esclamai con voce dolce. «Dormito bene?».

Lui annuì col capo e si stiracchiò, poi si tirò seduto con la schiena incurvata in avanti, la fronte posata contro la mia. Mi guardò fisso negli occhi e mi sentii quasi svanire, di fronte a tanta bellezza.
Si chinò e socchiuse gli occhi, mi diede un bacio sulle labbra, soffermandosi in particolare sul mio labbro inferiore, e poi un altro.

«Non siamo ancora marito e moglie e già devo scegliere fra te e il baseball?», mi domandò a bassa voce, ma con tono divertito.

Entrambi infatti scoppiammo a ridere.

«Guarda», dissi appena mi calmai, «ti ho preparato la colazione!».

Lui si voltò e mi guardò mentre prendevo il vassoio e glielo mettevo sulle gambe, in mezzo a noi.
Come immaginavo, afferrò la brioche preconfezionata, ancora nella sua plastica trasparente, e me la fece dondolare davanti al viso.

«E questa?», chiese arricciando le labbra per non ridere.

«Lo sai che sono un disastro in cucina! E poi non potevo di certo competere con i tuoi muffin!».

«Questo è vero», ammise e fece scoppiare la confezione con una mano, facendomi spaventare.

Gli tirai uno schiaffettino sul braccio. «Idiota!».

«Scusa amore, vieni qui dai». Provò a prendermi per la nuca ed attirarmi a sé per darmi un bacio, ma io mi spostai, facendo la finta offesa con le braccia strette al petto.

Lui dopo un po’ ci rinunciò, concentrando tutta la sua attenzione sulla tazza di caffè, e come al solito fui io ad andare da lui a ricercare le sue coccole. Non ce la facevo proprio a fare l’arrabbiata con lui!

Così mi sistemai accoccolata al suo fianco, con la testa posata nell’incavo della sua spalla, e parlammo del più e del meno, mentre lui faceva colazione e ogni tanto mi allungava una fetta di pane tostato con burro e marmellata per farmi dare un morso.

«Come mai prima mi hai chiamato con il nome del mio giocatore di baseball preferito?», mi domandò ad un tratto, dopo aver bevuto un sorso di succo d’arancia, che poi passò a me.

«Prima mi è tornata in mente la promessa che mi hai fatto, quella che mi avresti portata a vedere una partita degli Yankees allo stadio».

«Oh, sì!», esclamò, improvvisamente animato dalla gioia. «Non vedo l’ora, sarà bellissimo tornare a vederli dopo tutto questo tempo!».

«Già…», balbettai con un sorrisino incerto. «Amore, io… devo dirti una cosa».

«Che cosa?». Mi guardò negli occhi e ancora una volta mi si spezzò il cuore: non potevo davvero fargli questo, non potevo dirgli che io odiavo il suo sport preferito.

«Preparati, perché domani torniamo a casa, nell’altra dimensione».

Nick aprì la bocca, sorpreso, e tutto d’un tratto iniziò a ridere come un matto, rischiando di rovesciarsi addosso ciò che era avanzato della sua colazione.

Fui felice di non avergli detto le parole che dovevo dirgli originariamente, perché le sostitute che avevo pronunciato senza nemmeno pensarci lo resero molto più contento e non potevo volere di meglio.

 

***

 

«Hai tutto?».
Entrai nella camera di Nick e rimasi senza fiato: era così… vuota! Provai un moto di nostalgia, nonostante non me ne fossi ancora andata, e probabilmente Nick stava provando la stessa sensazione, perché si guardava intorno quasi spaesato e con aria malinconica.

«Sì, credo di aver preso tutto», rispose e si voltò verso di me, accennandomi un sorriso.

Io abbassai lo sguardo, come colpita dai sensi di colpa, anche se in quel caso non avrei dovuto averne.
«Mi dispiace», sussurrai. «Prometto che ci torneremo, che la useremo come casa di villeggiatura quando non vorremo essere trovati da nessuno, dove ci rifugeremo quando ne avremo voglia, dove…».

Nick mi prese il viso fra le mani e mi costrinse a sollevarlo. Mi posò un delicato bacio sulle labbra. «Amore, non hai nulla di cui dispiacerti. Anche se qui mi mancherà, sono contento di tornare a casa, soprattutto perché ci torno con la cosa più importante, che non avrei mai trovato se non fossi finito qui per chissà quale motivo».

Le guance mi si infiammarono e lui ridacchiò, avvolgendomi un braccio intorno alle spalle. «Forza, andiamo».

Dopo esserci assicurati ancora una volta di aver chiuso dall’interno tutte le porte e le finestre, raggiungemmo il salotto, dove avevamo sistemato le valigie che sarebbero venute con noi nell’altra dimensione.

«Pronto?», gli chiesi, prendendogli la mano nella mia. Lui la strinse forte ed annuì.
«C’è un posto in particolare in casa tua dove vorresti comparire?».

Ci pensò su un attimo, poi sorrise. «Sì, la mia…».

«Non serve che tu me lo dica», lo interruppi. «Basta solo che tu pensi intensamente a quel posto, okay?».

Sospirò e chiuse gli occhi. «Okay».

«Allora vado. Tre, due, uno…», e sparimmo.

 

Ricomparimmo qualche secondo dopo e fui costretta a riaprire subito gli occhi a causa di un frastuono che all’inizio non riuscii ad identificare. Così mi coprii la testa e quando tutto parve tornare tranquillo, mi guardai intorno: le nostre valigie non avevano fatto proprio un bell’atterraggio ed erano sparse per tutta la stanza, e non si trattava di una stanza comune, ma della camera da letto di Nick. La riconobbi subito, nonostante non ci fossi mai stata. Come feci? Semplice, grazie ai poster degli Yankees appesi alle pareti e alle lettere delle fan, imballate in grosse scatole di plastica trasparente ed indirizzate proprio a Nick dei Jonas Brothers.
Nella mia rapida ispezione, notai anche una cornice posata su una mensola sopra la scrivania, dentro la quale c’era la foto di una ragazza che avevo già visto, ma della quale non ricordai subito il nome.

«Chi è quella?», berciai subito, voltandomi verso Nick che si era seduto sul letto, ancora un po’ scombussolato dal teletrasporto. Su di lui aveva proprio un brutto effetto!

«Quella chi?», mi chiese con una mano sulla fronte, confuso.

Acciuffai il portafoto dalla mensola e quasi glielo spalmai sulla faccia. «Questa!».

Nick se l’allontanò dal viso e mi sorrise, anche se glielo lessi negli occhi che era imbarazzato ed innervosito. «È una mia cara amica, tutto qui…».

«Tutto qui? Sei sicuro? Guarda che a me non mi freghi, Nicholas Jerry Jonas!».

«Te lo giuro, amore, adesso è solo una mia cara amica!».

Aggrottai ancora di più le sopracciglia e mi avvicinai al suo viso, guardandolo con i fulmini negli occhi. «Adesso? Lo sapevo, è una tua ex! E perché hai ancora la sua foto?!».

«Amore, per favore, calmati!».

Improvvisamente la porta della camera si aprì e tutta la famiglia Jonas al completo, compreso un labrador beige, ci vide mezzi stesi sul letto, mentre io gli puntavo al petto il portafoto.
Nick si alzò subito, dimenticandosi completamente di me e della nostra prima discussione da fidanzati, e corse ad abbracciare i suoi genitori e il suo fratellino Frankie, che non vedeva da un sacco di tempo.

Addolcita da quella scena commovente me ne dimenticai anche io e scoppiai a ridere quando sentii il soprannome con cui lo chiamava sua madre: «Nicky».
I suoi genitori mi guardarono come se fossi scema e allora, rossa d’imbarazzo, mi ammutolii. Nick al contrario si avvicinò a me, mi prese per mano e mi portò da loro per presentarmi ufficialmente.

«Mamma, papà, lei è Arianna, la ragazza che ha permesso a tutti noi di tornare e la mia fidanzata».

A sua madre brillarono gli occhi quando sentì quelle magiche paroline e mi strinse in un forte abbraccio. «Noi ci siamo già conosciute, ma permettimi di ringraziarti ancora una volta per aver portato i miei piccoli a casa».

«Non c’è di che signora Jonas, davvero», dissi, imbarazzata.

«Adesso fai parte della famiglia, chiamami semplicemente Denise!».

«Oh, okay», balbettai.

«Ah, guarda come sei rossa!», gridò Joe prendendosi gioco di me, ma invece di mandarlo a quel paese pensai a quanto mi fosse mancato in quella settimana in cui non ci eravamo visti.
Solo allora mi resi conto che, davvero, loro erano diventati la mia seconda famiglia.

 

***

 

Avevo usato il cellulare di Joe per avvisare la mia famiglia del mio ritorno a casa e gli avevo detto anche che sarei rimasta a cena a casa dei Jonas.

In quel frangente avevo scoperto che Ale e Joe ormai erano proprio una coppietta, a causa di un sms che Ale aveva inviato al mezzano dei fratelli Jonas e che io avevo letto. Per sbaglio, ovviamente.
Allora avevo iniziato a prenderlo in giro come lui faceva sempre con me e Nick chiamandoci piccioncini, mentre correvo per la sua stanza per non farmi acciuffare e leggevo ad alta voce, sotto gli occhi divertiti di Nick che era dalla mia parte, tutti i messaggi sdolcinati che si inviavano a vicenda. Questo mi aveva alquanto sorpresa, perché Ale non era solita a quelle smancerie, e mi ero promessa che gliene avrei dette tante anche a lei, appena l’avrei rivista!

Per farmi smettere, Joe si era fatto furbo e aveva detto: «Vuoi sapere o no chi è quella ragazza nella foto con Nick?».

Mi ero immobilizzata sul posto e Nick aveva guardato il fratello disperato, come se gli avesse appena infilzato un coltello nella schiena, ma Joe scrollò le spalle con una faccia che parlava da sé: «Non avevo scelta!».

«Sì, certo che lo voglio sapere!», gridai, di nuovo rossa di gelosia, e fu così che scoprii che la famosa ex di Nick era niente popò di meno che Miley Cyrus, attrice per la Disney nei panni di Hannah Montana e cantante. Ecco dove l’avevo già vista!

«Sono stati insieme due anni, più o meno», aveva ripreso a raccontare Joe. «E quando si sono lasciati sono stati così male tutti e due… pensa che si sono scritti persino delle canzoni! Ma adesso è tutto passato, sono ottimi amici, e credo che sia meglio non andare oltre, o il mio fratellino potrebbe piangere!».
Joe era scappato via da camera sua, capendo di essere andato un po’ troppo oltre nelle spiegazioni, e ci aveva lasciati soli.

L’imbarazzo e la tensione che aleggiavano nell’aria si potevano tagliare a fette e ci avvolgevano come una pesante coperta nella quale ci eravamo incastrati.
Io per prima mi ero mossa e mi ero lasciata cadere seduta sul letto alle mie spalle, con le mani sul viso che andava in fiamme.

«E adesso che cosa ti prende?», mi aveva chiesto in tono dolce Nick, sedendosi al mio fianco, una mano posata sulla mia nuca, che mi accarezzava i capelli.

«Mi dispiace tanto», avevo mugugnato, senza accennare a scoprirmi il viso. «Non volevo farti soffrire facendoti ricordare… Non so perché mi sono comportata così, io non sono mai stata gelosa… solo che…».

Nick mi aveva preso le mani nelle sue e mi aveva guardato in viso, trovandolo rosso come un peperone. Mi aveva sorriso e mi aveva posato un bacio sulle labbra.
«Non ti preoccupare, quella storia è stata molto importante, lo ammetto, ma ormai è andata, fa parte del passato. Tu sei il mio presente e il mio futuro, non c’è niente di più importante per me».

Ecco, lo odiavo quando faceva così, perché mi diceva tante di quelle cose dolci che mi scioglievano come un cubetto di ghiaccio al sole e io non sapevo affatto come rispondere.
Ciononostante, avevo replicato con poca voce: «Ti amo, Nick».

Mi aveva stretto nelle braccia e mi aveva cullata per un po’. «Anche io, tanto. Ma promettimi di non fare più queste scenate, prima con il portafoto in mano mi hai fatto davvero paura, credevo che mi volessi colpire!».

Tutto alla fine si era risolto con una risata, per fortuna, e dopo sua madre venne a chiamarci, dicendoci che era pronta la cena.

Avevo pensato che mi sarei sentita in imbarazzo a mangiare con la sua famiglia, invece i suoi genitori mi fecero sentire subito a mio agio e Joe fu un vero mago a riempire i vuoti di silenzio che ogni tanto si creavano, raccontando le cose più assurde che gli erano capitate nell’altra dimensione e, come al solito, prendendo in giro me e Nick, raccontando nei particolari il modo in cui ci eravamo conosciuti e le varie fasi del nostro innamoramento.
Mentalmente, mi ero appuntata che avrei dovuto picchiarlo appena ne avessi avuta la possibilità.

Quando finimmo di cenare, i genitori dei Jonas Brothers mi chiesero se volevo restare a dormire lì, perché era già tardi e prendere il treno per tornare a casa era pericoloso, ma io rifiutai gentilmente, dicendo che mi avevano già ospitato abbastanza.

«Un modo per tornare a casa lo troverò», dissi e gli feci l’occhiolino.

Per un momento i due non capirono, poi sua madre si ricordò del bellissimo tuffo che avevo fatto nella loro piscina quando ero scomparsa e ricomparsa, e scoppiò a ridere.

«Tesoro, scusami, ma mi ero completamente dimenticata di questo tuo… potere! Sei una ragazza così carina e semplice…».

Chinai leggermente il capo. «La ringrazio molto, è bello sentirmi dire che sono normale».

«Va bene, allora… buon viaggio», mi disse, abbracciandomi. «Spero di rivederti presto, perché con tutti gli impegni che i nostri piccoli avranno dopo che la notizia del loro rientro sulla scena musicale si diffonderà non penso che avranno molto tempo libero, ma ti prometto che Nicky te lo controllerò io!».

Accennai un mezzo sorriso, tra l’impacciato e il nervoso, e mi congedai con la valigia che avevo portato con me dall’altra dimensione.
Nick mi seguì a ruota per salutarmi meglio, con un  po’ di privacy, e mi guardò mentre mi sedevo sul dondolo in veranda, pensierosa e con un’ombra di tristezza negli occhi.

Si sedette al mio fianco e non fece domande. Con le dita della mano intrecciate alle mie sopra il suo ginocchio, aspettò pazientemente che io parlassi.

«Più di una volta mi sono chiesta come sarebbe stato, quando saremmo tornati in questa dimensione. Mi chiedevo se sarebbe stato possibile continuare qualcosa che era iniziato in un mondo parallelo e quasi surreale, se anche nella realtà, soprattutto la tua realtà, saremmo riusciti a stare ancora insieme e… ho la maledetta paura che qualcosa fra di noi cambi. Insomma, tu hai la tua vita, la tua carriera musicale a cui pensare, e hai sentito cos’ha detto tua madre… Quando riprenderete a suonare in giro per il mondo non avrete più tempo libero, noi ci vedremo poco e…».

Nick mi prese il viso fra le mani, fondendo i nostri sguardi. «Ary, non hai nulla di cui temere. Noi ce la faremo. Ci siamo sempre riusciti in un modo o nell’altro, abbiamo superato difficoltà ben peggiori di quelle che ci attendono, perché non dovremmo farcela?».

«Io… io non lo so, ho paura di perderti…».

«Non mi perderai mai, ti amo troppo per poter lasciarti andare via».
Lo guardai negli occhi e a quelle parole parte di quella stupida paura svanì, liberandomi da un peso sul petto.
«Ti amo, Ary, e non c’è nulla di più forte di ciò che mi lega a te».

Sospirai sollevata e gli gettai le braccia al collo, stringendolo forte a me. Lui ridacchiò e mi posò un bacio sulla tempia e uno sulla guancia, prima di cercare le mie labbra.

«Ci sentiamo e ci vedremo presto», sussurrò.

«Okay. Buona notte, Nicky».

Roteò gli occhi verso il cielo, sentendo il soprannome con il quale avevo iniziato a chiamarlo pure io a mo’ di presa in giro, ma poi sorrise e disse anche lui: «Buona notte».

Posai una mano sulla valigia al mio fianco e in pochi attimi sparii, lasciandolo seduto nella veranda di casa sua.


***

Nick alzò il viso per guardare la luna e le stelle e finalmente si disse che era tornato a casa, ma ciò non lo rendeva felice del tutto: sentiva che qualcosa, o meglio, qualcuno gli mancava, senza il quale non avrebbe mai potuto sentirsi a casa pienamente.
Così si aggrappò alle stesse parole che le aveva detto poco prima per rassicurarla e pregò perché lei non lo abbandonasse mai.

 

***

 

Ricomparii in camera mia, dove caddi sul letto, e la valigia, invece, produsse un tonfo sordo cadendo e rotolando sul pavimento.

Mi tirai su seduta sul letto e mi portai le dita sulle labbra, sentendo ancora il sapore di quelle di Nick, e sorrisi.
Dopo quello che mi aveva detto, il mio cuore si era rasserenato ed ero certa che in un modo o nell’altra ce l’avremmo fatta, avevamo dimostrato più volte che il nostro amore era più forte di qualsiasi difficoltà e inoltre io lo amavo troppo per permettere che qualcosa o qualcuno ci separasse.

Scesi dal letto di corsa, ricordandomi della mia famiglia, e mi lanciai a capofitto giù dalle scale, incontrando alla fine della rampa mio fratello che probabilmente si era insospettito sentendo quel tonfo.

«Sei tornata!», esclamò e mi si gettò fra le braccia, facendomi barcollare. Poi mi trascinò in salotto, dove trovai mia madre, mio padre e persino Alessandra, che fu la seconda a saltarmi in braccio.

Risi, felice di rivederli, ma qualcosa mi fece rimanere con l’amaro in bocca. Per la mia completa felicità avevo bisogno di altre persone e mi trovai a ridere facendo quella considerazione, perché non avrei mai immaginato di dover ammettere che oltre che di Nick necessitavo anche di Kevin e soprattutto di Joe!, colui che avevo sempre detestato ma che alla fine si era rivelato uno dei miei migliori amici.
Solo allora la mia famiglia sarebbe stata completa. 

   
 
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