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Autore: Mary P_Stark    10/02/2012    2 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11.





La partenza per Harvard si stava avvicinando a grandi passi, così come l’arrivo dell’autunno e dei rossi e dei bruni nelle foreste. 

L’aria si era fatta più fresca, le temperature erano calate, lasciando che settembre desse il cambio all’assolato agosto.

Con l’arrivo delle piogge insistenti e del mare grosso, io avevo sorriso perché il tempo era infine giunto.

Presto vi sarebbe stata la festa sulla spiaggia che, ogni anno, la comunità organizzava per salutare l’estate e dare il benvenuto alle stagioni fredde.

Come sempre, io sarei andata a vedere i fuochi d’artificio assieme alla mia famiglia e alle mie amiche.

Nei giorni che erano seguiti allo schiaffo che avevo propinato a Morgan, ero riuscita in qualche modo a riprendere il controllo su me stessa.

Più attenta che, avevo sfruttato al massimo i miei sensi per tenermi alla larga da tutti i luoghi in cui il suo profumo era anche solo vagamente presente.

Avevo irritato a morte le mie amiche ma, alla fine, avevano compreso il mio modo di fare evasivo, e non avevano detto nulla. 

Prima o poi, avrei dovuto ripagarle in qualche maniera, visto quanto tenevano a me.

Sapevo di dover resistere ancora per poco.

I miei pensieri erano tutti concentrati su quell’unica missione: stare alla larga da Morgan Thomson.



 
***


Passeggiando tranquilla per la Oregon Coast Highway, Joy sorrise spontaneamente non appena raggiunse il negozio-clinica per animali del loro vecchio amico di famiglia.

Il dottor Craig Meson, veterinario provetto e grande appassionato di bird watching, era stato tra coloro che l’avevano condotta alla civiltà, diciotto anni prima.

Ricordava ancora il suo profumo e la sua risata imbarazzata, se ci pensava bene.

Con un allegro saluto e un cenno della mano, Joy entrò nel negozio a grandi passi e Sabine, la commessa, sorrise spontaneamente ed esclamò: “Ehi, Joy! Che bello rivederti! Ormai sei in partenza, eh?”

“Sì, manca poco” ammiccò la ragazza, dando un’occhiata veloce alle gabbie degli uccellini prima di chiedere: “Craig è impegnato?”

“E’ di là che si sta prendendo cura di un falco pellegrino. La forestale lo ha trovato con un’ala spezzata nel bel mezzo di una rete da bracconiere, e così lo ha portato qui” le spiegò Sabine, scuotendo accigliata il capo.

Adombrandosi immediatamente, Joy oltrepassò il bancone in direzione della porta scorrevole che conduceva alla clinica e, a mezza voce, disse: “Vado a vedere se posso essergli d’aiuto.”

Annuendo, Sabine celiò: “Hai un tocco magico, con gli animali. Sono sicura che si sentirà più tranquillo, se starai di là con lui.”

Joy si limitò a sorriderle, mentre spingeva di lato la porta a vetri fumé ed entrava nella clinica di Craig. 

L’interno era pulito e ben illuminato e, al solito, Joy infilò ai piedi dei copriscarpe di plastica per non portare all’interno del locale i batteri provenienti dall’esterno.

In fondo alla lunga stanza, ricolma di piani da lavoro, attrezzi operatori, vasche e gabbiette vuote, Joy intravide la sagoma ripiegata dell’amico.

Con un mezzo sorriso, si avvicinò e disse: “Ehi, Craig, ciao. Posso dare una mano?”

Sollevando il capo di corti capelli ricci color sale e pepe, Craig la salutò con un sorrisone dai denti bianchissimi.

“Ehi, bellissima! Ciao! Ho proprio bisogno del mio San Francesco personale. Vieni, dai.”

Joy ridacchiò per quel commento – Craig l’aveva sempre chiamata così, fin da quando l’avevano condotta nel negozio per la prima volta.

Avvicinatasi al tavolo operatorio in acciaio lucido, fissò spiacente il falco pellegrino stordito dall’anestesia, afferrò in fretta un paio di guanti sterili e chiese: “Riuscirai a sistemare la sua ala?”

“Fortunatamente, le remiganti non si sono rotte, e le ossa non hanno subito danni. Si trattava solo di una slogatura” le spiegò succintamente Craig, applicando una fasciatura attorno all’arto contuso. “Però, vorrei tagliare la gola a chi ha messo quelle maledette reti da uccellagione.”

Sfiorando il petto morbido del falco con un dito, Joy annuì debolmente, sussurrando: “Povero falchetto. Hai davvero rischiato grosso.”

Accennando un sorriso, Craig le domandò sornione: “Sempre sicura di voler dedicarti alla medicina? Non vuoi fare la veterinaria? Sei bravissima, con gli animali, e lo sai.”

“Preferisco dedicarmi alle persone, per stavolta, ma nessuno mi vieta di prendere una seconda laurea” ammiccò Joy, prima di vedere il capo del falco muoversi leggermente. “Si sta svegliando.”

“Tienilo calmo mentre io finisco la fasciatura” la pregò Craig, concentrato sulla benda che stava avvolgendo attorno all’ala  con mani abili.

Muovendo debolmente le labbra, Joy lasciò defluire dolci suoni ancestrali dalla bocca piegata in un sorriso.

Il falco, immobilizzandosi subito dopo aver sentito le prime note di quella musica senza tempo, restò tranquillo durante tutta la durata della medicazione. 

Craig, nel frattempo, ascoltò distrattamente il canto della ragazza prima di fissare il bendaggio e, soddisfatto, disse a Joy: “Ancora un po’, e finivo imbambolato come il falchetto. Quel tuo canto è davvero ipnotizzante. Mai pensato di fare la cantante?”

Scoppiando a ridere, Joy scosse il capo e, raccolto gentilmente il falco tra le braccia, lo condusse in una delle gabbie più grosse perché riprendesse le forze.

Sorridendo poi all’amico, che stava sistemando i bendaggi rimasti, celiò: “Uhm, quindi, dovrei essere un medico, un veterinario e una cantante?”

“Sì, sarebbe una carriera molto complessa, in effetti” sentenziò Craig con un risolino, chiudendo lo stipetto dei medicinali.

“Decisamente” esalò lei, avviandosi verso il negozio assieme a lui.

Fermatisi sul predello metallico che precedeva la porta a vetri, Craig si tolse i copriscarpe per gettarli nel cestino dei rifiuti, dopodiché aiutò Joy a fare lo stesso.

Insieme, poi, tornarono nel negozio sotto gli occhi curiosi di Sabine che, sorridendo a entrambi quando li vide ricomparire dalla clinica, domandò speranzosa: “Allora, tutto bene?”

“Lavoro perfetto” annuì Craig, indirazzando Joy verso un gruppo di gabbiette. “Guarda, questi parrocchetti sono arrivati giusto ieri. Non trovi che siano splendidi?”

Avvicinatasi con sguardo ammirato alla gabbia, Joy allungò un dito in direzione dei volatili che, come impazziti, cominciarono a cantare sonoramente.

Speranzosi, sollevarono i piccoli becchi verso l’alto, come per spingere più lontano i loro stridii gioiosi e convincerla così ad avvicinarsi ulteriormente. 

Le alette colorate si mossero come in una danza in sincrono mentre Joy, scrutandoli deliziata con le iridi smeraldine scintillanti di gioia, mormorava: “Sono davvero degli esemplari magnifici.”

Ridendo di fronte a quello spettacolo davvero più unico che raro, Craig esalò: “Sempre la stessa cosa. Ti adorano, ragazza.”

“E io adoro loro” replicò lei, cominciando a passeggiare tra le gabbie con aria trasognata, le dita che sfioravano delicate le gabbie metalliche.

Amava alla follia quel posto e, anche se non apprezzava appieno l’idea che suoi simili fossero rinchiusi nelle gabbie, sapeva che Craig si prendeva ottima cura di loro.

L’amico si era posto il sacro impegno di vendere i suoi animali solo a persone che ne fossero veramente degne. 

In questo, Craig era un vero indovino. Non aveva mai sbagliato un cliente, dacché lo conosceva.

Quel luogo profumava di pulito e di animali ben curati e tenuti e, anche se Craig non poteva saperlo, di amore. 

Gli animali erano chiaramente affezionati a lui, testimonianza prima di quanto li  accudisse correttamente e con generosità.

Era semplice farsi amare da loro, ma questo era difficile da far comprendere a molti esseri umani. 

Joy avrebbe tanto voluto che una cosa così semplice fosse universalmente conosciuta e riconosciuta, ma sapeva di stare pensando l’inimmaginabile. 

La mente dell’uomo sembrava non comprendere le cose più facili, e questo era sempre stato un mistero, per lei.

Proseguì lenta nella sua passeggiata tra gli scaffali ricolmi di gabbiette, dove piccoli uccellini multicolori si confondevano con cuccioli di cane dall’aria innocua quanto giocosa.

Incuriosita, si fermò per osservare affascinata un parrocchetto dal collare che, con gesti meticolosi, si stava pulendo il piumaggio verdeggiante. 

Tutta presa dai suoi movimenti precisi ed eleganti, la ragazza non badò allo scampanellio della porta d’ingresso né, tanto meno, ai passi ovattati che giunsero alle sue spalle.

Quando, però, un profumo a lei famigliare le giunse alle nari, Joy levò il capo di scatto e si volse a mezzo, ritrovandosi a fissare due iridi scure e un mezzo sorriso che ben conosceva.

Mordendosi un labbro per l’ansia – non poteva scappare da nessuna parte, lì dove si trovava – Joy deglutì a fatica e cercò di contenere la paura crescente.

A stento, riuscì a chiedere: “Morgan… che ci fai qui?”

Lui non le rispose, limitandosi a guardarla per un attimo prima di sorridere al parrocchetto verde e dire sommessamente: “Ti sta cercando. Hai distolto lo sguardo, e ora è geloso di me perché non lo consideri più.”

“Come?” esalò la ragazza, tornando a voltarsi verso l’uccellino che, ora lieto per aver riavuto la sua attenzione, cantò felice, sbattendo le ali pulite e perfettamente in ordine.

“Non ti sei accorta che ero in negozio, quando sei sbucata dalla clinica con il dottor Meson, così ti ho guardata in silenzio mentre giocavi con gli uccellini” le spiegò lui, usando sempre un tono di voce sommesso, come se non volesse spaventare gli animali presenti nelle gabbie… o lei. 

Lanciò un’altra occhiata all’impegnatissimo parrocchetto, prima di proseguire nel suo dire.

“Eri bellissima. Avevi uno sguardo così sereno, e gli uccellini semplicemente erano in tua adorazione. Hai un rapporto splendido, con loro.”

“Perché sei qui?” riuscì a chiedergli, nonostante fosse rimasta praticamente ipnotizzata dal suo tono di voce basso e roco.

“Ho portato il mio cacatua a fare un controllo” le spiegò con semplicità, avvicinando un dito al parrocchetto dal collare.

Subito, l’uccellino lo pizzicò debolmente e Morgan, aprendosi in un sorriso estasiato, sussurrò: “Sì, mi piaci anche tu, sai?”

Sempre più sorpresa da quel lato tenero e gentile di Morgan, che mai si sarebbe aspettata in un giovane grande e grosso come lui, Joy gli domandò con voce appena sussurrata: “Sei da solo?”

Con la fronte leggermente aggrottata, lui scosse il capo e mormorò a bassa voce: “Mio padre è fuori che mi aspetta in macchina. La mia è dal meccanico, e così sono dovuto ricorrere al gesto estremo di chiedere uno strappo fino in clinica.”

“Sicuro che sia fuori?” chiese per contro Joy, annusando attentamente l’aria senza farsi notare da Morgan. 

Appunto, come aveva sospettato. Il professore era in negozio.

Vagamente sorpreso dalla sua domanda, Morgan levò il capo dalla gabbietta e si mise in punta di piedi per oltrepassare con la testa lo sbarramento naturale opposto dagli scaffali.

Un attimo dopo, si abbassò in tutta fretta e disse in un sussurro: “Merda! E’ entrato a vedere che combinavo. Sicuro come l’oro. Non sopporta quando mi perdo in gloria come sto facendo ora.”

“Perché ti stai nascondendo?” gli domandò vagamente divertita, vedendolo tutto piegato e in cerca di un riparo ove infilarsi.

“Abbiamo litigato, prima di venire qui…” le spiegò succintamente, ghignando non appena vide un pertugio da cui defilare. “… e così non vorrei scatenare ire ulteriori perché sto parlando con te. Non voglio che mamma ci rimanga male, vedendoci arrivare a casa con un diavolo per capello.”

Piegatosi poi su un ginocchio, spostò un poco una gabbietta e, strizzandole l’occhio, sussurrò: “Non dire niente al dottore.”

Con un risolino, lei annuì e si accucciò a sua volta per seguirlo nel reparto accanto, che aveva uno sbocco in direzione dell’uscita del negozio. 

Sapeva di stare correndo un rischio, ma l’istinto le diceva di seguirlo e, nonostante il primo momento di ansia, ora si sentiva più tranquilla.

Anche se le spiaceva ammetterlo, era lieta di averlo incontrato. 

C’era qualcosa di stranamente giusto nel fatto di stare lì assieme a lui, accucciati a terra nel tentativo di non farsi vedere, complici nella fuga e in sintonia come due amici di vecchia data.

Era totalmente assurdo, ma si sentiva così, e la cosa le piaceva.

Muovendosi più agevolmente di Morgan, Joy sbucò dall’altra parte solo per ritrovarsi, suo malgrado, di fronte al rettilario, contenente un piccolo pitone albino.

Sapeva che quel serpente era in negozio – ne aveva sentito l’odore alla sua entrata – ma, presa com’era dalla presenza di Morgan, non si era resa conto di trovarsi a così breve distanza da lui.

Mostrando immediatamente i denti, non appena si ritrovò a fissare le sue iridi scure e lucide, Joy indietreggiò di un passo, andando a sbattere contro il torace di Morgan.

Vagamente sorpreso dalla reazione della ragazza, il giovane la avvolse protettivo con un braccio, circondandole la vita sottile e, gentilmente, le chiese: “Paura dei serpenti?”

Il pitone, dopo averla notata, levò fiero il capo e le mostrò la lingua biforcuta, spalancando poi la bocca pet mettere i mostra le sottili file di denti che in essa erano contenuti.

“Per la miseria!” esalò Morgan, fissando a momenti alterni lo scambio di sguardi tra la ragazza e il serpente. “Proprio non vi piacete, eh?”

“No” sibilò Joy, poggiando una mano sul braccio di Morgan che la stava proteggendo, o meglio, che le dava la forza per non scagliarsi contro il rettilario e uccidere il pitone.

Dio! Se l’avesse fatto, la signora Spencer – padrona del pitone – ne sarebbe stata mortalmente ferita, ma lei si sarebbe tolta una soddisfazione!

Era un fortuna davvero incredibile che Morgan fosse lì a distrarla! Assurdo da dire, ma era così.

“Grazie” disse a un certo punto Joy, tornando a respirare con più calma.

Il rettile, per diretta conseguenza, reclinò la testa prima di accoccolarsi tra le sue spire, gli occhi sempre puntati su di lei, ma non più in assetto da battaglia.

“Sempre pronto a difenderti” le disse sornione, male interpretando il suo ringraziamento.

Lei si limitò a sorridergli prima di scostarsi da lui e dirigersi verso l’uscita del negozio, tallonata dappresso da Morgan.

Senza averla mai lasciata andare, le stava ancora tenendo una mano con tocco lieve, e Joy non ebbe nulla da ridire in merito a quella piccola concessione.

Quando infine raggiunsero l’ultimo scaffale, che li divideva dalla porta d’entrata, Morgan la fece fermare e, portandosi dinanzi a lei, la guardò spiacente e disse: “Volevo spiegarti di quel giorno, allo Starbucks.”

Il ricordo le tornò infuocato alla mente, facendola trasalire.

In un flashback al rallentatore, rivide se stessa nell’atto di schiaffeggiarlo, mentre la bile le invadeva la bocca e i suoi occhi sprizzavano scintille di rabbia che non avrebbe dovuto provare. 

Sentendosi davvero una sciocca, reclinò il capo e sussurrò demoralizzata: “Non avrei dovuto darti uno schiaffo. Scusami.”

“No, non volevo che ti scusassi!” precisò lui, mordendosi nervosamente un labbro e passandosi una mano tra i riccioli corvini con fare ansioso.

Notando i movimenti frenetici dei suoi piedi, Joy rialzò lo sguardo per fissarlo vagamente confusa, chiedendosi il perché di tanta ansia.

Fu a quel punto che lui tornò a incrociare il suo sguardo, asserendo: “Senti, la ragazza che mi ha baciato, era mia cugina. Le piace scherzare e così, quando ci incontriamo, mi da sempre un bacetto. Niente di che, un’idiozia che ci tiriamo dietro da quando siamo bambini. Tutto qui. Non sto con lei, va bene?”

“Non sono affari miei, dopotutto” precisò Joy, pur sentendosi stranamente lieta della notizia e, soprattutto, del fatto che lui avesse voluto chiarirsi con lei.

“Cavoli, dopo che ho tentato di baciarti sulla spiaggia, ovvio che tu ti sia infuriata e ferita, quando un’altra donna otteneva quello che non hai avuto tu” celiò con un risolino Morgan. “Volevo solo che lo sapessi.”

“E perché?” chiese a quel punto Joy, suo malgrado intrigata da quella strana discussione.

“Perché non voglio che tu pensi che io sia uno scapestrato, sempre pronto a buttarmi tra le braccia della prima donna che incontro” le spiegò onestamente, tornando serio in viso.

“Torno a ripetertelo; non sono affari miei” sussurrò lei, pur sorridendogli.

Morgan parve non ascoltarla, perché sollevò una mano per carezzarle la guancia rosea e, con voce resa ancor più roca dal desiderio che sentiva prepotente dentro di sé, mormorò: “Non so cosa mi spinga verso di te ma, da quando ho incrociato il tuo sguardo, non faccio che pensarti. Non so nulla di te, o quasi…”

Al suo sguardo interrogativo, Morgan lanciò un’occhiata agli uccellini, e lei sorrise divertita.

Proseguendo dopo essersi schiarito la voce, lui aggiunse: “So così poco di te eppure, quel che so, mi piace. E capisco che anche tu non mi sei indifferente ma che, per qualche motivo, mi vuoi tenere lontano da te.”

“Senti, Morgan…” tentennò Joy, sentendosi prossima a un ennesimo cedimento. 

Il tocco leggerissimo della sua mano avrebbe potuto diventare ben presto simile alla dipendenza da una droga, per lei, se non avesse smesso alla svelta.

“Dimmi solo che non mi tieni a distanza per colpa di mio padre” volle sapere lui, afferrandole la nuca e affondando la mano nei suoi folti capelli ramati.

“No” si limitò a dire lei, imprigionata nelle sue iridi scure e tanto simili a ossidiane levigate.

Il sorriso che sorse sul viso di Morgan avrebbe potuto illuminare il cielo, tanto era brillante.

Con un movimento improvviso quanto inaspettato, calò sulla sua bocca per strapparle un bacio bruciante quanto breve.

Un attimo dopo, fu sostituito da un sussurro a fior di labbra, altrettanto rovente e altrettanto desiderabile.

“Grazie” le sussurrò, scostandosi per ammirarla in tutto il suo splendore.

Joy sapeva bene cosa, gli occhi di Morgan, stavano vedendo; il viso di una donna appagata, arrossato dalla passione appena risvegliata e desideroso di altro nutrimento.

In quel momento, avrebbe voluto ammazzarlo e farlo suo allo stesso tempo, ma non avrebbe ottenuto appagamento per nessuno dei suoi due desideri.

Il primo andava escluso a priori, così come il secondo, perché lei non poteva permettersi di pensarla a quel modo.

Abbozzando un sorrisino soddisfatto, Morgan dichiarò: “Lascerò a te la scelta, sempre, ma ti farò una corte così spietata che, alla fine, dovrai cedere.”

“Sto per andarmene. Vado a Harvard” ci tenne a precisare lei, pur trovando la sua insistenza molto piacevole.

“Oh, la fai difficile, allora” ridacchiò Morgan, sfiorandole il labbro inferiore con il pollice in una lenta, sensuale carezza.

Joy si sentì tremare tutta, a quel semplice tocco e il giovane, rendendosene conto, accentuò il suo sorriso e chiosò: “Non ti obbligherò a cedere al tuo stesso desiderio, e non mi importa se starai via degli anni. Io sarò qui, al tuo ritorno, e non avrò cambiato idea.”

“Non potremo mai stare insieme, Morgan” sospirò lei, scostando la sua mano dal volto, ma tenendola stretta tra le sue. “Non mi chiedere perché, ma è così. E’ impossibile.”

“Nulla è impossibile” replicò lui, ammiccando sicuro di sé.

Anche Rah lo ha detto, pensò tra sé Joy, sgranando leggermente gli occhi a quelle parole.

“Morgan, dove ti sei nascosto? Monet è a posto.” 

La voce di Oliver Thomson li raggelò entrambi, diffondendosi nel negozio come un monito di sventura, riportando entrambi i giovani nel mondo reale.

“Monet?” esalò Joy, sobbalzando quando udì la voce del professore.

“Te l’ho detto che dipingo” sogghignò lui, prima di sollevarle le mani, baciarne i dorsi setosi e aggiungere: “Ora ti lascio libera, ma la promessa rimane. Sarai mia, prima o poi.”

“Illuso” celiò la ragazza, sorridendogli nel nascondersi perché Oliver non la vedesse.

Morgan le strizzò l’occhio, più che mai convinto di uscirne vittorioso.

Un attimo dopo, sbucò dal corridoio dietro gli scaffali e disse: “Papà, sono qui. Stavo guardando un po’ di uccellini.”

Afferrando la gabbia che conteneva il cacatua bianco latte del figlio, Oliver si diresse verso di lui con aria accigliata, borbottando: “Non avrai intenzione di prenderne un altro, spero? Già non sei quasi mai a casa per prenderti cura di questo, figurarsi se…”

Bloccandolo sul nascere, Morgan dichiarò rabbioso: “Pensavo di regalare una coppia di cocorite alla mamma per il suo compleanno, tutto qui. Ora dammi pure Monet; tu lo spaventi, con il tuo tono troppo autoritario.”

Scettico, Oliver gli lasciò la gabbia e Morgan, dopo aver lanciato  un ultimo sguardo in direzione del corridoio dove sapeva trovarsi Joy, disse a mezza voce: “Io e Monet andiamo d’accordissimo, e non è vero che manco sempre da casa.”

“Sei un pompiere, Morgan e, notoriamente, i pompieri sono sempre in giro” brontolò Oliver nell’aprire la porta per uscire dal negozio.

“Lo dici come se andassi per le strade a cercare puttane da portarmi a letto” dichiarò schifato Morgan, chiudendosi alle spalle la porta del negozio, facendo così tintinnare rabbiosamente la campanellina sopra lo stipite.

Nuovamente al sicuro, Joy uscì dal suo nascondiglio e li osservò turbata mentre si allontanavano sul marciapiede, discutendo animatamente.

Sabine, dal bancone, chiosò divertita: “A me piacerebbe essere al posto di quel pappagallo, onestamente parlando.”

Volgendosi e fissandola con aperta sorpresa per alcuni momenti, Joy scoppiò a ridere di gusto ed esalò: “Ma… Sabine! E’ molto più giovane di te!”

“E chi se ne frega! Ma l’hai guardato?” ridacchiò Sabine, mentre Craig scuoteva il capo con aria falsamente esasperata. “E poi, quando è arrivato qui, era tutto preoccupato per il suo Monet, perché si era infilato una spina nella zampetta. Farsi curare da un uomo del genere, sarebbe un sogno.”

“Dio, Sabine!” esclamò Craig, scoppiando a ridere. “Se ti sentisse il tuo fidanzato, che direbbe?”

“Nulla. Dovrebbe solo tacere e mettersi a fare la stessa cosa che ha fatto Mister Perfezione” brontolò Sabine, facendo l’occhiolino a Joy, che ridacchiò di quella gag tra datore di lavoro e commessa.

“Ma sentitela, questa. D’accordo che Morgan Thomson tiene al suo uccello, ma addirittura chiamarlo Mister Perfezione!?” brontolò Craig prima di notare le risatine soffocate delle due donne, oltre ai loro volti paonazzi. “Beh, che ho detto?”

“Nulla, capo, nulla” sghignazzò ancor più forte Sabine, esplodendo in una fragorosa risata un attimo dopo.

Joy la seguì a ruota e, raggiunto che ebbe Craig, lo abbracciò strettamente e disse: “Non farci caso, Craig. Siamo due depravate alle prese con gli ormoni.”

Con uno sbuffo, Craig le carezzò il capo di capelli ramati, sogghignando per diretta conseguenza. 

“Mi domando cosa farà mia figlia, quando avrà la tua età.”

“BeeBee è dolcissima, e sarà una donna splendida” dichiarò Joy, prima di aggiungere: “Basta che tu non la stressi con le lezioni di danza.”

“Io non la stresso!” precisò piccato Craig. “O sì?”

Lei e Sabine esplosero in una nuova risata e Joy, tornando ad abbracciarlo, sussurrò: “Ti voglio tanto bene, Craig!”

“Meglio, perché te ne voglio anch’io, tesorino” ridacchiò l’uomo, prima di chiederle: “Sbaglio, o tu e il giovane fusto vi conoscete?”

“Ehm… già” ammise dopo un momento Joy, fissandolo con il dubbio e la paura negli occhi.

“E tuo padre lo sa?” ammiccò Craig, facendosi malizioso.

“Non è come pensi, ci tengo a dirlo!” si affrettò a negare Joy, scuotendo con foga le mani dinanzi al viso.

Craig e Sabine la fissarono scettici e la giovane, sconsolata, reclinò il capo e mormorò sconfitta: “Vi prego, non mettetegli in testa che un ragazzo mi viene dietro, altrimenti impazzirà del tutto. Già è in ansia per Harvard.”

“Pover’uomo, ha tutta la mia comprensione” ridacchiò Craig, dandole una pacca sulla spalla.

“E comprensione per me non ce l’ha nessuno?” esalò Joy, guardandoli con occhi supplichevoli.

“Tutta quella che vuoi, bambina” disse con un sogghigno Craig, aggiungendo un attimo dopo: “Ma, prima, devo mostrarmi solidale con tuo padre.”

“Ecco, lo sapevo” brontolò Joy.


 
***


Non sono mai riuscita a spiegarmi le reazioni di quel giorno, al negozio di Craig e, soprattutto, non ho mai compreso perché io mi sia lasciata baciare da Morgan.

Forse, perché era riuscito a tranquillizzarmi un poco, forse perché ero completamente frastornata dalla sua presenza da non riuscire neppure a ribellarmi al suo tocco.

Fatto sta che quel bacio era arrivato, lasciando dietro di sé strascichi a lungo, lunghissimo termine.

La sera della festa sulla spiaggia, bardati come pinguini per il gran freddo, mi ero guardata intorno per tutto il tempo, chiedendomi se l’avrei rivisto.

Al tempo stesso, però, mi ero chiesta come fare per evitarlo.

Impegnata in quel caos di rifiuto e desiderio, che frullava nella mia testa iperattiva, lui era comparso in divisa da lavoro. 

Con il suo giubbotto scuro a righe fosforescenti, i pantaloni ignifughi e gli stivaloni di cuoio, tutto preso dalla visione dei fuochi d’artificio, mi era parso una creatura perfetta.

Affiancato da un uomo dai capelli brizzolati, alto e magro, tutta fibra e forza di volontà, Morgan non aveva perso di vista neppure per un momento lo svolgersi delle operazioni.

A momenti alterni, aveva scambiato qualche parola con il suo capo, il capo illuminato dai colori fluorescenti dei fuochi d’artificio.

Io li avevo fissati per tutto il tempo, ipnotizzata più dalla sua presenza, che dallo spettacolo pirotecnico che andava via via sviluppandosi sopra la mia testa.

Era stato a quel punto che una sconcertante consapevolezza mi aveva colpito.

Quegli occhi scuri, immersi nella notte stellata, quando la camionetta dei pompieri era sfilata davanti a me e Alex prima della festa da ballo, non erano altro che quelli di Morgan.

Io avevo visto lui. Lui aveva visto me.

E tutto si era sviluppato da quel semplice sguardo nella notte.

 
  
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