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Autore: TheOnlyWay    04/02/2012    5 recensioni
Che situazione assurda. Non ci posso credere che io, Morgan Anderson, vent’anni, sia costretta a fare da baby-sitter a un’accozzaglia di cinque ragazzine di tredici anni, tra le quali ho il dispiacere di annoverare anche mia sorella Ellie. Io, quando avevo tredici anni, non mi sarei mai invaghita di qualcuno che ai miei occhi sembrava tanto vecchio.
Ellie invece sì, e come lei tutte le duecento persone assiepate nello studio. L’attore in questione, se ve lo state chiedendo, è proprio lui. Sì, lui: Ben Barnes. Non lo nego, è bello, però mi sembra davvero assurdo che qui dentro non ci sia nessuno in grado di mantenere un po’ di contegno.
Vi stupirà saperlo, ma Ben Barnes risulta nella categoria degli esseri umani, non delle divinità.
Spero davvero che vi piaccia! Con affetto, TheOnlyWay.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buon pomeriggio a tutte ^^ 
Finalmente sono riuscita a completare il secondo capitolo, spero che vi piaccia. 
Se vi và, fatemi sapere cosa ne pensate, tanto per capire se sono sulla strada giusta o se sta uscendo una perfetta scemata! Cosa molto probabile. 
Quindi, passo a ringraziare Eruanne e CinderNella, che hanno commentato lo scorso capitolo. Spero che questo non vi deluda!
Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le seguite e le ricordata! E, naturalmente, anche a chi legge soltanto. 

Con affetto, 

TheOnlyWay

 

 

 

II.

 

Perfetto, ed ora che faccio? Sto rimuginando da due giorni, sempre sulla stessa cosa. Sapete quant’è stancante pensare per circa 48 ore ad un unico pensiero? Be’, il mio cervello, praticamente, è in declino. Ed è un guaio, perché senza non so proprio come fare.

Non ho detto a nessuno di avere il numero di Ben Barnes, nemmeno a Grace, la mia migliore amica. So già cosa mi direbbe, nel caso lo venisse a sapere. Il vero problema, in effetti, è che non sono tanto sicura di volerlo sentire.

Sono passati due giorni, da quando ho letto il biglietto: e se fosse uno scherzo di cattivo gusto? Insomma, continuo a ritenere piuttosto improbabile che Ben Barnes – non so se ci capiamo – mi abbia lasciato il suo numero di telefono.

La verità? Il problema non è tanto che lui sia Ben Barnes. Cioè, lo è, ma non è quello a preoccuparmi. Ciò che mi turba, in realtà, è che lui ha trent’anni ed è un uomo. Io, invece, sono una ragazzina alle prime esperienze, se vogliamo mettere le nostre situazioni a confronto.

Però – si, c’è anche un però – mi ha piacevolmente colpito e rivederlo non sarebbe una gran tragedia, no?

Mi butto sul letto, un po’ esasperata. Che fare?

Le alternative sono tre: non lo chiamo, lo chiamo, gli mando un messaggio.

Dopo un’altra ora di intenso ragionamento, decido: gli mando un messaggio, perché non avrei il coraggio di parlarci al telefono.

Lo so, lo so, è una cosa da bambini di tre anni, ma sono fatta così. L’idea di uscire con un uomo mi mette in agitazione, perché l’ultima esperienza che ho avuto, credo potrebbe bastarmi per tutta la vita.

E va bene, ora glielo mando.

Ma cosa gli scrivo? Cioè, non posso esordire con un “Ehilà, Ben. Ti ricordi di me? Io ti ho dato del pedofilo e tu mi hai lascito il tuo numero. Quando usciamo?”, non so se mi spiego.

Rifletti, Morgan, rifletti.

Afferro il telefono, e inizio a digitare un abbozzo di messaggio, ma dopo le prime tre parole – ciao, sono Morgan – cancello e mi arrendo. Che poi, in effetti, se lo chiamassi sarebbe tutto più semplice. No, no, non ce la faccio.

Trascorro il resto della giornata parecchio nervosa e, dopo aver litigato con Ellie e con Brian – il fratello maggiore – me ne vado a letto.

Non è possibile che l’idea di Ben mi mandi così in agitazione, dico davvero. Così, decido definitivamente: domani mattina gli mando il messaggio e fine della storia. Dopotutto, non è detto che voglia ancora uscire con me. Magari il biglietto era solo una cortesia. No?

È mattino, adesso, ed io sono a letto, con il telefono stretto nella mano destra.

Alla fine, ieri sera, ho trovato il coraggio di dire tutto quanto a Grace. Come avevo previsto la sua risposta è stata piuttosto ovvia: “Se non lo chiami”, ha detto “ti rubo il biglietto e faccio finta di essere te. Vedrai che ti combino”. L’ho trovata molto convincente, quindi mi sono decisa.

Digito frettolosamente, prima che la paranoia torni. In meno di un minuto, il messaggio è inviato. Tiro un respiro profondo, ora più sollevata. Resta solo da vedere se lui risponderà, cosa di cui un po’ dubito.

Una volta tolto il pensiero, è stato più semplice trascorrere la giornata in maniera normale. Non penso neanche al fatto che Ben non ha risposto, perché me lo immaginavo, che sarebbe andata così.

Quando il telefono inizia a suonare, ormai sono le cinque di pomeriggio ed io sono stanca morta dopo un pomeriggio trascorso a riordinare la casa. Mamma e papà non ci sono, sono fuori città per un paio di giorni, e sia Brian che Ellie non sono in grado di combinare niente, all’infuori che mettere casino dappertutto.

«Pronto?».

«Morgan? Sono Ben». A momenti mi strozzo con la saliva, mentre ricollego quella voce tranquilla e calda al viso affascinante dell’attore.

«Ben… ciao», farfuglio, un po’ imbarazzata. Ma com’è che qualche giorno fa ero tanto tranquilla?

«Sai, pensavo che non mi avresti chiamato», dice, tranquillo.

«Ci ho pensato, in effetti», rispondo, sincera. Perché mentire? L’idea di non chiamarlo mi ha assillato parecchie volte.

«Davvero?», a giudicare dal suo tono sembra parecchio stupito. Insomma, lo capisco, quale ragazza gli direbbe mai di no?

«Si, ma non ti offendere», mormoro, un po’ contrita.

«Nessun offesa». Rimaniamo in silenzio per qualche secondo, poi Ben sospira e la sua voce mi avvolge di nuovo, pacata.

«Se non ti và di uscire, non sentirti obbligata», mi tranquillizza.

«No, mi và». E dico davvero, voglio uscire con lui.

«Che ne dici di stasera?», domanda. Do’ un’occhiata alla sveglia sul comodino. Sono già le cinque.

«Per che ora?».

«Va bene per le otto?».

«Si, per le otto sarebbe perfetto. Posso chiederti una cosa?», un dubbio improvvisamente mi assale.

«Certo».

«Dove andiamo?».

«Non ti preoccupare, penso a tutto io. Ti passo a prendere alle otto, allora». Dopo essersi segnato l’indirizzo, Ben mi saluta e riattacca. Resto ancora un po’ intontita, prima di riscuotermi e dirigermi verso l’armadio alla ricerca di qualcosa di decente da mettermi.

C’è una cosa importante, che dovete sapere: amo i tacchi alti. Ma non ci so camminare per niente, per cui mi limito ad osservarli nelle vetrine e a lasciarli lì, dove non sono nocivi per nessuno.

Inutile dire che l’unico paio di scarpe col tacco che io abbia mai avuto, sono decedute in poco tempo. I tacchi barbaramente spezzati ce li ho ancora conservati nel cassetto, in ricordo della mia incapacità di camminare sopraelevata di qualche centimetro.

Tutto questo per dire che non ho la minima idea di cosa indossare. E se chiamassi Ben e glielo spiegassi? Insomma, potremmo andare da McDonald, no? Lì andrebbero bene le scarpe da tennis. Mi sa tanto che lo faccio.

Sto per cercare il numero nella rubrica, quando qualcuno inizia a bussare insistentemente alla porta. Mollo il telefono sul letto e mi precipito verso la porta. Chiunque sia, ha una gran fretta.

Be’, mi sarei aspettata chiunque, davvero, tranne Grace. Che in questo lunedì mattina dovrebbe essere all’università. Cosa ci fa a casa?

«Scordati il McDonald», mi ammonisce, rifilandomi un sacchetto. Lo apro, curiosa. Quando ne tiro fuori un paio di stivali neri con un tacco da dodici centimetri – dodici! – vorrei davvero buttarmi giù dal balcone.

«Ma perché?», protesto. E non so se riferirmi alle scarpe o alla negazione del caro, vecchio Mc. Dove sarebbe il problema? Gli attori non mangiano patatine fritte?

Seguo Grace nella mia stanza e, quando inizia a frugare nel guardaroba, inizio seriamente a preoccuparmi. Perché quando Grace si mette in testa qualcosa, è la fine. Con mio enorme sollievo afferra un paio di pantacollant neri e una lunga camicia bianca, abbinata ad una cintura di cuoio intrecciato, da mettere sotto il seno.

Poi si fionda in bagno, verso il mobile dove tengo i trucchi, gli orecchini, e tutti quegli accessori che ho comprato ma che non ho mai messo. Colgo al volo l’occasione per infilare un paio di ballerine nella borsa. Me le cambierò appena lei uscirà di casa.

Sono le sette ed io sono quasi pronta, a parere di Grace. Volete la verità? Ho un sonno allucinante. Questa esaurita mi ha sballottata tutto il pomeriggio, nemmeno fossimo nel backstage di un importante sfilata di moda. E, se devo proprio ammetterlo, il risultato è piuttosto soddisfacente.

Convinco Grace a lasciarmi truccare da sola: non sopporto il trucco pesante, così mi limito ad un po’ di cipria, fard, una leggera linea di eye-liner e mascara.

Per i capelli, invece, non posso fare altro se non concederle il piacere di acconciarli in morbidi boccoli. Le ho fatto notare, in ogni caso, che nel giro di dieci minuti saranno di nuovo lisci, ma lei non demorde. Così, come ho fatto con le ballerine, imbosco anche un elastico bianco.

Lo so, lo so, io e l’eleganza non andiamo di pari passo, ma non è colpa mia! Lo giuro. È che Morgan è il nome di un pirata, non di una principessa. Ed io, di conseguenza, sono parecchio lontana dall’esserlo. Anche perché essere un pirata è molto più divertente.

Alle otto sono pronta. Grace si affaccia alla finestra ogni tredici secondi, con l’aria di una vecchia impicciona che osserva tutti i passanti, per commentare quello vestito peggio. Io, invece, sono sdraiata sul divano e sto sonnecchiando.

Dovrei essere nervosa, ma non lo sono. Non più di tanto, in realtà. E c’è un motivo ben preciso: credo che alla fine di questa serata Ben non vorrà più vedermi.

Non fraintendetemi, non sono pessimista. È che succede sempre così.

L’ultima volta che sono uscita con un ragazzo, lui non si è fatto più sentire. Anzi, no, mi ha mandato un messaggio, nel quale affermava che lui preferiva le ragazze un po’ più sofisticate e soprattutto più aperte.

Lasciamo perdere quello che gli ho sofisticatamente risposto, fatto sta che un appuntamento che a me era sembrato piuttosto tranquillo, si era rivelato un vero fiasco. Per questo non nutro alcuna aspettativa.

Se Rick, il sofisticato, voleva qualcuno più serio di me, come avrei potuto andar bene per Ben?

L’urlo stridulo di Grace mi riscuote dai miei pensieri. Sicuramente Ben è arrivato.

«È così figo», mormora. Le getto un’occhiata un tantino scettica, perché quando la sento parlare così è tanto simile ad Ellie. E, come con Ellie, mi viene voglia di strozzarla.

«Bello come un Dio», sussurro, portandomi le mani sul cuore. Grace si accorge che la sto palesemente prendendo per il culo e mi scocca un’occhiataccia.

«Muoviti, và», dice, allungandomi il cappotto nero. Lo indosso, poi, dopo aver afferrato la borsa, esco di casa. Inutile dire che nel scendere i tre gradini che conducono al vialetto rischio di ammazzarmi un numero imprecisato di volte.

Sentendomi come una sopravvissuta, raggiungo Ben, che mi aspetta appoggiato alla macchina con le braccia incrociate. E, proprio come Ellie e Grace, non posso fare a meno di pensarlo: “Sei così figo”. Sorrido tra me e me, prima di avvicinarmi. Ora si che mi sento in imbarazzo, perché non so come salutarlo. Un bacio sulla guancia? Una stretta di mano? Un abbraccio?

Per fortuna ci pensa lui a togliermi dall’impiccio, lasciandomi un bacio sulla guancia.

«Scusa se ci ho messo un po’ a scendere». Con aria confusa – no, non confusa, scettica – Ben osserva i tre gradini. So cosa sta pensando e non posso dargli torto. Ci vogliono dieci secondi a percorrere i gradini e il vialetto.

«Non so camminare sui tacchi», spiego. Lui ridacchia, poi mi apre la portiera. Ed ecco un punto da aggiungere a suo favore. Ben Barnes è molto galante. Ma che ci faccio io con lui? No, davvero. Io non ho niente di elegante.

Si accomoda al posto del guidatore e mette in moto e quando svoltiamo l’angolo, frugo nella borsa ed estraggo le ballerine e l’elastico.

«Ah-Ah!», esclamo, felice come una pasqua. Sotto lo sguardo allibito di Ben sfilo gli stivali e infilo le ballerine, poi raccolgo i capelli in uno chignon disordinato e sospiro soddisfatta. Quanto scommettete che ora Ben torna indietro e mi riporta a casa?

È questo, il mio problema. Tendo a dimenticare che non tutti comprendono e approvano il mio comportamento. D’altra parte, però, non vedo perché dovrei fingere di essere qualcuno che non sono solo per piacere ad un ragazzo. Non mi interessa.

«E allora perché li hai messi?», domanda, confuso.

«Perché la mia migliore amica pensava che fossero adatti. E non potevo dirle di no», spiego, alzando le spalle. Ben sorride, tranquillo. Non sembra nemmeno un po’ stranito dal mio comportamento e questo mi fa piacere.

«Sai, ho pensato molto a dove potevamo andare. Di solito le ragazze amano i ristoranti raffinati, dove possono sfoggiare tacchi alti», accenna un sorriso divertito, «vestiti eleganti e acconciature elaborate. Ma tu… tu sei tutta un’altra storia», afferma.

Lo bacio, io vi giuro che lo bacio. Mi guarda un attimo, prima di voltare a destra ed accostare. Mi guardo intorno, curiosa e, quando riconosco l’insegna gialla del McDonald capisco che io, Ben Barnes, lo sposerò.

«Andiamo al McDonald?», domando, allibita. Lui annuisce, prima di scendere dalla macchina e fare il giro per aprirmi la portiera. Scendo, sentendomi incredibilmente a mio agio senza quei maledetti trampoli e gli sorrido, come una bambina di fronte al parco giochi.

«Credo di amarti», gli dico, come se niente fosse. Lui ride, prima di porgermi il braccio, in un gesto tanto galante che centra poco con il fatto che stiamo per cenare in un fast-food.

Quando entriamo nel ristorante (si, lo so, non è proprio da considerarsi tale), tutti gli sguardi si catalizzano su di noi. E quando dico tutti, intendo proprio tutti. Compresi i camerieri. Ben, proprio come un comune mortale – si, esatto, avete capito bene – si mette in coda. Lo seguo e mentre aspettiamo il nostro turno parliamo un po’ del più e del meno.

«E quindi hai un fratello maggiore?», mi chiede, mentre camminiamo verso un tavolo libero. Ben regge il vassoio, sul quale stanno in bilico tutte le schifezze possibili immaginabili. L’ho già detto che adoro il McDonald e Ben Barnes? Se non l’avessi fatto, rimedio subito: li adoro.

«Si. Si chiama Brian ed è uno scemo, ma gli voglio davvero bene», ammetto, afferrando una patatina dal vassoio. «Sai, insegna educazione fisica in una scuola elementare vicino Wimbledon. Mi racconta di quelle cose che…», e parto a raccontare di Brian, dei suoi bambini che lui adora alla follia e di quegli episodi esilaranti che gli sono capitati.

E Ben mi ascolta, partecipe ed interessato come mai nessun’altro è stato nei miei confronti. Ride, divertito, quando passo a spiegargli della mia ultima caduta.

«Sei una piccola calamità naturale, quindi», riassume, divertito. Annuisco, dando un morso alla crocchetta di pollo.

«Si, ma non è colpa mia. Mi hanno cresciuta come un pirata», affermo, tranquilla. Non è una cosa che dico spesso, quando sono in compagnia di un ragazzo, perché non mi è mai capitato che un ragazzo si interessasse tanto a me.

Lui ride e i suoi occhi scuri luccicano di divertimento e partecipazione.

«Qual è il tuo film preferito?», mi chiede.

Sapete, non penso nemmeno per un momento al fatto che lui sia un attore e che io, magari, per compiacerlo, potrei rispondere, che ne so, “Dorian Gray”, o “Le Cronache di Narnia”.

«Pirati dei Caraibi, ovviamente», esclamo, come se fosse scontato.

«Jack Sparrow?», domanda, col tono di uno che ha già capito tutto. Gli sorrido, e sono sicura che i miei occhi brillino. Perché se c’è qualcosa che amo più del McDonald, quello è Jack Sparrow.

«Jack Sparrow», confermo, quindi.

Ben ride e, per mia fortuna, non sembra per niente offeso. «Hai mai visto uno dei film in cui ho recitato?», domanda, curioso. Annuisco, tranquilla, afferrando un’altra patatina.

«Si, certo. Anche se Dorian Gray mi ha fatto un po’ impressione. Preferisco le Cronache di Narnia», spiego. Be’, che volete? A me Dorian Gray ha fatto senso in certi punti. Naturalmente non quando c’era Ben.

Ben annuisce, serio, ma non offeso. Non sembra mai prendersela per i commenti sfacciati che gli rivolgo e non capisco perché. Poi lo guardo e capisco: lui non è un ragazzino.

Dopo aver offerto la cena – che ho apprezzato in una maniera che non credo possiate capire –, Ben mi accompagna a casa. In macchina, a differenza di quanto è successo per il resto della serata, stiamo in silenzio.

Non è un silenzio pesante, però, almeno non per me, che ho la tendenza a restare in silenzio quando mi trovo particolarmente a mio agio. Lo so, è strano, però se non avverto il bisogno di parlare, perché dovrei farlo solo per dare aria alla bocca?

Quando scendo dalla macchina, sono palesemente in imbarazzo. La verità? Avrei davvero voglia di baciarlo. Però non vorrei sembrare una di quelle oche con cui lui è abituato ad uscire, perciò decido di ignorare quello che vorrei fare davvero e di comportarmi come una persona seria.

Ben mi si affianca, tranquillo.

«Sono stata bene», gli dico, puntando lo sguardo al pavimento. Be’, che volete? Sono una persona timida, in fondo. Molto in fondo.

«Anche io, Morgan».

«Be’, allora ciao», sorrido, poi mi allontano un po’.

«Al diavolo», lo sento borbottare, prima che la sua mano afferri il mio polso e mi tiri di nuovo verso di lui. «Poi prendimi pure a schiaffi», mormora, prima di chinarsi e baciarmi.

Prenderti a schiaffi?, penso, mentre ricambio il bacio, non ci penso neanche!   

 

 

   
 
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