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Autore: GreedFan    07/02/2012    5 recensioni
Il virus Idra non è una semplice malattia.
E' un vero e proprio incubo.
L'infezione dilaga nell'isola di Manhattan, trasformando i contagiati in aberrazioni assetate di sangue, e, mentre le autorità sanitarie di tutto il mondo si arrovellano per trovare una soluzione, una sola figura si erge al di sopra di tanta degradazione.
Zeus.
Un infetto più potente degli altri o un semplice scherzo della natura? La società "Eden" non può di certo immaginare quali saranno le conseguenze del suo gesto, quando tenterà di creare un'arma biologica in grado di contrastarlo.
E Sasuke Uchiha, l'arma biologica in questione, non ha la minima idea dell'incubo in cui si sta gettando.
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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030 – Stuck in your Wonderland


Sasuke aveva otto anni.

Non che sapesse cosa significava quel dato. Per lui era solo una cifra, un'insieme di caratteri neri.

Non conosceva il significato della parola "compleanno", né ne aveva mai festeggiato uno; i giorni della sua vita erano scivolati via l'uno dopo l'atro, tutti perfettamente uguali, tanto che il tempo veniva scandito solo dai cambiamenti del corpo.

Dacché riuscisse a ricordare, nella sua memoria c'erano solo pareti bianche, camici bianchi, letti bianchi. Il suo spazio era delimitato da alte barriere di vetro blindato, e ovunque guardasse, finché non si spegnevano le lampade elettriche del soffitto e non aveva il permesso di dormire, c'erano occhi puntati su di lui.

Da bambino, non poteva ancora capire. Non aveva mai visto l'esterno, il mondo, né si chiedeva se ci fosse qualcosa oltre i laboratori; ciò dipendeva in primis dal fatto che lo tenevano narcotizzato per la maggior parte del tempo, e la miscela di droghe che gli scorreva per il corpo lo manteneva nella quasi totale incapacità di articolare pensieri logici. E poi, anche quando si sentiva più sveglio, era troppo assuefatto a quella vita vuota e, tuttavia, certa per pensare di potersene slegare.

Gli strumenti, le stesse parole per rimuginare su una qualsiasi evasione gli erano preclusi.

E poi, lì con lui c'era Itachi.

Non gli permettevano di parlarci, come d'altra parte con nessuno degli altri bambini, però li tenevano in due stanzoni attigui, comunicanti. Separati dal vetro blindato.

Ogni tanto, nell'intervallo tra un test e un altro, oppure durante i pasti - il cibo veniva introdotto nelle stanze tramite delle finestrelle di plastica a chiusura ermetica che si trovavano sul fondo delle porte, ed era servito su grandi vassoi di cartone ruvido - si avvicinava alla parete trasparente e picchiettava con le nocche, sorridendogli. Sasuke si sedeva dall'altra parte, speculare, a volte persino dimentico della fame, e sorrideva a quel viso così bello, a quegli occhi scuri e quella pelle di un pallore incredibilmente luminoso.

L'espressione dolce di Itachi era diversa da quella di qualsiasi altra persona con cui Sasuke interagiva. Quando lo guardava, gli occhi gli s'incurvavano lievemente verso l'alto, così come gli angoli della bocca; era una smorfia appena accennata, eppure, in fondo alle iridi nere, il piccolo Uchiha scorgeva come una scintilla, una luce che gli scaldava il petto e gli faceva venire voglia di torcere le labbra allo stesso modo. Per nessun motivo si sarebbe allontanato da Itachi, e guardarlo attraverso il vetro gli pareva la cosa più bella del mondo.

Bastava per distrarlo quando gli uomini con le tute bianche (grandi, quadrati, gommosi come brutte creature uscite da un incubo) entravano nella sua stanza e lo obbligavano a stendersi sul letto, a farsi portare via il sangue. O quando, stringendo i denti per il dolore - a volte, esausto, rompendo in singhiozzi, cercava di sopportare il dolore atroce che certe punture scatenavano nel suo corpo.

Si rannicchiava nel letto, allora, i pugni piccoli e stretti con tutta la forza che aveva, combattendo contro la sensazione di gelo che gli montava dentro perché sapeva che, se si fosse arreso, il giorno dopo, quando le lampade fossero state riaccese, non avrebbe potuto vedere il sorriso di Itachi.

Spesso piangeva. Fortunatamente, nella sua ottica di bambino, ciò che accadeva a lui era comune a tutto il mondo: quelle disgrazie, quel continuo star male non potevano essere per lui solo. Sicuramente, pensava, sicuramente c'erano altre mille stanze uguali alla sua e altre mille persone che vivevano nello stesso identico modo, e quindi non era giusto frignare. Doveva essere forte.

Glielo diceva anche la dottoressa che, ogni giorno, veniva a fare i controlli.

Lei non indossava una tuta di gomma che le nascondeva il viso, ma un camicie bianco e una cuffia candida. Era l'unica donna che conosceva, e si prendeva cura di lui da sempre.

Si faceva chiamare Mary, e aveva una voce bella e molto gentile. Gli aveva insegnato a leggere, a disegnare (Sasuke amava disegnare Itachi, e il suo viso era l'unica cosa che gli pareva degna di essere messa su carta) e tutti i giorni gli misurava la febbre, la pressione e tutta una serie di altre cose che l'Uchiha non riusciva a capire bene.

A volte gli portava anche delle cose buone da mangiare, dei dolci.

Andava bene, per lui.

Andava tutto bene, fino al giorno in cui non conobbe Zeus.


***


Gli sembrò che l'avessero svegliato prima del solito.

Non poteva saperlo, naturalmente - non c'erano orologi nella sua stanza, ma il sonno che gli chiudeva le palpebre era un segnale più che evidente. In due, vestiti delle solite tute, lo avevano spinto malamente giù dal letto, facendolo cadere a terra, per poi allontanarsi dal suo corpo come se scottasse.

Quando aveva sollevato la testa, di fronte a sé aveva visto una persona nuova.

Un uomo alto e magro, con le spalle non troppo larghe e gli occhi e i capelli grigi. Rispetto ai tipi in tuta sembrava molto più piccolo, quasi invisibile; portava anche lui un camice bianco, e un cartellino su cui Sasuke, a fatica, compitò le parole "Kabuto Yakushi".

L'uomo gli porse la mano.

«Ciao, Sasuke».

«C-ciao». La parola gli uscì con un saltello strano. Non gli era mai capitato prima. Vagamente impaurito, afferrò la mano di Kabuto e lasciò che quello lo tirasse in piedi con delicatezza.

«Ti va di fare una passeggiata, Sasuke?»

«Passeggiata?» Inclinò la testa di lato, ripetendo le sillabe senza capire. Kabuto sorrise, ma non bene come Itachi: sembrava quasi che si stesse sforzando.

«Già, una passeggiata. Usciamo di qui e vediamo un posto nuovo, che ne dici?»

L'espressione sul volto del bambino si fece dubbiosa, quasi contrariata. Andare fuori dalla stanza?

Non l'aveva mai fatto, e non era tanto sicuro di voler conoscere la realtà cupa e buia che si celava oltre la porta bianca che per tanto tempo l'aveva protetto. Per lui, la stanza era tutto: tutto quello che poteva e non poteva fare si risolveva all'interno di quelle quattro pareti, e non c'era nient'altro che gli servisse o gli mancasse al punto da spingerlo ad acconsentire.

Scosse la testa in un cenno di diniego.

Kabuto parve stringere la presa sul suo polso.

«Oh, Sasuke, non è il caso di rifiutare... dopo tutto non sai cosa c'è là fuori, giusto?»

Negò di nuovo.

«Ecco, appunto. E non sei curioso di scoprirlo? Andiamo, forza...»

Quando vide che, comunque, il bambino non sembrava intenzionato a seguirlo, il contegno di Kabuto ambiò radicalmente. Il sorriso scomparve, contrasse la bocca in una linea dura e dritta, dalla piega scontenta (Sasuke, a quella vista, tentò inconsciamente di farsi più piccolo) e strattonò la mano del ragazzino con impazienza, costringendolo a muovere un paio di passi in avanti.

«Mi dispiace, ma non ho tempo di giocare con te».

Quella frase gli sarebbe rimasta impressa nella memoria per molto tempo.

Lo trascinò, sordo alle sue suppliche, fino alla porta. Poi la spalancò.

Oltre la soglia, Sasuke vide un corridoio nero rischiarato da alcune piccole lampade azzurrine sul soffitto, che sembravano scomparire, in lontananza, nell'oscurità sempre più fitta. Era come la gola profonda di un essere mostruoso, una gigantesca creatura che voleva inghiottirlo. L'Uchiha si appoggiò allo stipite con una mano, fece leva con tutta la forza che aveva e, buttandosi all'indietro, per poco non riuscì a sgusciare via, tra le gambe del dottore grigio. Il cuore gli batteva forte nel petto, colmo di paura, e, quando Kabuto lo sollevò - apparentemente senza sforzo - cominciò a scalciare e a piangere, terrorizzato, implorando lui e i due uomini con la tuta di lasciarlo in pace.

«Su, Sasuke, non c'è nulla da temere...»

«Non voglio!» Gridò, mordendo con forza il braccio del medico. Quello ritirò bruscamente la mano e lasciò che cadesse a terra, poi controllò con aria preoccupata l'area offesa; sospirò, realizzando che non c'erano tagli, e fece un cenno stizzito ai due uomini di gomma.

Uno di loro afferrò Sasuke per le gambe e se lo caricò su una spalla, rude.

Il piccolo Uchiha gli avrebbe riempito volentieri la schiena di pugni, ma, una volta che furono entrati nel corridoio buio, si portò istintivamente entrambe le mani al viso, sugli occhi, allungando le dita fino a tappare anche le orecchie. Tremava e singhiozzava, la paura di quell'oscurità tremenda a scuotergli il corpo; si arrischiò ad aprire leggermente le dita solo quando, dopo un tempo che gli parve infinito, la carne delle mani si illuminò di rosso, rischiarata da una forte luce.

Si trovavano davanti ad una nuova porta bianca, spalancata.

Prima di essa, a destra, stavano altri due uomini di gomma e una signorina con la pelle lattescente e gli occhi chiarissimi, quasi trasparenti. I capelli, di un nero simile a quello di Sasuke, avevano però riflessi violacei, e le ricadevano fin quasi ai fianchi, sparpagliandosi sul camicie aperto.

«Lei è Hinata Hyuga, Sasuke. Lei è la persona che ti fa fare tutte quelle punture che non ti piacciono affatto».

E questo come faceva a saperlo? Come faceva a sapere delle punture, se lui non glielo aveva mai detto? Doveva avergliene parlato la signorina Mary, eppure anche lei non lo aveva visto mai piangere. Itachi, forse? No, non poteva credere che l'unica persona a cui voleva bene avesse fatto la spia in quel modo.

E poi, quella ragazza sembrava così buona, e lo guardava con degli occhi così tristi...

Prima che potesse chiedere, fu spinto oltre la porta.

Lo investì una luce fortissima, che lo costrinse a strizzare le palpebre per qualche secondo prima di poter riaprire gli occhi. Quando lo fece, scoprì di essere in uno stanzone enorme, dieci volte più grande della sua solita camera, con il soffitto altissimo e il pavimento liscio e lucido come uno specchio.

Esattamente a metà dello stanzone correva una riga nera, che lo divideva in due sezioni speculari. Sia a destra che a sinistra la parte alta del muro era fatta di vetro oscurato, e a Sasuke parve di veder baluginare qualcosa oltre quel rivestimento. Rimase in piedi, immobile per qualche secondo, prima che una voce metallica e ronzante - che non si capiva bene da dove provenisse, ma gli mise comunque addosso una certa inquietudine, dicesse:«Uchiha Sasuke, mettiti dietro la linea rossa».

In quel momento il ragazzino si avvide della presenza di una striscia scarlatta, parallela a quella nera, che partiva un metro e mezzo prima della fine della stanza; aguzzando la vista ne vide un'altra, azzurra, collocata nel medesimo modo dall'altra parte della camera.

Trotterellò fino al punto indicato, poi si guardò intorno. Incuriosito.

Magari era un nuovo gioco, pensò. Magari volevano vedere se era bravo a correre, o a eseguire gli ordini che gli davano.

Improvvisamente, udì uno schianto.

Una porta sul fondo della sala si aprì - non l'aveva vista, bianca com'era e perciò mimetizzata perfettamente nel muro, e ne uscì una figuretta bassa ed esitante. Illuminandosi per la felicità, Sasuke riconobbe un bambino pressappoco della sua età: avanzava lentamente, trascinando i piedi sul pavimento, e aveva una zazzera di capelli biondissimi. Sul momento, data la distanza, non riuscì a distinguere il colore degli occhi, ma vide che indossava una sorta di museruola che gli avvolgeva la faccia e il collo, dalla clavicola al ponte del naso. Quel particolare gli mise addosso una certa inquietudine.

«Zeus, dietro la linea blu».

Si chiamava Zeus, quindi? Era un nome che suonava molto diverso dal suo, e non era nemmeno composto da due parti. Come chiamarsi solo Sasuke, o solo Uchiha. D'altronde, il bambino ignorava se anche Itachi avesse due nomi, oppure uno solo; Kabuto e Hinata erano come lui, però.

«Avanzate fino alla linea nera, uno davanti all'altro».

Ecco, per dirla tutta avrebbe preferito evitare di avvicinarsi a quell'altro bambino... però, se l'avesse visto, Itachi avrebbe sicuramente pensato che era un codardo. Preso un bel sospiro, si avvicinò alla linea nera con piccoli passi esitanti.

Non che l'altro avesse più fretta di lui. Avanzava sempre con quel modo di trascinare i piedi e, a mano a mano che si avvicinava, Sasuke fu in grado di distinguere altri particolari della sua figura: teneva la testa ciondoloni sul petto e lasciava che si spostasse a destra e a sinistra mentre camminava, mentre gli occhi - azzurro cupo e scintillante, belli come l'Uchiha non ne aveva mai visti - stavano piantati a terra, spenti. Quando si fermarono, a mezzo metro l'uno dall'altro, e Zeus sollevò lo sguardo, Sasuke rabbrividì, sentendosi scrutato con un'intensità fin troppo forte, difficile da sopportare. Era inquietante, completamente privo di espressione.

Si udì uno sbuffo, un rumore metallico di qualcosa che veniva sganciato, e la museruola - fatta di placche metalliche che scorrevano le une sulle altre per consentire una certa libertà di movimento - si aprì e cadde a terra in una nuvola di vapore freddo. Zeus si passò una mano sulla mascella, muovendola come per masticare... evidentemente, quella cosa doveva dargli molto fastidio. Sasuke se ne dispiacque.

La voce parlò di nuovo. E, stavolta, per dire qualcosa che all'Uchiha non piacque molto.

«Zeus, attacca».

Sasuke non fece in tempo a capire cosa stava succedendo.

Il pugno lo colpì dritto in faccia, cogliendolo in tutta la sua incredulità, e lo fece slittare e scivolare all'indietro sul pavimento per diversi metri. Fu fermato dall'impatto contro la parete di fondo, che gli tolse il fiato.

Cadde carponi, inspirando forzatamente per contrastare l'asfissia improvvisa che lo faceva tossire. Non ci volle molto prima che le lacrime cominciassero a rigargli le guance. Si rannicchiò contro il muro, disperato, gli occhi spalancati verso quell'essere - perché l'aveva capito, Sasuke, che di bambino Zeus aveva soltanto il corpo - che lo scrutava da dietro la riga nera, immobile in attesa di nuovi ordini.

«Lama».

Sasuke gridò. Il braccio di Zeus, in un battito di ciglia, era mutato da quello di un normale ragazzino di otto anni ad una falce nera, alta quasi quanto l'intero corpo e circondata da una massa formicolante di filamenti neri e rossi.

«Attacca».

Non attese il colpo, stavolta. Saltò in piedi e corse via più veloce che poté, verso la porta.

Zeus gli si parò davanti all'improvviso, quasi fosse comparso per magia; menò un fendente con la lama che Sasuke riuscì quasi a schivare - nonostante la velocità, un graffio sottilissimo si aprì sul suo avambraccio, per poi catapultarsi in direzione della maniglia. Con la coda dell'occhio vide che l'altro si era fermato di nuovo, e tentò, nel breve lasso di tempo che aveva, di aprire la porta.

Era chiusa a chiave.

Si girò, il petto che si alzava e si abbassava in brevi ansiti convulsi, cercando con i palmi delle mani la superficie sicura della porta. Percepiva un'oppressione dolorosa nel petto, una paura terribile che gli faceva cedere le gambe, e pregò che quella tortura si fermasse al più presto.

Perché gli stavano facendo una cosa del genere? Che aveva fatto per meritarselo?

Forse sarebbe dovuto andare subito con il medico grigio. Ma no, non era possibile che lo punissero così per una stupidaggine... e dov'era Itachi? Lui avrebbe difeso Itachi, se l'avesse visto in una situazione così.

Poi realizzò che Itachi, molto probabilmente, non sapeva cosa gli stava succedendo.

Torse le sopracciglia e tutto il viso in una smorfia di pianto, rannicchiandosi su se stesso, sperando ardentemente che qualcuno, qualcuno arrivasse ad aiutarlo. Anche la dottoressa con gli occhi chiari, persino il medico grigio. Voleva soltanto che lo portassero via da quel mostro, che non glielo facessero vedere mai più.

«A-aiuto». Mugolò, affondando la testa tra le ginocchia.

Di nuovo, la voce metallica ordinò qualcosa a Zeus. Qualcosa che suonava molto come "frusta".

Prima che l'impatto con un corpo terribilmente duro e acuminato gli facesse vedere le stelle, Sasuke pregò un'ultima volta che Itachi lo vedesse e decidesse di proteggerlo.

Dopo, poté soltanto scappare.

 

***

 

«Non c'è che dire, dottoressa... le iniezioni del suo siero hanno prodotto risultati sorprendenti. E pensare che Ade non era nemmeno tra gli infetti originali. Elizabeth Greene non avrebbe saputo produrre di meglio». Kabuto Yakushi si sistemò meglio sulla propria sedia, al di là del vetro oscurato.

Hinata, mezzo metro dietro di lui, teneva una mano premuta sulla bocca, e osservava ciò che si svolgeva al di là della superficie traslucida con un'espressione colpevole. Si sentiva sporca, lacerata dal rimorso per quello che aveva consapevolmente creato; non credeva che sarebbero state quelle le conseguenze, quando le avevano proposto di partecipare ad un esperimento innovativo sulla mutagenesi. Eppure, lei era colpevole più di tutti, persino più del dottor Yakushi. Aveva trattato quel lavoro con leggerezza, senza mai prendere contatti con il soggetto degli esperimenti, e ora che ne vedeva i risultati si rendeva conto di quanto fossero orribili e sbagliati.

Erano solo bambini.

L'aveva sempre saputo, ma vederli faceva tutt'altro effetto.

Sasuke correva, inconsapevolmente veloce - al punto che, talvolta, le sue mosse sfuggivano alla vista - scappando da quella furia gelida e implacabile che era Zeus. A nessuno degli scienziati era permesso accedere al materiale riguardante nello specifico quella creatura; a poco a poco, nel dipartimento sanitario si era creata una specie di leggenda metropolitana, e cioè che quei fascicoli e quelle cartelle, contrassegnati tutti dal nominativo "[PROTOTYPE]", custodissero un segreto così oscuro che i pochi che erano riusciti a scoprirlo erano stati fatti sparire dalla Gentek stessa.

Hinata si era augurata che non fosse vero, ma osservando quella creatura all'opera cominciava a vedere un fondo di verità in quelle storie. Era comprensibile che si cercasse di tenere nascosto un mostro del genere... un'arma tanto potente avrebbe fatto gola a troppe persone, a troppi Paesi.

Lo stesso Sasuke, benché marcatamente più debole, sarebbe stato una preda appetibile. Il precursore di una razza di supersoldati.

La ragazza scosse la testa. Era troppo.

Troppo per chiunque volesse mantenere la coscienza pulita. Lei non poteva vantare un simile requisito da troppo tempo, ormai.

«N-non è sufficiente?» Mentre poneva quella domanda, Ade incassava un colpo poderoso della frusta e finiva contro il muro, sputando sangue. Ed era un bambino.

Un bambino di otto anni.

«No. Questo incontro viene registrato, sa?, e poi inviato a Madara. Più materiale raccogliamo, meglio è... si ricordi che questi sono soltanto soggetti di studio, dottoressa. Come i campioni sui vetrini. Carne che vive per un breve periodo a favore della scienza e poi si decompone, orrori che solo con rigore e freddezza si possono imbrigliare. Lei vede Zeus e crede che sia un ragazzino, ma provi a scendere nell'arena e sfidarlo. La ucciderebbe, perché questa è la sua natura».

«Ma Ade è...»

«Ade è come lui, soltanto più debole e, per questo, meno consapevole. O pensi, per esempio, a Itachi. Le pare forse un quattordicenne?»

Hinata aveva visto il maggiore degli Uchiha poche volte, di sfuggita, come del resto tutti i mutanti soggetti a infezione spontanea. L'aveva colpita lo sguardo nero e bruciante, colmo d'odio, che indirizzava a tutti, meno che al fratello; lo aveva visto bussare sul vetro e far ridere Sasuke con delle smorfie buffe, oppure appoggiare la mano sul vetro e lasciare che il più piccolo vi sovrapponesse la sua, al confronto minuscola. E sorridere a quel corpicino rannicchiato che pareva gridare a tutti "amatemi, amatemi, amatemi" e riceveva in cambio solo torture.

Si morse le labbra, sull'orlo delle lacrime.

«Non la facevo così emozionabile, signorina Hyuga».

«N-non v-vedo come n-non si possa...»

«Oh, lei è una donna. Le donne tendono sempre all'emotività».

Stette zitta, incapace di ribattere (un po' per lo shock, un po' perché non voleva rompere in singhiozzi isterici davanti al suo rivale dalle sguardo beffardo), e guardò nuovamente oltre il vetro.

Zeus si era fermato. A qualche metro da lui, raggomitolato sul pavimento, stava Ade. Il pavimento bianco era macchiato di sangue.

Materiale per esperimenti. Hinata se lo ripeté come un mantra.

Materiale per esperimenti.

«Zeus, artigli». Sussurrò Kabuto, nell'interfono.

Le braccia del Prototype mutarono ancora. Comparvero dita lunghe e nere, unghie acuminate e affilate come rasoi. Stava per infilzare Sasuke quando quello si spostò, goffo, evidentemente sfruttando le ultime forze residue, e le lame si conficcarono nel pavimento.

L'Uchiha giacque fermo.

Materiale per esperimenti.

«Zeus, pugno martello».

Il Prototype si avvicinò al corpo riverso a terra e sollevò la mandritta, mutata in un ammasso coriaceo e bulboso che aveva l'aria dura e soprattutto pesante. Lento, senza fretta.

Materiale per...

«B-basta così». Disse, e la sua voce tremò. Strappò il microfono dell'interfono dalle mani di Kabuto e vi avvicinò la bocca, non prima di aver notato uno sguardo scandalizzato da parte del collega - lei stessa, in fondo, si era stupita dell'audacia di quel gesto.

«Zeus, fermo. Non attaccare. Rimetti la protezione».

Le sembrò quasi che Zeus la guardasse per un breve istante, prima di riportare il braccio alle condizioni normali e, avvicinatosi con calma alla museruola, indossarla con tranquillità e gesti esperti. Quella maschera aveva essenzialmente due funzioni: immetteva nel corpo del Prototype, attraverso aghi conficcati nella pelle, una miscela di droghe estremamente potente che serviva a inibirne i comportamenti violenti - benché il suo metabolismo bruciasse ad una velocità tale da costringere i medici e ricaricarla in continuazione, e, quando i battiti del cuore aumentavano troppo (ciò accadeva essenzialmente quando si trasformava) emetteva una scarica elettrica potentissima, in grado di paralizzarlo per qualche minuto. Poteva essere tolta solo se Kabuto - o chi per lui, la sbloccava tramite un telecomando. E questo accadeva molto di rado.

«Lei è sorprendentemente giovane, dottoressa...» motteggiò Yakushi, non esattamente scherzoso «... e le abbiamo permesso di partecipare a questi esperimenti in virtù della sua genialità, certo. Ma tenga bene in mente qual è la gerarchia, qui alla Gentek. Per stavolta chiuderò un occhio».

«L-a ringraz-»

«Chiami degli infermieri. Anzi, no, faccia prima entrare Itachi».

«Sì.»


***


Lo vide arrivare oltre lo schermo delle ciglia.

Si sentiva così stanco.

Faceva male, male dappertutto. E chi era stato? Zeus. Sì, forse lui. Ed era suo il sangue che macchiava il pavimento?

Sì, forse era proprio il suo.

Itachi lo calpestò senza curarsene, prima di chinarsi accanto a lui e circondarlo con le braccia. E pensare che ci aveva pensato tante volte, alle braccia di Itachi... a come potessero essere morbide, calde e confortevoli, a come l'avrebbero protetto se avesse potuto toccarlo.

Erano piuttosto fredde e dure, in realtà, ma accolse quel contatto con una gioia impossibile da descrivere. Si lasciò sollevare, privo di forze, e percepì le dita ghiacciate di Itachi accarezzargli la fronte, piano piano.

I suoi occhi fissi nei suoi, non più neri ma rossi come il sangue.

«Stai calmo, Sasuke. Guarda i miei occhi e respira... piano. Così».

Obbedì, controllando i tremiti convulsi che affioravano sulle braccia e sul torace. E, a poco a poco, si sentì scivolare in un silenzio scuro e ovattato, accogliente. Tiepido.

Chiuse gli occhi, cedendo alla stanchezza.

Nella sua mente, come fuochi fatui, rimasero a lungo quelle iridi rosse.


***


Hinata guardò Itachi. Le stava a poco meno di un metro, le mani bloccate dietro la schiena.

Due inservienti lo stavano scortando alla sua cella.

«Io vi ucciderò tutti, un giorno». Sussurrò, guardandola. Nei suoi occhi c'era una fissità spaventosamente simile a quella di Zeus, ma molto più fine, intrisa di cattiveria. Sorrise, ed era bello.

Troppo per essere un mostro.

«M-mi dispiace, Itachi».

«Non me ne faccio nulla del tuo dispiacere». Sibilò, sporgendosi verso di lei. Fortunatamente, un collare della stessa fattura di quello di Zeus gli copriva il collo «Tu sei la persona che gli ha fatto questo, e i tuoi superiori hanno ucciso molta più gente di quanto tu non possa credere. Sei una stupida se credi che la tua compassione basti a lavarti la coscienza».

«I-io n-non...»

«Ricordati di quello che è successo oggi, quando ti darò la morte».

Si lasciò portare via, assolutamente calmo. Hinata osservò a lungo la sua schiena magra, prima di decidersi a parlare con l'infermiera che l'attendeva, fuori dalla porta in cui Ade e Zeus avevano combattuto.

«C-come sta?»

«Ha una gamba rotta e varie costole fratturate. Sugli organi interni non abbiamo dati certi, ma crediamo che la situazione sia critica... si parla di emorragie».

«N-non è c-così g-grave. M-medicatelo e p-portatelo nella s-sua stanza».

L'infermiera annuì, senza fare domande. La gente, lì, era abituata a vedere cose di ogni tipo.

Hinata si mise da parte, permettendo il passaggio alla barella; sospirò, sconvolta.

Cos'era diventata?

Un mostro, di certo. Ma uno vero, non come Zeus o Ade, che erano soltanto vittime del destino. Loro non avevano scelta, lei sì.

Ed era scesa fino al limite più basso dell'aberrazione.

Pianse soltanto quando tutti se ne furono andati. Lacrime amare, le sue, lacrime colme di rimorso, rabbia e odio verso se stessa, che si strappava via dal viso sfregando la pelle con urgenza e vergogna. Avrebbe voluto davvero che Itachi la uccidesse, così da lavare via, almeno parzialmente, i peccati che aveva commesso.

"Perdonatemi... perdonatemi..."


"Non era colpa di nessuno. Certe cose accadono".











_Angolo del Fancazzismo_
Pensa che ti ripensa, dieci minuti fa mi sono detta "e se pubblicassi anche l'altro?"

E mi sono anche risposta.

See you soon,

Roby

   
 
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