ATTENZIONE: questo capitolo potrebbe contenere parti adatte solo a lettrici adulte. Per consentire a tutte la lettura ho deciso di non cambiare il rating della storia da ARANCIONE a ROSSO. Confido nella vostra grande maturità.
I …. You
"I stroke her lightly, memorizing her body.
I want her to melt into me, like butter on toast.
I want to absorb her and walk around for the rest of my days with her encased in my skin.
I want.
I lie motionless, savoring the feeling of her body against mine.
I'm afraid to breathe in case I break the spell."
(Water for Elephants )
Rimasti
da soli, nel silenzio di quelle quattro mura ed il ronzio della città che
veniva da fuori, sembrava di essere in un universo parallelo. Non avrebbe
dovuto esserci, eppure sentivo dell’imbarazzo a ritrovarsi soli, da parte di
entrambi.
Per
sciogliere il ghiaccio mi staccai per un momento da lei, dal suo abbraccio e
dal suo sguardo e presi a bere la mia birra.
Non
era mia intenzione ubriacarmi, non c’era un secondo di quella lunga notte che
avessi intenzione di perdermi; dovevo distendere i nervi, e non conoscevo nulla
che assolvesse il compito meglio dell’alcool. A parte il sesso e le sigarette,
ma ogni cosa va fatta con ordine.
“Dici
che l’abbiamo spaventato?” chiese lei, spaparanzandosi sul divano, con i gomiti
e comodamente appoggiati sullo schienale. Sorrisi, ricordando la faccia di
Aidan quando ci aveva visti rientrare in casa come se fossimo i due
protagonisti della commedia romantica e schifosamente zuccherina di turno. Era
strano pensare che quella descrizione potesse valere anche per noi, che
c’eravamo mandati a fanculo reciprocamente tante di quelle volte che ormai
avevo perso il conto e che, se avessimo potuto, ci saremmo presi a pizze in
faccia.
Ora
sembravamo piuttosto la versione a due zampe di Lilli e il vagabondo, mancava
solo un piatto di spaghetti da condividere. Se mi fossi guardato dall’esterno,
probabilmente mi sarei fatto schifo da solo, ma ero in uno stato di tale
beatitudine con me stesso e con il mondo che se mi avessero svaligiato casa
sotto il naso non avrei reagito. Atteggiamento da checca, ne convengo, ma non
era una cosa che potessi controllare.
“Ti
va di mangiare?” domandai, visto che le pizze che avevano portato si stavano
freddando sul tavolino di fronte a noi; ma la vidi arricciare il naso: “nnn …
dopo”. “Allie … le pizze” il gran coglione che era ribatté, nel momento meno
opportuno. “Le riscaldiamo al forno …” borbottò lei contro le mie labbra, pragmatica
e al contempo smaniosa di arrivare al dunque della situazione. Mi ero fidanzato
con una ragazza perennemente ingrifata ed io stavo lì a proporle una cenetta
romantica. Cazzone!
Può
darsi che attraversassi una fase in cui ero leggermente effeminato, ma non
riuscivo a digerire l’idea di prenderla lì com’era e portarla in camera da
letto, oppure farlo lì sul pavimento, di punto in bianco.
Forse
perché mi piaceva pensare che fare l’amore con lei fosse sempre qualcosa di
speciale e meritasse di essere trattata con i guanti. Volevo prendere di lei
ogni cosa che aveva da offrirmi ed io ero pronto a donarle in cambio tutto me
stesso. Ma a modo mio.
Mi
avvicinai e le posai un bacio sulle labbra, e finalmente potei assaporarne ogni
istante, in silenzio, senza il chiasso dei miei dubbi, senza i sensi di colpa.
Le sue mani corsero rapidamente ai miei capelli e sentivo le sue dita giocare
con le ciocche, tirarle leggermente, aggrappandosi come fossero radici. Era
bello immaginare che ogni problema, da quel momento in poi, si sarebbe risolto in
quel modo, spegnendo ogni malumore dell’uno sulle labbra dell’altro. Ogni paura
svanita, ogni dubbio dissipato, il tempo riprese a scorrere lievemente insieme
ai nostri respiri, calmi e sicuri. Non poteva esserci nulla del resto di più
naturale, se non un ragazzo ed una ragazza che si stringono ed esprimono i
sentimenti con la parte migliore di sé. Non c’è niente di sbagliato, niente di
immorale o volgare, nel voler celebrare l’incontro di due anime con i corpi che
si cercano fino allo spasmo. Ero stato uno stupido a credere di poter rendere
tutto più bello e perfetto, cercando l’attenzione per il dettaglio,
pianificando ogni mossa; siamo animali, in fondo, è bene ogni tanto seguire i
propri sensi.
E
non c’era posto dove volessi essere, se non quello in cui l’olfatto, l’udito, il
gusto, la vista ed il tatto mi avevano condotto: tra le sue braccia, sulla sua
bocca, a contatto con la sua pelle, immerso nei suoi occhi; e presto dentro di
lei, di nuovo. Una seconda prima volta non viene concessa spesso: non avrei
perso neanche un singolo battito di ciglia.
Ci
eravamo tacitamente definiti amici di letto fino a qualche giorno prima, ma
alla fine avevamo condiviso le lenzuola solo in 3 occasioni. Tutto quel sesso
centellinato in fondo aveva contribuito a rendere ancor più speciale quel
momento perché tutto era visto con occhi diversi, ogni suono, ogni gesto, ogni
odore. Non era qualcosa di scontato che avevamo già fatto o che veniva da sé;
era l’ennesima scoperta dell’altro, il raggiungimento di nuovi limiti e di
nuove mete.
Non
conoscevo ancora precisamente quelle sue linee perfette, quelle sue forme
timide e leggere a cui mi ero sempre incastrato perfettamente, per quanto me le
sognassi la notte ,ed ero pronto a scommettere che lo stesso valesse per lei
,che agognava per un nostro contatto più profondo come l’ultimo desiderio di un
condannato a morte. Ma nessuna condanna all’orizzonte se non la splendida
esecuzione di un verdetto che ci aveva colpiti entrambi, destinati ad
appartenerci nonostante tutto, a dispetto della sua testa calda o della mia
reticenza a farmi avanti, nonostante le vite diverse o i traumi per le tragedie
vissute.
Misi
a dormire il grillo parlate che aveva chiacchierato un po’ troppo nella mia
testa, mi alzai e, abbandonate per qualche istante quelle labbra ormai rosse e
gonfie, le guance accaldate, mi ritrovai a spogliarmi di fronte a lei che mi
seguiva attenta, affamata di ben altra carne. C’era desiderio ma anche purezza
in quello sguardo ed era devastante sentirmi spogliare l’anima per mano dei
suoi soli occhi. Quando rimasi solo in boxer si alzò. Sapevo che avrebbe voluto
pensarci lei, così mi fermai e stetti ad aspettare, troppo dolorosamente per il
signorino del piano di sotto, compresso e soffocato dalla stoffa dell’intimo.
Ma
prima di venirmi incontro Allison fece una cosa che non avevo previsto e che fu
la mia morte definitiva. Rimanendo seduta e sempre con quegli smeraldi
infuocati incastonati nel volto intenti a squadrarmi ,si tolse in un sol colpo
la maglia di lana e la tshirt bianca che aveva addosso, rimanendo con
nient’altro che un paio di jeans attillati nel punto che più amavo di lei.
Dio
mio, cosa ho fatto di male per meritare una simile tortura? E cosa ho fatto di
tanto buono per meritare un simile
premio?
Sentivo
di volerla, non solo con tutti i muscoli del mio corpo, dal più sveglio in quel
momento al più inutile: era un bisogno cerebrale, un tarlo che, se non
soddisfatto, mi avrebbe portato all’autocombustione. E per l’attesa era tanto
più penosa e piacevole, quanto più ero mi rendevo conto di quanto meravigliosa
e promettente fosse quella notte.
“Tu
il reggiseno no, eh?” commentai, sarcastico, ma contento che quel suo vizietto
portasse con sé i migliori benefici.
Fece
spallucce e finalmente si alzo, avvicinandosi. Mi avvolse con le braccia il
collo, provocante come la più ruffiana delle gattine.
Poteva
aver rinunciato alla sua vecchia vita, rendendomi l’uomo più felice del mondo,
poteva aver riconquistato l’adolescenza buttata alle ortiche, ma non poteva
dire addio alla geisha che era in lei, a quelle abilità e quelle movenze ormai
acquisite, di cui il suo corpo era ormai pregno. Non le avrei detto di
smettere, ora che quella sensualità ormai ingentilita era tutta per me, perché
non c’era dolore più gradito, non c’era piacere più grande che avrei chiesto,
se non quello donatomi da lei.
Io
non resistevo più e vedevo che per lei era lo stesso: mi abbassò il viso con le
sue mani per baciarmi, prima le labbra, poi più intraprendenti, le nostre lingue
si incontrarono senza che nessuno diede loro ordine alcuno.
Poi,
l’unica cosa che ho in mente è l’immagine del suo seno nudo che sfiora
pericolosamente il mio petto e le sue mani che giocano con l’elastico dei boxer,
un attimo prima che la stoffa sparisca, sostituita dalla morsa di sollievo e
calore della sua mano. “Dio …” fui in grado di esalare, infine, in un estremo
lampo di lucidità, quando le mie labbra sono vicine alla pelle del suo collo,
calda e morbida. Forse perso nel mio paranirvana, egoista come solo un uomo
eccitato può essere, mi accorsi solo dopo un po’ che lei era ancora fasciata
dai suoi jeans, quando tentai scendere con le mie mani su quel monumento che
era il suo fondo schiena.
“Adesso
tocca a me però” le dissi, portandola ad allungarsi sul divano. Ringraziai
mentalmente, perché se non mi fossi imposto quella pausa, sarei miseramente
esploso prima del previsto. E non era quello il momento di ricoprirmi di
ridicolo davanti alla mia ragazza.
Le
sfilai via i jeans e lei tolse anche le mutandine, che io avevo lasciato. Erano
lontani i tempi in cui si vergognava di quel corpo umiliato e profanato da cani
e porci; ora era solo mia e sembrava felice e fiera di esserlo. Sapeva che
c’era rispetto nelle mie frasi sussurrate, c’era compostezza in ogni posa e si
fidava: non potevo esserne più felice, per lei e per me … per quel noi che
finalmente era reale.
Posai
un bacio leggero sul fianco, avvicinandomi verso l’ombelico; sapevo che avrebbe
riso, e adoravo sentire il suono della sua risata, il tintinnio leggero e
delizioso delle sue corde vocali. L’abbracciai in vita e poggiai il mio mento
sul suo ventre piatto, standola a guardare per un attimo: era bellissima, pure
accalorata e già un po’ sudata. Ma la cosa più bella erano i suoi occhi, lucidi
e vivi come non lo erano mai stati prima e per una volta mi sentii libero di
esserne orgoglioso, perché ero io la causa della sua estasi. La sua mano,
piccola e vellutata, tracciò una carezza lungo il mio volto guardandomi con
quello sguardo pacato e timido che amavo. Non c’era nulla di più puro, nulla
che mi facesse rinascere quanto quella dolcezza che veniva a posarsi su di me.
“Vieni
qui” sussurrò e mi gettai su di lei, sulle sue labbra ed entrambi lasciammo
alle nostre mani il compito di esplorarci ancora e darci sollievo. Sarà stata
anche una notte fredda fuori, ma per noi era una notte di mezza estate, umida
ed afosa, buona solo per guardare le stelle ed esprimere i propri desideri.
E
non c’era niente ormai che potessi chiedere, perché lei mi aveva dato tutto e
non volevo indietro me stesso: ero suo e stavo da dio.
Ma
come se non fosse già abbastanza la vidi staccarsi da me e scendere verso il
basso, posando una scia di baci roventi lungo il suo tragitto; sapevo qual era
la sua meta e un arsenale di fuochi d’artificio esplose in me: il corpo era
pronto ad accogliere le sue attenzioni e anzi le bramava, ma la mente aveva
tirato il freno a mano e invocato il may day. I flash di quella notte in cui mi
ridussi la faccia ad una poltiglia per lei erano ancora troppo vividi per
tollerare che lei si inginocchiasse davanti a me, non come la donna che amavo
ma come l’amante di una notte. Non a caso le avevo promesso che le avrei
insegnato l’amore e non il sesso, non potevo lasciarla spingersi tanto oltre.
Con
le ultime riserve di razionalità la spinsi via, delicatamente, senza che
potesse fraintendere alcunché di male e la attirai a me, con la scusa di un
bacio, tirandomi a sedere con lei. “Lo sai che non devi …” le dissi, la voce
troppo roca per essere autoritaria, alludendo a ciò che stava per farmi. “Ma
io…” riprese lei, ma la fermai, portandole un dito sulle labbra. “Non voglio che
… ti senta obbligo di fare qualcosa solo perché la faccio io” spiegai, al
meglio che potevo; pensavo infatti che si sentisse in dovere solo perché io le
avevo spesso riservato quel tipo di trattamento. Ma non doveva pensare che io
fossi quel genere di persona.
“Non
devo io” sussurrò sulle mie labbra, tornando ad accarezzarmi più in basso “o
non vuoi tu?! Perché io lo voglio … per la prima volta”
Bastarono
quelle poche parole ad aprirmi un mondo: il sesso è amore, e diventa volgare solo se lo si vuole rendere volgare.
Allie aveva fatto per tanto tempo quello che le era stato chiesto dietro
pagamento, piegandosi e umiliandosi davanti a perfetti estranei; ma io l’amavo
e lei amava me, non eravamo affatto estranei. La volevo e volevo tutto quello
che aveva da offrirmi, in un modo che incominciava davvero a far male, ma non
ci riuscivo. Lei sembrò leggermi nella mente perché si abbassò verso la punta e,
con un visino fintamente timido, prese in mano la mia erezione e, avvicinandola
alla sua bocca come fosse un microfono, disse sorridendo sorniona e provocante.
“Neanche un bacetto?”
Mi
lasciai cadere sul divano, ormai definitivamente abbattuto, ridendo come un
matto e coprendomi con le mani il volto, come un santarellino indignato e
scandalizzato. Come poteva esserci volgarità in quel viso da gattina,
impertinente e divertita. Cosa c’era di osceno in un due ragazzi che non si
trattengono dal ridere neanche mentre fanno l’amore?
“Solo
perché non ce la faccio più” mi giustificai, sostenuto, ed in parte era vero
che avevo i minuti contati “ma dopo mi concedi il secondo round …”
“Strano”
commentò “di norma avrei dovuto chiederlo io a te”
Ma
non le diedi più retta o sarei venuto solo a guardarla e, in un surreale
silenzio, persi completamene la trebisonda.
“Ecco
qui” disse Allison, entrando in camera da letto con un piatto colmo di pizza,
già tagliata a spicchi, i tovaglioli e una bottiglia di birra.
Non
capivo perché le donne amassero tanto indossare le maglie degli uomini dopo
aver fatto l’amore: Allison non era certo impegnata a sfatare questo mito ed io
non perdevo il mio tempo a contestare, la mia salivazione subiva impennate
storiche ogni volta che lei si aggirava per casa con una delle mie felpe,
facendo bella mostra delle lunghe gambe bianche e di quella libidine con i
fiocchi che si intravedono leggermente dal bordo della maglia.
“Grazie”
risposi, sporgendomi a rubarle un bacio, dolce e fugace, mentre veniva a
riscaldarsi sotto le coperte; in fondo era solo la fine di gennaio e le tracce
dell’ultima, copiosa, nevicata erano sparite da poco.
Non
c’era nulla di più bello – a parte il sesso – che stare con lei a chiacchierare
a letto, scherzando e coccolandosi, al buio della camera da letto. Lo avevamo
fatto la sera che ci eravamo conosciuti e le migliori tradizioni vanno
conservate rispettosamente.
“Ho
parlato con tuo padre oggi pomeriggio” le dissi, addentando un pezzo di pizza
bollente. Dopo la figuraccia rimediata ad Indianapolis ci tenevo a chiarire
immediatamente le mie intenzioni e le spiegai ampiamente perché l’avevo
chiamato e ciò di cui avevamo parlato, senza tralasciare alcun dettaglio. Lei
stette ad ascoltarmi, tranquilla e silenziosa. Quando ebbi finito, sorrise e,
prendendo un tovagliolo, mi pulì il bordo della bocca, evidentemente sporco di
pomodoro e mozzarella: “tu e mio padre siete simili per un certo verso …”
“cosa”
scherzai “ci sbrodoliamo mentre mangiamo”- Sorrise. “Per proteggere chi amate
siete disposti ad accollarvi ogni colpa”
Non
capii a cosa si riferisse, in un primo momento.
“Ha
detto a mia madre dove mi trovavo solo perché non c’era altro da fare” spiegò
“io sono stata tanto ingenua da chiamarlo al cellulare quando era in casa e
rispose lei al posto suo. È stato costretto a dirle tutto, non poteva fare
altrimenti. E poi lei si è presentata in albergo … a proposito, non ti ho
ringraziato per aver pagato il conto”. Scoccò un bacio proprio in
quell’angoletto della mia bocca che aveva appena pulito e si alzò per portare
via il piatto ormai vuoto, spazzolato per bene in meno di 5 minuti.
“Non
ce n’è bisogno” dissi, raggiungendola in cucina con il resto della spazzatura
che avevamo fatto. Era passata da un bel po’ la mezzanotte e faceva un freddo
cane nell’appartamento, così la convinsi a lasciar perdere le stoviglie e a
tornare sotto il piumone.
“Com’è
andata con tua madre?” domandai, mentre smadonnavo mentalmente per i suoi piedi
ghiacciati intrecciati alle mie gambe.
“È
diversa da come la ricordavo …” rispose. “E questo è un bene o un male?”
sondai. “Non lo so … era diversa, punto. Non so se la mia memoria si era creata
un ricordo sbagliato o se è cambiata e basta” spiegò “però a pensarci mi sento
uno schifo per come l’ho trattata, non l’ho lasciata nemmeno parlare e avevo
promesso a mio padre che avrei fatto un tentativo. Lei ci è andata piano e io l’ho
aggredita … al mio solito”
Era
sfiduciata, si sentiva, delusa per aver deluso suo padre, a cui doveva tenere
molto. “E Doug? Con lui come è andata?” decisi di cambiare argomento, mentre
lei colta da improvvisa inquietudine iniziò a muoversi agitata nel letto; così
l’attirai a me più di quanto non fosse già e presi a carezzarle la schiena con
una mano mentre l’altra, intrappolata tra le sue, era impegnata in uno strano
gioco ad intreccio. “Bene … con lui è andata molto bene” disse ed ero
felicissimo di sentirglielo dire; almeno il mio errore era valso a qualcosa. “Non
mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato fino a quando l’ho visto lì
davanti a me, vivo e perfettamente in salute” confessò “ci siamo ritrovati
subito e abbiamo chiarito diverse cose … come il mio stare qui”
“Cosa
ti avevo detto?!” le dissi, rassicurante “ero sicuro che ce l’avresti fatta ad
importi …” “Sì avevi ragione … avevi ragione su tante cose… e poi” cercò di
continuare, ma la sentivo distante, rapita già da un primissimo torpore che
quelle coltri calde avevano favorito. Era stata una giornata lunga ed
estenuante, ci meritavamo entrambi un po’ di sano riposo, insieme.
“È
tardi amore … mi racconti meglio domani, abbiamo un sacco di tempo …”
“Ehm
no Tyler …” disse, come svegliata di soprassalto da un bombardamento. Posò la
sua mano sul mio petto, dove già si era prontamente sistemata a mo’ di cuscino “Ti
prego … non chiamarmi … è difficile …”
“Cosa?”
domandai perplesso “credevo che ora sarebbe stato tutto diverso … perdonami” “No,
no … non chiedere scusa” si affrettò a mettere in chiaro “è tutto diverso ora
ma … devi darmi un po’ di tempo per abituarmi. Io voglio stare con te, lo
voglio davvero … ma niente nomignoli, ti prego”
Come
al mio solito correvo troppo. Dovevo aspettarmi questa sua reazione spaventata
e forse per un verso era anche meglio così, perché se avesse tenuto tutto
dentro sarebbe stata una peggiore tortura per entrambi. Ma sentirla confidarsi
e chiarire era un segnale che le cose andavano bene e che c’era fiducia, onestà
e rispetto.
“Ok,
come vuoi … hai ragione. Ora dormi però … Allison”
Ci
sdraiammo di nuovo e quando chiusi gli occhi per lasciarmi andare al sonno un
paio di labbra carnose si posarono lievemente sulle mie.
“Grazie”
sussurrarono, credendomi ormai assopito “… ti amo”.
NOTE FINALI
Non ho granché da dire, ma immagino che capirete il motivo.
Mi premeva darvi questo capitolo più di ogni altra cosa. Spero vi sia piaciuto e spero che possa avere numerose recensioni...
Vi saluto e vi do appuntamento al 17 febbraio, data in cui festeggeremo il primo anniversario di questa storia.