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Autore: Melian_Belt    10/02/2012    4 recensioni
Nella Roma del 410 d.C., uno schiavo viene acquistato da una potente famiglia romana e si trova a vivere in un mondo diverso da quello al quale era abituato. Ma l'elemento più disturbante si rivelerà il nuovo padrone, destinato a dare una svolta inaspettata a quello che credeva il suo destino già segnato.
Slash, tanto per cambiare U_U
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rimaniamo in un piacevole silenzio, interrotto solo dalle voci dei passanti fuori dalle mura di casa. Prima di andarmene abbozzo un sorriso, non so se lo vede. Non mi inchino, tanto so che a lui non interessa e l’idea di poter prevedere il comportamento di qualcuno, perché lo conosco, mi da una sensazione di strana familiarità. Mentre mi lascio assorbire dalle ombre dei corridoi, penso che un po’ di umanità potrebbe non essere una brutta cosa, in fondo. Al mattino mi sveglio poco prima dell’alba, ma stavolta rimango sulla brandina nell’angolo della stanza. mi poggio una mano sulla fronte, un nome che continua ad echeggiarmi nella testa. “Antares” mormoro, cercando di collegare quel gruppo di suoni a me. Perché secondo me vi assomigliate. Chissà, forse con il tempo mi ci riconoscerò. E così mi tiro a sedere, una mano tra i capelli e un sorriso incerto sulle labbra: oggi ho davvero un nome. Ed è diverso da quello di tutti gli altri.
“Ehi” mi giro a guardare lo schiavo che si è affacciato sulla porta. Non mi interessa dirgli come mi chiamo, mi risulta innaturale e sarebbe solo una perdita di tempo. “Cosa?”. “Oggi hai il turno alle fornaci. Muoviti”. Corrugo la fronte. Questa è una cosa che non ho mai fatto e il pensiero di passare ore sottoterra ad alimentare un fuoco non mi attira particolarmente. “Per quanto?” chiedo lapidario, trattenendo note scocciate. “Quattro ore. Poi arriva il cambio”. Non aggiungo altro, mi alzo e sistemo un po’ la tunica, irrimediabilmente stropicciata e sporca. Forse dovrei chiedere come averne una nuova, ma non voglio certo chiedere l’elemosina a nessuno. Mi sciacquo il viso e lo lascio un po’ bagnato, prevedendo il calore che dovrò affrontare da qui a dieci minuti. Per arrivare alle fornaci che riscaldano le terme bisogna scendere per una scaletta vicino al salone centrale, usato soltanto per le occasioni più che speciali. I colori dei mosaici sul pavimento sono tiepidi, riprendendo l’acqua cristallina della fontana in fondo alla sala, sopra la quale vi è una nicchia con un grande vaso bianco. Un secondo piano a soppalco è sostenuto da colonne con capitelli dorati e vi sono sistemati lettini con gambe d’argento. Mi perdo un secondo appena a guardare: decisamente questa casa è diversa dalle precedenti. Imbocco la scaletta e dopo pochi scalini l’umidità mi si attacca alla pelle. Il corridoio è quasi completamente buio, ad eccezione del bagliore rosso che proviene dal fondo. Quando entro nella sala delle fornaci mi manca di colpo il respiro.
È ancora presto e i fuochi sono stati accesi da poco, ma l’aria stessa sembra un incendio. Grandi tubi in bronzo portano il vapore nelle saune e a riscaldare il calidarium ma una parte rimane qui. Le immagini degli altri quattro schiavi al lavoro sono distorte dai movimenti d’aria calda e strofino gli occhi quando mi si appannano. Cerco di respirare il meno possibile e solo attraverso il naso, altrimenti la gola prende fuoco e tossire rende solo la situazione peggiore.
Una grande clessidra serve per regolarsi con i turni e non posso fare a meno di guardarla spesso, imprecando sottovoce perché quella maledetta sabbia sembra rallentare apposta. Il sudore mi attacca i capelli alla fronte e lo sento scivolare giù per la schiena, la pelle è arrossata per la vicinanza alle fiamme. Nessuno di noi parla. Prima uno, poi l’altro e infine il terzo di quelli che stavano qui da prima di me se ne vanno, sostituiti abbastanza puntualmente da nuovi. Il lavoro procede quasi senza interruzioni e il tempo passa. Non sono sollevato quando l’ultimo granello del mio turno scivola via, non lo sarò fino a quando non arriverà il sostituto. Mi affaccio un attimo all’entrata, ma non si vede nessuno. Sospiro, togliendomi il sudore dalla fronte. Riprendo il lavoro, l’ultima cosa che voglio è fare la figura del lamentoso o del debole. Sto spalando carbone alla base della fornace ardente, quando i polmoni sembrano non volerne sapere di trovare aria. Chiuso gli occhi, lasciando cadere la pala mentre raccolgo la testa fra le mani. Cerco di concentrarmi, di respirare. Ma tutto quello che sento è un calore insopportabile. E l’oscurità si fa più nera.
La prima cosa che sento, è un dolore che stringe le mani, taglia i polsi e sale su per gli avambracci. La seconda, che non fa più caldo, ma c’è una brezza piacevole che mi accarezza i capelli. La terza, è che qui c’è un buon odore. Con un po’ di fatica, apro gli occhi, incontrando un soffitto con fiori in legno. Corrugo la fronte: ma dove diavolo…Mi giro, incontrando il viso sorridente del padrone. E di nuovo non posso fare a meno di pensare che mi piace quando sorride. È più di un sorriso in effetti. Più uno strano demone, che mi ammorba la testa e riempie lo stomaco di un solletico caldo.
“Ti ho fatto portare nelle mie stanze” mi informa, sollevando le spalle. È seduto su uno sgabello a lato del letto dove sono sdraiato, le dita delle mani incrociate in grembo. “Dici che sparleranno?”. “Raramente…non lo fanno”. La voce mi è uscita terribilmente roca, come se per uscire fosse passata per una grattugia. Tossisco appena e la gola si trasforma in cenere. Lo vedo alzarsi e tornare con una coppa d’acqua. Mi guarda incerto, spostando lo sguardo dal mio viso alle mie mani. Sollevo le braccia il minimo indispensabile per vedere che sono ricoperte di fasciature. La mia espressione stupita e dubbiosa lo spinge a spiegarmi: “Sei caduto sui carboni”. Mi mordo un labbro, destabilizzato dal non sapere come la mia pelle sia ridotta lì sotto. Mi mancano solo delle cicatrici da scherzo della natura per continuare in bellezza. Il padrone si siede sul bordo del letto: “Metteresti da parte l’orgoglio per…”.
Sembra pensarci sopra: “…cinque secondi?”. Annuisco, nascondendo le braccia tra le lenzuola: “Potrei”. Accosta la coppa alle mie labbra, alzandola un po’ per volta per far entrare il liquido fresco nella mia bocca. Se fosse stato qualcun altro, probabilmente lo avrei già calciato via. Ma con lui è come se esistesse un secondo me e davvero, non sono tanto sicuro che questa sia una buona cosa. Anche perché come al solito non posso sperare in niente di buono, davvero non dovrei essere così stupido da farlo. Quando allontana la coppa e incontro di nuovo il suo viso assorto, il mio per reazione si svuota di tutto, rimanendo una maschera apatica. Si tira in piedi, poggiando la coppa su un tavolino e prendendo una ciotola, al cui interno si muove una strana crema troppo viscida per essere guardabile e troppo verde per i miei gusti critici.
Torna sullo sgabello dove sedeva all’inizio, indicando le mie braccia: “Posso?”. Sempre più confuso, incastro lo sguardo tra le lenzuola: “Perché me lo chiedi?”. Mi viene da stringere i pugni, ma una scossa di dolore me lo impedisce. “Sei il mio padrone, perché diavolo chiedi il permesso?”. Ho quasi urlato stavolta e ne pago il fio quando la gola si ribella. Lo spio con la coda dell’occhio, i pensosi occhi marroni presi in chissà cosa. Si scuote: “Troppa filosofia greca, immagino. O troppo Seneca”. Quasi con noncuranza prende la mia mano destra e la soppesa nella sua: “Ti faccio male?”. I punti dove mi tocca sembrano volersi sciogliere, ma si aspetta davvero che dica di sì? “No” borbotto. Scuote appena il capo: “Che bugiardo”. Con una delicatezza che non ho mai collegato a questa vita, scioglie le bende, scoprendo la pelle ustionata. Il vento leggero che arriva dalla finestra aperta scivola come una lama sulle bruciature, ma non voglio guardare. Non voglio scoprire segni che sono destinato a portarmi per la vita.
Maneggia la mia mano tra le sue, sollevandola un poco per scrutare il palmo. “Puoi guardare. Non è così grave”. Le palpebre semichiuse, mi allungo per vedere il braccio, sospirando di sollievo nel constatare che a parte un rossore eccessivo e qualche bruciatura non ci sono danni. Sorride di nuovo e stavolta, senza farlo apposta, sorrido anch’io. “Il medico ha detto che in meno di sette giorni tornerai praticamente come nuovo. Basta…” prende la ciotola con l’altra mano. “Metterci questo”.
Mi sporgo per annusare, storcendo il naso all’odore acre e portando indietro il collo. Poggia il braccio sulle lenzuola, continuando a tenere la mano sotto la mia: “Sembri un gatto”. Con due dita, spalma l’untume sulla pelle in lenti cerchi, il colore verdognolo che man mano si fa sempre meno evidente. Il dolore sparisce ed è piacevole, davvero piacevole. Non capivo perché la gente si facesse fare i massaggi, ora sì. Le palpebre si appesantiscono, cullate da vibrazioni che dal braccio salgono per la spalla e giù per la schiena, un torpore che per un attimo, finalmente, porta via tutti i pensieri. E davvero, non credevo che sarei mai riuscito a farmi toccare da qualcuno senza ribrezzo o vergogna. Risollevo le palpebre, non è il caso di addormentarsi. La lingua è pesante dentro la bocca e le parole si strascicano quando mi sforzo di metterle una dietro l’altra: “Chi…è Seneca?”.
Un lieve bagliore gli illumina gli occhi, ma muore quando torna a concentrarsi sull’opera in corso: “È stato molte cose”. Sorrido malignamente: “Ne sei ammiratore, eh?”. Con finta aria colpevole annuisce: “Per quanto si possa ammirare un uomo morto secoli fa”. Lo studio per qualche secondo, questo strano uomo che racconta le stelle e guarda a uomini polvere da tempo. “E che diceva?”. Sposta gli occhi ad incontrare i miei, due cancelli ad una mente che davvero deve pensare troppo: “Che gli uomini sono fatti della stessa sostanza, schiavi e liberi”. Per un attimo si immerge nei suoi pensieri, la voce un poco distante: “E uno schiavo può essere libero nell’animo”. Abbozza un sorriso imbarazzato, prendendo delle bende pulite da in fondo al letto. Perplesso, cerco di assorbire quelle parole. Non che io non le abbia mai pensate, ma sentirle dire da un padrone è tutta un’altra cosa: “Tu…sei davvero…particolare”.


Grazie per aver letto! Se avete tempo, mi piacerebbe una vostra opinione! :D Grazie!
  
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