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Autore: yeahbuddie    10/02/2012    5 recensioni
C’era il sole, che splendeva caldo e luminoso nel cielo azzurro, senza neanche un accenno di nuvola; il mare era di un colore tra il turchese e il celeste, mentre la sabbia fina era chiara e morbida, umida sotto il tocco dei piedi bagnati dalla schiuma che si formava sulla riva. Era il paradiso, nel vero senso della parola, e in ventiquattro fottutissime ore, avrei finalmente potuto respirare di nuovo quell’aria fresca e salata che tanto mi mancava.
Ventiquattro ore.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Styles
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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I'm coming home, I'm coming home
tell the world I'm coming home
let the rain wash away, all the pain of yesterday.
p. diddy - coming home


Come le mattine precedenti, mi svegliai tranquillamente, sciacquandomi la faccia nel piccolo lavello e lavandomi i denti accuratamente. Infilai le scarpe con altra stessa tranquillità, per poi sistemare la coperta per bene sopra il letto e sedermi ci sopra senza sgualcirla.
Dovevano essere le 9.00, perché il mio vicino di cella si stava svegliando in quel preciso momento. L’avevo sentito parlare del suo problema nel dormire con una delle guardie di turno di notte, a cui aveva raccontato che da quando la moglie morì un anno prima, esattamente a quell’ora, si era svegliato tutte le mattine nello stesso modo, alla stessa ora e pensando sempre a lei. Più lo guardavo e più mi convincevo che forse non meritava di stare lì, in quel posto lercio e umido: sembrava un brav’uomo. D’altro canto però, anch’io sembravo una brava ragazza, eppure l’avevo combinata grossa. O meglio, loro credevano che l’avessi combinata grossa, mentre in realtà io non avevo fatto altro che “appoggiare” quelle persone che consideravo degli amici.
Jack e Ryan erano amici fin dall’infanzia: erano cresciuti insieme per le strade di Baltimora, frequentando gente non del tutto brava, per poi trasferirsi a Los Angeles, in cui li incontrai alla “New Disco”, una discoteca sulla Sunset Boulevard. Mi avevano colpita fin da subito per il modo in cui ballavano in mezzo alla pista, attirando su di loro tutta l’attenzione, così non appena finirono il loro numero, andai dritta a conoscerli.
Parlammo del più e del meno, e dal giorno dopo iniziammo ad uscire e divertirci, finché loro non conobbero la mia storia ed io la loro. Non eravamo migliori amici, ma semplici amici, che però si supportavano l’un l’altro. Almeno lo facevano finché non successe il putiferio.
Uno dei nostri soliti pomeriggi si stava svolgendo alla grande, finché Jack non disse di avere un “piano” per andar via di lì, da Los Angeles. Ovviamente non volevo lasciare quella città, ma volevo lasciare quello stile di vita, che non era quel che avevo sempre immaginato per me.
Jack disse che aveva degli amici nel sud dell’Australia, e che sarebbe bastato semplicemente comprare i biglietti aerei, perché non appena arrivati avremmo alloggiato da quei cosiddetti “amici”. Ryan – che era il più serio, intelligente e carino tra i due – si era trovato d’accordo con lui, come me, ma il punto era che non avevamo quei soldi, né avevamo qualcuno a cui chiedere un prestito. Io, oltretutto, ero segregata nell’orfanotrofio, in cui sarei dovuta rimanere fino al compimento dei diciotto anni, per cui non avrei potuto chiedere dei soldi a qualcuno di lì. L’unica soluzione era di trovarci un lavoro tutti e tre, ma nessuno di noi voleva aspettare, così Jack continuò con la sua idea, dicendo che l’unico modo in cui avremmo potuto avere quei biglietti era andare a prendere dei soldi, il che mi confuse parecchio finché Ryan non sbottò.
«Stai scherzando?!» Urlò all’amico, che aveva subito assunto un’espressione rabbiosa ma decisa. «Non voglio finire in prigione di nuovo per le tue stupide stronzate, scordatelo. Non farò nessuna rapina, e nemmeno Allie.» Finendo la frase, aveva spostato per un attimo lo sguardo su di me, per poi riposarlo sull’amico che spostava frettolosamente il suo da Ryan a me.
Al sentire la parola “rapina” sussultai, per lo spavento e per la sprovvista. Non avevo mai fatto niente di pericoloso, che mi avesse mai messa in pericolo di vita né di libertà, e non avrei di certo iniziato in quel momento. Certo, mi era capitato di rubacchiare di qua e di là, ma solo cose di poco conto, e l’avevo fatto per divertimento. Dovevo pur passare il tempo, no? Ma fare una rapina, con tanto di armi e la possibilità di ferire qualcuno.. no. Mai.
Eppure, tre giorni dopo, ci eravamo ritrovati tutti e tre fuori dalla banca centrale di Wild Road, in attesa del poliziotto di turno che tornasse alla centrale, lasciandoci quindi via libera. Ryan, dopo aver accettato con riluttanza, aveva espresso chiaramente che io non avrei toccato armi, né tantomeno sarei entrata in quella banca. Avrei aspettato fuori di essa, facendo da palo, mentre lui e Jack avrebbero svolto il lavoro sporco.
Così mi ero ritrovata, quasi un’ora dopo, circondata da macchine della polizia, cittadini spaventati e ambulanze che erano venute in soccorso di alcuni spari provenienti dalla banca. Ero più che sicura che nessuno dei due avesse sparato a qualcuno dei presenti, eppure non potevo non preoccuparmi, non volevo finire più nei guai di quanto già ero, e non volevo che nessuno si facesse male, soprattutto Ryan.
In quegli anni, era stato come un fratello maggiore per me, e in un certo senso mi aveva aiutata a crescere. Avevamo solo due anni di differenza, eppure era piuttosto maturo per la sua età, non ché un gran bel ragazzo.
Non appena i poliziotti fecero irruzione all’interno della banca, si udì un altro sparo, ma quando finalmente uscirono tutti fuori, non c’era nessun ferito, ma due arrestati. Il primo, Ryan, si era completamente arreso ai due poliziotti che gli tenevano le mani dietro la schiena, e continuava a guardare a terra, cercando il più possibile di non guardare verso di me. Ero sicura che non volesse mettermi in mezzo, nonostante io avessi partecipato a tutto ciò, perciò per non dare nell’occhio evitava di guardarmi o di lanciarmi occhiate sfuggenti. Jack però, si ribellava e dimenava a destra e a manca, scuotendo le braccia dietro la schiena tentando di liberarsi dalle manette. La pelle color mogano non aiutava ad alleviare la sua espressione non molto docile, al contrario, lo faceva sembrare ancora più rabbioso. Tra lui e Ryan, Jack era sempre stato il più irascibile e impulsivo, ma finché non fissò me urlandomi contro, non avrei mai pensato che fosse anche così stronzo.
Aveva urlato alla gente attorno a me – che me ne stavo in disparte accanto ad una delle entrate della banca, affianco alcuni cittadini spaventati – che dovevo essere arrestata, che avevo collaborato e che meritavo quel che avrebbe subito lui. Io ero troppo spaventata e senza parole per reagire, così non mi opposi e fissai quel Jack infuriato, mentre davanti a lui Ryan iniziò a sbraitare urlandogli di stare zitto. Il tutto, portò i poliziotti alla conclusione che c’entravo anch’io, e il fatto che non mi muovessi né dicessi niente non aiutava. Per cui, dopo esser stata ammanettata, fui portata alla centrale, per poi essere portata al carcere minorile appena un’ora dopo.
Gli assistenti sociali, seguiti da un’Afrodite piuttosto incazzata, erano arrivati un millisecondo dopo il nostro arrivo in centrale, e non potendo far altro che trovare un accordo con il giudice, decisero di farmi scontare la pena in tre mesi di gattabuia, o come la chiamano semplicemente tutti, prigione. Scontati quei tre mesi, sarei tornata in orfanotrofio, sotto stretta sorveglianza e rigidissime regole. Perciò, ora che avevo scontato quella pena, sarei dovuta rigare dritta, a meno che non volessi fare un’altra visita di tre mesi ai miei ormai compagni di avventure, i carcerati delle celle affianco.
Un ticchettio nervoso sulle sbarre metalliche mi distolse immediatamente dai miei pensieri, facendomi tornare a quella bruttissima realtà.
«E’ ora della doccia.» Ordinò secco Fred, col suo solito tono autoritario.
Fred era una delle guardie di turno quella mattina, nonché una delle guardie che più odiavo. Anzi, a dire la verità le odiavo tutte a parte Paul, ma il suo tono sempre duro e autoritario di certo non gli dava punti in più in simpatia.
Presi al volo i vestiti che mi erano stati riconsegnati il giorno prima, e mi diressi alle docce seguita da Fred, il quale camminava così dritto da sembrare avere una scopa infilata su per il culo. Era un uomo sulla quarantina, normalmente alto e normalmente muscoloso, con occhi e capelli scuri e le labbra sempre rivolte all’ingiù, in un’espressione dura e scocciata.
Lui avrebbe aspettato fuori le docce pubbliche, mentre Afrodite – quella che nelle scuole normali sarebbe stata chiamata “preside” – firmava cartelle e documenti per il mio rilascio.
Quindici minuti dopo, ero linda e pinta, e mi stavo dirigendo verso l’uscita di quello schifosissimo carcere, sotto il sole cocente della California.
Non appena misi piede fuori la porta spessa, ispirai ed inspirai lentamente l’aria fresca di quella mattina, sorridendo. Camminai poi frettolosamente verso l’enorme cancello di metallo, da cui spuntò una testa bionda che sbirciava chi stesse per uscire.
«Non farti vedere mai più qui.» Scherzò lui, assumendo la solita posizione da duro, che fu schermita dal sorriso malinconico che gli apparve pian piano sulle labbra.
Mi fece tenerezza, era un bravo ragazzo, ed era l’unica persona in quel posto che non avevo mandato a farsi fottere dopo averci parlato una sola volta. Mi piaceva Paul, era simpatico e sempre premuroso con me, nonostante non mi conoscesse. Però ogni tanto, durante i suoi turni di guardia all’interno tra le celle, si era fermato davanti alla mia piuttosto frequentemente, per cui parlammo spesso del più e del meno, conoscendoci poco a poco.
Mi disse fin da subito che aveva sempre voluto lavorare in polizia, essendo una sua passione da quando era bambino, tramandata di generazione in generazione, e poi disse che in futuro, avrebbe voluto trovare la ragazza perfetta per lui, quella da rendere felice per il resto della sua vita. Era davvero un bravo, bravissimo ragazzo, e se non avesse avuto ventisette anni – quindi dieci in più di me – magari ci avrei fatto un pensierino. Era carino e gentile, e speravo davvero che riuscisse a trovare una donna per il suo futuro, meritava di essere felice.
Mi sarebbe mancato un po’, ma me ne sarei fatta una ragione: non volevo passare un minuto di più là dentro. «Non lo farò, non preoccuparti.» Lo rassicurai, ricambiando il sorriso.
Avrei voluto abbracciarlo, ma il suo lavoro non glielo permetteva, data anche la guardia di turno con lui che guardava la scena insistentemente.
«Non c’è due senza tre!» Continuò Paul scherzando, mentre io assunsi una finta espressione offesa, che subito tramutò in un sorriso.
«Ci vediamo, Paul.» Lo salutai con la mano, indietreggiando, mentre lui rispose con un semplice cenno del capo, sorridendo nuovamente mentre assumeva la posizione da guardia.
Non mi voltai nemmeno una volta verso il carcere: i miei piedi fuori quel posto volevano significare solo libertà, perciò mi limitai a salire nel suv di Afrodite, quasi ignorandola seduta al volante. Lei non disse niente, semplicemente accese il motore e partì, guardando la strada.
«Sai che quel che ti aspetta ora è completamente diverso da quel che facevi prima, vero?» Domandò poi all’improvviso, lanciandomi di tanto in tanto delle occhiate sfuggenti.
«Lo so.» Risposi sospirando, guardando fuori dal parabrezza la luce del sole che risplendeva su di esso. «E manterrò un atteggiamento corretto.» “Atteggiamento corretto”, wow. Sapevo benissimo che era esattamente quel che voleva che dicessi, come sapevo benissimo che però non credeva a nessuna di quelle parole.
Non si era mai fidata di me, fin da quando mi aveva accolta, eppure non replicò né fece la sua solita espressione accigliata; semplicemente continuò a guidare. Per me però, c’era troppo silenzio, così spinsi il pulsante tondo sullo stereo e lo accesi. Stavano trasmettendo una delle mie canzoni preferite, “Someone like you” di Adele, la mia cantante preferita.
Quella canzone mi colpì fin da subito, quando mesi precedenti avevo ascoltato i primi tre secondi, prima di decretare che mi piacesse.
Era una canzone lenta ma profonda, e piena di significato. Parlava della fine di un amore, e anche se non era sicuramente il mio caso, riuscivo a commuovermi ogni volta che l’ascoltavo. Mi lasciai cullare dalla melodia lenta, accompagnata dalla sua voce calda e potente. “I wish nothing but the best for you, too.” La canticchiai mentalmente, finché la mora accanto a me non parlò.
«Potresti abbassare il volume?» Chiese con fare scocciato, scuotendo la testa.
Ma dai, non potevo godermela una canzone? «E dai, Afro, lasciami vivere finché non arriviamo a casa.» Le risposi scherzando, anche se c’era un fondo di verità.
La vidi stringere un poco le mani attorno al volante: odiava quando la chiamavo Afro, eppure non riuscivo a farne a meno, guardando divertita ogni volta che il suo viso passava dal roseo al viola, per la rabbia. Afrodite – non avevo mai capito che razza di nome fosse – sospirò, continuando a guardare la strada ma senza protestare ancora.
 
Un’ora e venti canzoni dopo, eravamo tornate in quello stupido orfanotrofio,
pieno di stupidi bambini e stupidi tutori.
Al nostro arrivo, i bambini che stavano giocando nell’enorme prato, continuarono a giocare, mentre i ragazzi più grandi, che giravano per la casa, non mossero un ciglio nel vedermi. Non che mi aspettassi un enorme manifesto di bentornato, ma almeno un “bentornata” non gli faceva cadere la lingua né perdere la voce. D’altronde, vivevo con quei ragazzi da parecchi anni ormai, per cui mi aspettavo almeno un minimo di solidarietà.
Appena entrate, Afrodite era andata in direzione, dicendomi di aspettarla nell’atrio, cosa che ovviamente non feci. Volevo vedere se in quei noiosissimi tre mesi fosse cambiato qualcosa, perciò feci un giro per l’orfanotrofio, che sembrava più una casa lugubre, di quelle antiche. Era proprio come ci si immagina essere un orfanotrofio: noioso, spento e un po’ lugubre.
Quando arrivai nel salotto, trovai alcuni ragazzi – gli unici con cui avessi mai parlato – intenti a guardare un qualche stupido programma televisivo.
«Che programma è?» Chiesi avvicinandomi silenziosamente, facendo sussultare quasi tutti.
«Niente che ti interessi.» Rispose bruscamente una bionda: Lucy. Mi era sempre stata sulle palle, almeno quanto io a lei, e pure se era di un anno in meno di me, era piuttosto stupida per la sua età, in quanto si presuppone che le ragazze siano più mature dei ragazzi, a prescindere dall’età.
«Margaret ha detto di essere gentili!» Bisbigliò qualcuno alla bionda, qualcuno che non conoscevo. Molto probabilmente era arrivato durante i miei tre mesi di assenza, anzi, quasi sicuramente era così.
Il ragazzo sembrava un po’ troppo alto – per qualunque età avesse – e aveva capelli ed occhi scuri, che si contraddicevano con le tante lentiggini che gli coprivano il viso. Sembrava carino, ma non so perché, sembrava uscito da Harry Potter.
«Qualcuno ha capito come funziona allora.» Risposi ai due, istigando la bionda.
«Se sei tornata per rompere le palle, puoi anche tornartene in prigione!» Disse lei quasi urlando, alzandosi dal divano. Io non avevo mosso un dito, restando con le braccia conserte accanto al divano, guardando divertita la bionda sbottare. «Aspetta, magari ti hanno fatta uscire perché non ti sopportano nemmeno là.» Continuò.
«In realtà,» cominciai io, avvicinandomi a lei lentamente, mentre il suo sguardo passò da minaccioso ad impaurito. «Mi hanno rilasciata dopo solo tre mesi perché si erano rotti le palle a sentirmi dire quanto mi mancavi.» Dissi ironicamente, dandole un lieve schiaffetto su una guancia, di quelli che di solito si danno ai bambini quando fanno qualcosa di giusto.
Nonostante non l’avessi presa a parolacce né le fossi saltata addosso, riuscii a vederle gli occhi rigarsi di lacrime, che però non scesero. Andiamo, non avevo ucciso né mai sparato a nessuno, che diavolo era tutta quella paura?
«Se la sta facendo addosso.» Sentii sussurrare a una ragazza, susseguita da un risolino dell’amica.
«Adesso basta.» Stavolta fu il turno di Mark, il più grande tra tutti i ragazzi dell’orfanotrofio. Avevo riconosciuto subito il suo tono autoritario, nonostante fosse nascosto dietro alcuni ragazzi, accovacciati per terra per guardare la tv.
Mark era lì da prima di me, forse da prima di tutti, e se non fosse stato sempre per i fatti suoi, credendosi “uno duro”, molto probabilmente saremmo andati d’accordo, e il fatto che fosse piuttosto carino, lo aiutava non poco. Era alto abbastanza per la sua età – aveva diciott’anni – come aveva anche abbastanza muscoli, nonostante non avessimo esattamente una palestra lì, ed era decisamente il mio tipo. Aveva gli occhi azzurri e i capelli scuri e spettinati, di un nero corvino.
«Lasciala stare, e va’ a fare quel che devi fare.»
«Ma come siamo protettivi oggi!» Risposi ironicamente, guardando il gruppetto che si era formato attorno a Lucy, ancora impaurita.
«Ci avrei scommesso che eri tu.» Stavolta, fu una nuova voce a parlare, una voce che però conoscevo fin troppo bene.
«Mary!» Dissi allegramente, non appena la ragazza – che camminava lentamente, a braccia conserte – fece capolino tra le altre teste.
«Mi sei mancata.» Le dissi non appena si avvicinò, parandosi di fronte a me.
Ovviamente non era vero, e tutti lo sapevano, ma mi piaceva punzecchiarla quanto a lei piaceva sfottere me. «Si sentiva la tua mancanza lì dentro, magari la prossima volta vieni con me, eh?»
«O magari, la prossima volta, ci resti più tempo, eh?»
«Dai, ammettilo che ti sono mancata.» Continuai, dandole una leggera gomitata. Lei non replicò, e non appena le poggiai un gomito su una spalla, Afrodite entrò nel salotto, con un’aria furiosa.
«Ti avevo detto di aspettarmi nell’atrio, non cominciare subito a combinare guai!»
«E dai, Afro, ero venuta a salutare i miei compagni di avventure.» Risposi alla donna, che si avvicinò frettolosamente, prendendomi poi per un braccio.
«Allora risalutali, perché devi salire in camera tua e restare lì fino all’ora di cena: sei segregata.»
Cosa? Niente più libertà? Neanche un po’ di tv o non so, vita sociale? Tanto valeva restare in prigione allora.
Non appena sparimmo dietro l’ampia porta dell’enorme salotto, sentii i ragazzi con cui ero poco prima sospirare allegramente.
“Idioti.”
Passammo in rassegna quasi tutto l’orfanotrofio, dato che la mia stanza era il più lontano possibile dalla porta – e da qualsiasi altra via d’uscita – e al piano più alto, perciò quando passammo davanti ad una stanza in particolare, mi fermai di botto, facendo quasi inciampare Afrodite. Quasi, purtroppo.
Sentii la donna dietro di me sbuffare impazientemente, ma la ignorai e guardai dentro la stanza, quella che usavamo chiamare “la sala della musica”. Non era un granché grande, ma lo era abbastanza da contenere un pianoforte a coda, vari leggii, dei porta chitarre ed un organo, il quale veniva usato per la messa della domenica, alla quale mi ero astenuta dal mio primo giorno in quel posto, in quanto fossi atea.
Ovviamente il mio sguardo si posò su quel che tanto amavo, il pianoforte. Il mio pianoforte.
Okay, forse “mio” non era l’aggettivo giusto, ma ero l’unica che era capace di spingere più di due tasti senza stonare, il che rendeva tutti gli altri meno partecipi al tentare di imparare a suonarlo.
Mi voltai verso Afrodite, guardandola implorante. «Ti prego.» Dissi solamente. Sapeva quanto amassi quel pianoforte, e sapeva quanto amassi la musica, la quale era l’unica cosa al mondo capace di trasmettermi emozioni.
Vidi un lampo nei suoi occhi, ma non dubitò un secondo. «Hai solo dieci minuti.» E detto ciò, sparì lungo il corridoio, ticchettando sul pavimento con i suoi soliti tacchi dodici, i quali la rendevano ancora più alta di quel che già era.
Non esitai un attimo a sedermi sullo sgabello, non curandomi della polvere accumulata su di esso negli ultimi tre mesi. Mi sedetti e basta, poggiando subito un piede su uno dei tre pedali, poggiando lentamente le dita su alcuni dei tasti centrali.
Avevo imparato a suonarlo nel corso degli anni, anche se quando ero piccola avevo preso alcune lezioni private, in quanto amassi quel particolare strumento, perciò conoscevo a memoria abbastanza canzoni da fare un concerto.
Mi buttai sul classico, e lentamente, iniziai a suonare “Per Elisa” di Beethoven, un classico.
Mi, re, mi, re, mi, sol, re, do, la..”
Mi lasciai cullare di nuovo dalla musica, lasciando che le mie dita spingessero leggere sui tasti, mentre lentamente chiudevo gli occhi.
Finita la canzone, mi alzai di malavoglia, salendo in camera in cui trovai tutto come l’avevo lasciato. Il letto sembrava aver raccolto più polvere di uno Swiffer, ma sapevo che non era così, in quanto Margaret non lo avrebbe mai permesso.
Margaret era una specie di custode dell’orfanotrofio, ed era anche la persona più buona e gentile che avessi mai conosciuto, non che ne avessi conosciute tante, ma lei comunque le superava tutte. Era una donna sulla sessantina, in carne come la maggior parte delle donne erano sulla via dei settant’anni, e portava sempre i capelli ramati raccolti in delle crocchie disordinate. Era una specie di mamma lì dentro, o forse più una nonna, e le volevo davvero bene. Era l’unico motivo per cui non avrei mai voluto lasciare quel posto, in quanto fosse l’unica persona che mi volesse davvero bene, o forse dire che fosse l’unica persona che non mi odiava, era più appropriato. Eravamo almeno cento orfani lì, e tra quei novantanove non ce n’era uno a cui andassi a genio, nonostante la maggior parte di loro non mi avesse neanche mai parlato. Tutto ciò mi rendeva incredibilmente forte ma allo stesso tempo.. sola.
Quasi l’avessi chiamata, Margaret spuntò sul ciglio della porta, sorridendo a trentadue denti non appena mi vide. Mi alzai di scatto, correndo verso di lei e abbracciandola; diamine se mi erano mancati i suoi abbracci. Ma ancor di più, mi era mancata quella sensazione di essere amata, almeno da qualcuno. Le volevo davvero bene, e rivederla dopo tre lunghissimi mesi, era un bentornato più che perfetto.
Quando la sentii staccarsi dall’abbraccio, di malavoglia lo feci anch’io, fissandola poi nei suoi bellissimi occhi grigi che tanto mi erano mancati.
Margaret poggiò le mani sulle mie spalle, squadrandomi poi dietro quel suo sguardo glaciale, ma allo stesso tempo dolce e caloroso. «Non sei cambiata di una virgola.» Disse infine, sorridendo.
«Neanche tu,» le risposi, sorridendo di rimando. «Oh, aspetta, è un capello bianco quello?» Domandai scherzando indicando un punto dei suoi capelli raccolti nella crocchia disordinata.
«Troppi ne ho, di capelli bianchi.» Disse sospirando, per poi sorridere calorosamente. «Afrodite ti vuole giù.»
Ciò mi confuse non poco, in quanto Afrodite mandasse sempre su qualcuno a riferirmi quel che aveva da dire, o piuttosto saliva lei stessa. Oltretutto, l’avevo vista fino a neanche quindici minuti prima, che voleva ancora? Aveva già detto che ero stata segregata, il che aveva decisamente rovinato la mia vita fino ai diciott’anni.
«Ma ci ho parlato prim.. Perché sorridi così?» Mi interruppi, notando il sorriso della donna di fronte a me allargarsi sempre di più. Margaret non rispose, limitandosi a sorridere energicamente, facendomi cenno di sbrigarmi a scendere.
Se la ragione per cui Margaret sorrideva così tanto mi aspettava di sotto, non avrei esitato a saperla. Così la guardai un momento, dirigendomi poi di corsa al piano di sotto, in cui trovai nell’atrio parecchi visi sconosciuti.
Era il giorno dell’adozione, il che significava che parecchi – in quanto c’era parecchia gente nell’atrio – bambini se ne sarebbero andati. Nessuno adottava mai uno dei ragazzi, in quanto fossero appunto “ragazzi”. Erano decisamente l’opposto di quel che la gente voleva in casa: un ragazzino piccolo e carino da amare e coccolare come se fosse tuo. Perciò durante ogni giornata dell’adozione, se ne andavano parecchi bambini, anche se ne arrivavano altri i giorni successivi, i quali, prendendo il posto di quelli prima di loro, davano modo all’orfanotrofio di essere sempre pieno.
Non mi fermai a guardare i futuri genitori dei miei “coinquilini”, ma sempre di corsa, mi diressi verso l’ufficio di Afrodite, in cui trovai lei accomodata dietro la sua scrivania, e due figure che davano le spalle alla porta – e a me.
Non appena entrai, Afrodite si alzò, e le due figure si voltarono verso di me, alzandosi di loro volta. Il primo era un uomo, che doveva avere all’incirca trent’anni, mentre la seconda figura, una donna, sembrava poco più giovane. L’uomo aveva dei capelli corti e ricci, di un colore tra il castano e il biondo cenere, che completavano l’opera con degli occhi castani e gentili, come quelli della donna che però, al contrario, erano di un verde così chiaro da sembrare trasparente. Lei era bionda, e teneva i capelli legati in una coda perfetta.
Mi guardarono entrambi, il primo accennando un sorriso e l’altra guardandomi con aria un po’ preoccupata.
Avanzai lentamente, cosa che fece anche Afrodite, mettendosi dietro a me e poggiando le mani sulle mie spalle, come aveva fatto poco prima anche Margaret.
«Alyson, loro sono Will e Sarah.» Parlò la mora, con tono estremamente felice e gentile.
C’era qualcosa che non andava. C’era sicuramente qualcosa che non andava.
Afrodite usava quel tono solo quando parlava con qualcuno in procinto di adozione, o quando facevo qualcosa di buono e non stupido, cioè raramente.
Guardai per un momento le due persone davanti a me, per poi piegare la testa e guardare la donna dietro di me, con sguardo confuso.
Lei ricevette il messaggio all’istante, e subito aprì bocca per spiegare, ma fu interrotta dall’uomo, Will.
«Ti ho sentita suonare.» Disse lui, piatto, accennando un sorriso. «Stavamo facendo il giro della casa e quando siamo passati davanti all’aula di musica, non ho potuto fare a meno di ascoltarti.» Continuò, in quanto io non accennassi ad aprire bocca.
«Will dirige una scuola di musica,» Spiegò Afrodite, sorridendomi. «E vorrebbe che tu entrassi a farne parte.»
Scuola di musica? Okay, sarebbe stato più che grandioso, ma non avevo lasciato la scuola per niente. Riprendere sarebbe stata più che una faticaccia, e oltretutto io non cantavo. O meglio, cantavo sotto la doccia, ma quello non è cantare, perciò, a meno che Will non accettasse anche semplici pianisti, non era la scuola adatta a me.
Non risposi però, volendo ascoltare il resto, prima di accettare.
«La scuola si trova a Beverly Hills.» Riprese Afrodite, sorridendo ai due.
Beverly Hills? Ma era.. no, non poteva essere.
L’orfanotrofio si trovava nella cittadina di San Louis, che era piuttosto distante da Beverly Hills, almeno due ore di macchina, il che non rendeva possibile la mia frequentazione in quella scuola, a meno che… No, era stupido anche solo pensarlo. Nessuno adottava adolescenti. Mai.
Guardai i tre con sguardo più che confuso, aspettando una risposta che però non arrivò. Al contrario, Afrodite diede voce ai miei pensieri.
«E’ ora di andare.» Disse semplicemente, come se fosse una cosa ovvia, come se mi stesse ordinando di andare a fare la spesa.
“E’ ora di andare”. Quella frase risuonò nella mia testa in quegli interminabili cinque secondi in cui nessuno parlò.
Avevo una voglia sfrenata di correre di sopra per cacciare un urlo e buttarmi sulla valigia, riempiendola di tutta la mia poca roba per poi saltare dai gradini come una forsennata, non vedendo l’ora di andarmene. Non lo feci però, piuttosto cercai di mantenere la calma esteriormente, anche se dentro stavo morendo dalla gioia, e per fortuna, Afrodite parlò di nuovo. «Will e Sarah sono venuti questa mattina dopo averci telefonato la settimana scorsa, in cerca di un bambino in adozione.» Spiegò sorridendo. «Hanno preso un appuntamento e sono venuti in settimana per dare un’occhiata, mentre tu eri in vacanza, e..» Un momento. Ha detto vacanza? Ha sul serio detto vacanza? Lo aveva detto con così nonchalance che stava iniziando a farmi innervosire. «Beh, il succo è che hai due minuti per fare le valigie.» Concluse poi sorridendo, ancora tenendo le mani sulle mie spalle.
La guardai per un attimo, per poi spostare lo sguardo sui due sorridenti davanti a me, e poi correre di sopra in un battibaleno. Prima di sparire, avrei potuto giurare di averli sentiti ridere.
Non potevo credere che sarei andata via, era impossibile. Forse era tutto un sogno, forse in realtà ero ancora rinchiusa in quella cella a contare i giorni, o forse non c’ero neanche mai stata realmente lì dentro. Non potevo dirlo finché non avessi davvero messo piede fuori da lì.
Aprii la porta della stanza con forza, spingendola, e dentro ci trovai una Margaret sorridente seduta sul letto. Amavo il suo sorriso, era di quelli che non avevo mai ricevuto da nessuno, di quelli calorosi che di solito una madre da’ ai suoi figli, o una nonna ai suoi nipoti. Ed io non avevo mai avuto nessuna delle due.
Corsi ad abbracciarla non appena mi vide, e mi accorsi di star piangendo solo quando lei mi scostò un poco per asciugare quelle lacrime che erano scese così frettolosamente. Mi sembrava di tremare, o forse che lo stesse facendo il pavimento sotto ai miei piedi, ma non me ne curai molto; abbracciai di nuovo Margaret, che ricambiò subito avvolgendomi in uno dei suoi soliti calorosi abbracci.
«Vedi di non combinare guai.» Disse d’un tratto, ancora stretta nell’abbraccio. Il suo tono era felice, ma sapevo che era più seria che mai: teneva a me quanto io tenessi a lei, e non voleva che finissi di nuovo in quel posto. «E non farti più vedere qui.» Continuò poi.
«Mi mancherai, Maggie.» Strinsi un po’ di più l’abbraccio, per poi staccarmi e guardarla negli occhi grigi. «Non so come farò senza di te.» Forse era un po’ smielato, o forse troppo melodrammatico, ma era lei che mi aveva aiutata ad andare avanti in tutti quegli anni, e mi sarebbe mancata terribilmente.
«Farai tanto, e farai bene» rispose, fissando gli occhi piccoli e color ghiaccio nei miei. «E mi mancherai anche tu.» Mi abbracciò al volo, per poi sciogliersi dall’abbraccio allo stesso modo. «Forza, prepara le valigie, o a Natale starai ancora qui.» Ordinò dandomi una leggera pacca sulla spalla, allontanandosi per uscire dalla stanza. Quando si voltò per sorridermi, la vidi alzare un braccio e asciugarsi una lacrima, e non appena fu fuori della stanza, scoppiai a piangere. Se per la felicità o per il doverla abbandonare, non seppi dirlo, ma fatto sta che piansi, ed io non ero una dalla lacrima facile.
Mi voltai lentamente, raccogliendo la mia poca roba e buttandola a caso nella valigia. Prima di uscire dalla stanza, mi fermai davanti allo specchio, asciugandomi gli occhi bagnati, e quando notai un blocchetto di post-it sulla scrivania di Mary, staccai un foglio e recuperai una penna.
“So che non siamo mai state grandi amiche, o forse nemmeno amiche, ma grazie per quel che hai fatto e non hai fatto in questi anni. Mi mancherai, Mary.” Scrissi il tutto frettolosamente, attaccando poi il post-it sullo specchio e uscendo di corsa dalla stanza.
Al piano di sotto trovai solo Afrodite, che molto probabilmente aveva detto agli altri ragazzi di far fare il giro della casa ai “futuri genitori”, togliendoseli così dai piedi. Neanche Margaret c’era, e mi dispiacque e non allo stesso tempo, perché vedendola, avrei sicuramente esitato ad uscire da lì, nonostante fosse quel che aspettavo da tutta la vita.
«Alla prima che fai torni qui, perciò comportati bene, sono delle brave persone e ti stanno dando un’opportunità che tu neanche immagini.» Afrodite aveva usato un tono serio, il solito tono che metteva su quando parlava con.. tutti? Ma sapevo che le sarei mancata almeno un po’, ero l’unica persona che tenesse in vita quel posto.
Non le risposi, mi limitai ad annuire solennemente, per poi abbracciarla.
La presi alla sprovvista, perché restò tutta gobba – in quanto fosse piuttosto alta – tenendo un braccio alzato, per poi poggiarlo sulla mia schiena ricambiando l’abbraccio un po’ goffamente.
Mi staccai poco dopo, e rivolgendole un sorriso, uscii fuori, dove accanto al cancello c’era una Land Rover di un nero così lucido da potercisi specchiare. Will e Sarah mi aspettavano davanti all’auto, sorridendomi non appena mi videro.
Era un po’ – tanto – imbarazzante, non sapevo che dire né che cosa fare, e loro non sembravano da meno, così si limitarono a sorridermi, per poi salire in macchina (Sarah) e mettere la mia valigia nel bagagliaio (Will).
Salii con noncuranza, come se fosse una cosa che facessi da sempre, accettare “passaggi” da sconosciuti. Non volevo mostrarmi nervosa, anche perché ero quasi sicura che entrambi lo erano almeno quanto me, se non di più dato che d’ora in poi avrebbero dovuto occuparsi di un’adolescente. Certo, sapevo badare a me stessa, ma avrei dovuto rigare dritto se non volevo tornare di nuovo là dentro, e di quel posto ne avevo abbastanza. Mi ci avevano portata quasi undici anni prima, ed ero più che sicura che non mi sarebbe mai mancato quel posto.
Salito in macchina, Will accese subito la radio, forse per smorzare quel silenzio imbarazzante, o forse perché amava ascoltarla, in quanto avesse una scuola di musica.
«Perché hai una scuola di musica?» Chiesi ad un tratto, senza rendermi subito conto di averlo davvero detto ad alta voce.
«E tu perché hai i capelli rossi?»
Come sapeva che ero tinta? O forse non lo sapeva ma aveva semplicemente voluto rispondere con un’altra domanda.
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda.» Dicemmo io e Sarah all’unisono. Non mi piaceva quando la gente evitava le domande rispondendo con esse, perché voleva dire che non volevano rispondere, e quindi che nascondevano qualcosa.
Mi faceva piacere che Sarah la pensasse così: saremmo sicuramente andate d’accordo. Era giovane – più o meno sulla trentina, o forse meno – ed era una bellissima donna; mi piaceva esteriormente, e sicuramente sarebbe stato altrettanto con l’altro lato.
Sarah si voltò verso di me, sorridendo, per poi guardare Will con aria di rimprovero, a cui lui rispose con una scrollata di spalle, ridendo.
«Ho una scuola di musica perché amo la musica.» Cominciò. «Qualunque tipo di musica, suonata in qualsiasi modo e con qualsiasi strumento. Amo la musica in tutto e per tutto, fa parte di me sin da quando ero bambino.. Tu perché sei rossa?»
«Fa parte di me sin da quando ero bambina.» Risposi con un’alzata di spalle, mentre lui sorrise, spostando lo sguardo dalla strada a me, attraverso lo specchietto retrovisore.
Sarah rise, voltandosi verso il finestrino. Mi piaceva la sua risata, era dolce e cristallina, difficile da dimenticare, e forse era proprio questa una delle cose che aveva fatto innamorare Will di lei.
Mi sarebbe piaciuto ascoltare la loro storia, anche solo per conoscerli un po’, perciò presi nota mentalmente di chiedergli come si erano conosciuti. Forse, conoscendoli almeno un po’, avrei anche potuto raccontargli del perché avessi tinto i capelli. Forse.
 
 
 
MYSPACE.
buondì, anche se in realtà ora è sera, ma dato che le poche anime che leggeranno questa ff lo faranno sicuramente domattina, allora è un buongiorno u.u ok, ciao. no vabbè, so che fa cagare sta roba, ma avevo iniziato questo primo capitolo non appena ho finito il prologo, infatti avrei dovuto pubblicarlo a cinque recensioni, ma ne ho avute solo 4 (perché ho costretto le mie amiche a recensire çç) però non potevo aspettare, quindi ecco qua D: ho cercato di scrivere delle cose in fretta, in modo da non annoiarvi né di soffermarmi più di tanto su certe scene, perciò scusatemi se ho scritto male o non so, se ho saltato (?) dei pezzi çç questo è il primo capitolo (come ho già detto e ridetto) perciò è un capitolo di “transizione” diciamo, ma vi spoilero che quei cinque coglioni saranno già presenti dal prossimo capitolo uwu che però metterò a cinque recensioni e.e scusate, ma vorrei sapere se le mie fan fiction piacciono, se vi piace come scrivo e cose così, perciò recensite, che non vi cascano le dita u.u e “ciao, mi piace la tua ff, continua presto!” non conta come recensione èwè ahahahah sì, sono cattiva (?) vabbè, vi ho già annoiato abbastanza, quindi vi lascio, ma voi recensite :3
   
 
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