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Autore: Sylphs    12/02/2012    4 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Passo falso
 

 
 
 
 
In quei sei mesi di vagabondaggio solitario, Erik aveva viaggiato quel tanto che gli concedeva un così esiguo lasso di tempo e si era trovato spesso di fronte qualche essere umano, molto pochi, in verità, poiché aveva scelto mete isolate e fuori di mano in cui trascorrere giorni di disperazione e di brama di morte, ma era a tal punto prostrato dal dolore che non si era minimamente lasciato scalfire da quegli incontri fugaci ed aveva girato addirittura a volto scoperto, la barba lunga e le occhiaie profonde, rivestito di stracci sudici e simile ad un triste mendicante sfigurato che si trascinava per strade dimenticate da Dio. Erano state, quelle, settimane di completa oscurità, di oblio tanto profondo che ne conservava ricordi assai confusi, più che altro vaghe impressioni, in cui non gli era importato nulla del mondo e dell’opinione della gente, assorbito com’era dalla perdita della sua amata e quasi incapace di pensare. Aveva mangiato tutto quello che gli capitava a tiro, animaletti morti, bacche selvatiche, erbe striscianti e altro nutrimento esistente in natura, e si era riempito i polmoni inesperti della pungente aria pura delle montagne francesi, dormendo in caverne anguste, macchie di cespugli e rifugi di cacciatori abbandonati.
Prima di rinsavire e di ritrovare nella nebbia il suo io di Fantasma dell’Opera, o anche solo di Erik, aveva rischiato di trasformarsi in un patetico eremita magro ed emaciato, e aveva attirato sguardi colmi di intimorita pietà, anziché di disgustata avversione. Una vecchia, addirittura, vedendolo rannicchiato in un lurido cortiletto interno dirimpetto ad una bettola di terz’ordine, gli aveva dato alcune monete e un pezzo di pane e gli aveva detto che avrebbe pregato per lui. Tale era il suo stato che aveva perfino accettato i doni.
Adesso tutto era diverso. Il suo orgoglio, che l’abbandono di Christine aveva, per un periodo, abbattuto di netto, era rinato ancor più forte di prima e aveva giurato solennemente che non avrebbe mai più suscitato compassione, per nessun motivo. Uscendo dai sotterranei, quella mattina, e lasciando la sua ospite addormentata in attesa che incominciasse la loro prima lezione, fissata per le undici, si era calato sulla fronte il cappuccio del mantello e si era immerso nelle vie innevate di Parigi a testa bassa e con passo sostenuto, senza guardare negli occhi nessuno e senza fermarsi per dar loro modo di intravedere i suoi lineamenti all’ombra della stoffa. Ogni tanto, malauguratamente, si vedeva costretto ad uscire dalla sua dimora per procurarsi cibo e l’occorrente per ricostruire ciò che i linciatori avevano distrutto, e dire che queste sortite erano per lui un vivissimo fastidio era troppo superfluo. Le detestava. Non aveva più alcuna intenzione di mescolarsi con il genere umano.
Ma non poteva neanche affidare a Madame Giry tali incombenze, avendo troncato i rapporti con lei. Non la vedeva dal giorno in cui era scesa da lui nella speranza di ricondurlo alla ragione, e la sua assenza non gli pesava affatto. Una donna era già fonte di abbastanza fastidi, senza che se ne aggiungesse anche un’altra.
Chissà perché aveva proposto a Vivian di impartirle delle lezioni di piano… l’esperienza di Christine non l’aveva sufficientemente edotto sull’inutilità di trasmettere il suo sapere ad una sciocca giovinetta che non ne meritava neppure un briciolo? Probabilmente aveva agito così per capriccio, o per noia. Non era tipo da sprecare tempo solo per fare una gentilezza ad una pianista di medio talento. Quella ragazza era una continua sorpresa; vedendola la prima volta, aveva creduto che fosse a malapena capace di leggere e scrivere, e invece sapeva suonare addirittura il pianoforte. Peraltro, a differenza della sua antica musa, era completamente ignara della propria bravura e aveva reagito con sorprendente violenza allorché le aveva fatto notare quanto in realtà fosse dotata. Aveva senz’altro un complesso di inferiorità verso la defunta madre, egli per primo era ben consapevole della crudeltà di certi genitori, ma forse era un bene che non si rendesse conto d’essere così abile. Il suo scopo, in quel frangente, non era affatto di portarla alla fama e alla celebrità…a dire il vero, non era chiaro neanche a lui stesso.
Ma ne aveva per forza bisogno? In fin dei conti, a volte far qualcosa solo per capriccio poteva essere gratificante.
Abbassò lo sguardo sul giornale “l’Èpoque” acquistato di fresco, l’unico quotidiano decente in circolazione a Parigi, e scorse rapidamente i titoli con interesse assai scarso. Di norma non lo toccavano affatto le beghe dei cittadini o le loro disgrazie, sebbene queste ultime fossero di gran lunga più piacevoli, ma per tendere loro degli agguati adeguatamente efficaci era raccomandabile essere sempre informati sui loro movimenti e le loro intenzioni e, quando usciva a fare provviste, non rinunciava alla sua copia giornaliera. Il più delle volte lo infastidivano terribilmente alcune notizie, del genere “Tra due settimane si terrà il matrimonio del conte Louis de Laurent e della duchessina Isabelle de Guiche”, o “Il ministro Jean Paul Améris lascerà la città  per una visita alla famiglia”. A chi diamine poteva interessare chi avrebbe sposato chi o dove un politico idiota si sarebbe recato in vacanza? Forse a qualche comare annoiata, ma per il resto, se veniva stipulato un accordo di nozze, coloro che desideravano saperlo sarebbero stati comunque invitati alla cerimonia e avrebbero raggiunto un risultato analogo. La gente aveva davvero poco gusto in fatto di letture.
Mentre sfogliava il giornale, scelse di penetrare nei corridoi che conducevano alla sua dimora tramite una porticina nascosta in Rue Scribe, della quale teneva la chiave in un grosso mazzo che portava abitualmente infilato al sicuro nel giustacuore. Vivere in un luogo come i sotterranei rendeva necessario possedere un’enorme quantità di chiavi, poiché ognuna di esse apriva una delle sue geniali camere o uno degli studioli che utilizzava per elaborare le sue trame. Da ragazzino rammentava di aver esplorato quella sezione del teatro da cima a fondo e di aver immaginato, come se il progetto fosse già stato completato, come avrebbe potuto trasformarla nel suo rifugio perfetto. Adesso, a molti anni di distanza, aveva preso dimestichezza con i suoi domini in modo tale che gli bastò sentire la chiave giusta al tatto per infilarla nella serratura. Si chinò ed entrò nell’oscurità, il cappuccio ancora calato sul viso.
La porta s’era appena richiusa alle sue spalle, quando un nome, scritto a caratteri cubitali sulla pagina e nel suo cervello, si materializzò come un demone maligno e ormai esorcizzato ai suoi occhi disinteressati e lo indusse a bloccarsi sulla cima della scalinata con un sussulto e una brusca inspirazione, le mani tremanti che avvicinavano il quotidiano alla faccia per appurare che non si fosse trattato d’uno scherzo ottico, d’un malaugurato sbaglio. Ma le lettere non sbiadirono, non lo rassicurarono assumendo un diverso significato, erano lì, scritte in una calligrafia perfettamente chiara, e campeggiavano in cima ad un breve articolo, su cui il suo sguardo frenetico si era già gettato con ansia alterata:
 

La viscontessa Christine de Chagny tiene un piccolo concerto in onore
della sua prima gravidanza

 
Nella memoria di molti resta impressa certamente la giovane soprano che fino a qualche mese fa ci aveva dilettati con la sua voce angelica e la sua evidente bellezza, l’allora Christine Daaé, adesso divenuta la moglie del visconte Raoul de Chagny e residente nella loro dimora di campagna, lo chateau de Chagny, scomparsa dalla scena per amore del marito e ben decisa a non tornare più all’Opera. In occasione della sua prima gravidanza, tuttavia, hanno organizzato un piccolo concerto a cui sono invitati solo intimi amici nel quale la donna si esibirà nel Nabucco, onorando gli ospiti con la sua miracolosa bravura.
Una delle personalità più in vista di Parigi e un noto amante della musica, il marchese Jean Roland Rappenau, in occasione di una visita allo chateau de Chagny ha domandato alla viscontessa chi mai le avesse insegnato a rendere la voce degna delle più alte vette del cielo, ed ella, garbata e meritevole di ogni simpatia come è sempre stato, ha risposto: “Devo tutto ai miei insigni maestri dell’Opera, coloro che mi hanno formata durante l’infanzia e l’adolescenza e che hanno condiviso con me e con le mie compagne le loro conoscenze. In particolare ringrazio Madame Valerius, sventuratamente incorsa in un decesso improvviso pochi mesi fa, pace all’anima sua, e Madame Giry, che è sempre stata gentile con me. Non avrei guadagnato quella fama senza il loro sostegno e ausilio”.

 
Non poteva più continuare a leggere altro. Le sue mani stringevano il giornale con tale vigore che le nocche erano sbiancate e il suo volto, dietro la doppia protezione di maschera e cappuccio, era livido di rabbia e di un dolore che, se ne accorse subito, non derivava affatto dall’aver ricevuto notizie della sua antica amata per la prima volta da quando s’erano detti addio, bensì dall’assoluta ingratitudine che ella gli aveva così palesemente dimostrato con quelle ignobili bugie. I suoi “insigni” maestri all’Opera, i responsabili del suo talento? Coloro che l’avevano vista crescere negli anni e che avevano fatto scaturire dal suo petto la voce degli dèi, sempre più forte e limpida via via che le piatte forme infantili si arrotondavano nelle curve di una giovane donna? Come si permetteva, quella strega diabolica, a mordere la mano che l’aveva aiutata? Aveva dunque nutrito una serpe in seno, una vipera malefica che aveva prosciugato avidamente tutto il latte del suo sapere per poi abbandonarlo con un ultimo morso mortale, il veleno del suo tradimento? Se le rammentava benissimo, le parole che gli aveva rivolto l’infausta notte del Don Juan, il bellissimo viso angelico pieno di orrore per la sorte del suo dannato visconte, inchiodato alle sbarre con il collo stretto in un cappio: “Come puoi tradirmi? Io ti ho dato tutta me stessa, mi fidavo di te!”
Eppure adesso i ruoli si erano ribaltati, il destino crudele aveva invertito completamente il corso degli eventi ed era stata lei stessa a rinnegare la protezione e i favori che le aveva sempre offerto, difendendola da quel mondo di convenienza e di materialismo che era il teatro e donandole, senza alcun ripensamento, tutta la sua genialità, tutti i trucchi e i poteri che aveva perfezionato da solo, facendone un tesoro esclusivo. Non s’aspettava certo che Christine attribuisse il merito al Fantasma dell’Opera, sarebbe parso alquanto strano e disonorevole, ma aveva sperato, scioccamente, che rievocasse la storia dell’Angelo della Musica e che osannasse lui come suo maestro. Sarebbe stato comunque un modo appropriato di mostrargli la dovuta gratitudine per tutto ciò che aveva fatto per lei, compreso quel finale atto di pietà che le aveva permesso di divenire viscontessa e, adesso, madre. Era lui che l’aveva formata, lui che aveva tramutato quella gracile bambina sperduta in un angelo puro e bellissimo, lui che l’aveva protetta, tenendola al sicuro sotto la sua ala! Ma non c’era nessuno a cui gridarlo, nessuno disposto a scrivere un articolo su di lui, Erik, che non fosse una sentenza di morte o un avvertimento per i cittadini, l’ingiustizia non sarebbe stata mai vendicata con mezzi leciti e ora più che mai si sentiva in diritto d’essere assassino.
Quale altra maniera aveva di far sentire la sua protesta? Per la gente non esisteva, era solo uno spettro spaventoso, un demone malvoluto che soffiava incubi nelle loro menti atterrite, il Figlio del Diavolo, Dio, quanto odiava quell’appellativo che ancora adesso, la notte, gli risuonava nelle orecchie e lo induceva a destarsi di soprassalto con la sensazione dello scudiscio sulla pelle e del sangue che spruzzava, nero e viscoso, sui visi ridenti della folla. Alla fine dei fatti, essere buoni non portava altro che delusione e sofferenza. I destinatari delle azioni benevole non ripagavano mai, non concedevano il loro affetto al Figlio del Diavolo, per quanto si fosse mostrato clemente nei loro confronti…le uniche occasioni in cui era stato rispettato e obbedito erano quelle in cui aveva ucciso e terrorizzato.
E adesso questo finale voltafaccia. Dall’unica donna che mai avesse amato. Troppo debole e paurosa per ammettere di essere stata collocata tra gli allori in cui adesso si crogiolava da un mostro. Da un reietto. Da un assassino.
L’umiliazione gli velava gli occhi, glieli accecava di una patina acquosa che non avrebbe mai, mai tramutato in lacrime, mentre scendeva con passo forsennato nelle profondità dei sotterranei, obnubilato dalla terribile verità di quell’articolo, dall’ennesimo tradimento da parte di Christine, dopo quello sul tetto, quando aveva promesso eterno amore al visconte e aveva gettato in terra la rosa rossa, simbolo del loro legame, e quello del Don Juan, dove aveva collaborato con gli avvoltoi che lo volevano morto inebriandolo con il suo bianco e splendido corpo e strappandogli poi la maschera davanti a tutti. Lo aveva ormai tante volte deluso, tante volte colpito che quasi non la odiava più. Né, forse, aveva il pretesto di odiarla: ella non aveva mai dato ad intendere di agire così per crudeltà, aveva mantenuto in ogni situazione quell’espressione spaurita, innocente e indifesa che la rendeva superiore ad ogni accusa. Immaginava perfettamente il tono con cui doveva aver risposto al marchese, candido e pulito, ignaro del torto di cui si stava macchiando.
Non era cresciuta affatto. Era rimasta una bambina, una sciocca bambina insensibile e cieca, pronta a buttare via i giocattoli che le venivano a noia. Pensò addirittura che ucciderla non sarebbe servito a nulla, che non le avrebbe aperto gli occhi sull’errore commesso. Lei non voleva capire. E niente le avrebbe fatto cambiare idea. Che cos’era la sua splendida voce? Solo l’eco del mare in tempesta, della dolce risacca che proveniva da una conchiglia bella e vuota che si appoggia all’orecchio. Le bellezze che scaturivano da lei erano il riflesso di altre meraviglie, e non le erano proprie. Si era innamorato di una conchiglia. Si era innamorato di essa e non del mare che le echeggiava all’interno, cadendo vittima di un inganno minuzioso e invisibile.
Abbassò violentemente le braccia, lasciando cadere il giornale incriminato, folgorato da questa rivelazione inaspettata, e gli parve di aver finalmente trovato la soluzione che cercava da mesi, il risultato che nel dolore, nell’odio e nell’umiliazione non aveva mai voluto vedere. Era Christine, la vera maschera, la beffa, colei che con la sua bellezza e il suo tono dolce (che era stato lui, in realtà, ad innalzare con parole partorite dalla sua mente e non da quella di lei) aveva ingannato tutti loro facendogli credere d’essere un angelo. Ella era in realtà meno della bambola di cera che aveva distrutto il giorno prima, era il vero costume che lui aveva usato per far arrivare al mondo la sua musica, nient’altro che un’apparenza…ma vuota. Senza il soffio vitale che le aveva infuso, senza ripetere a pappagallo i suoi insegnamenti nessuno si sarebbe accorto di lei, e sarebbe rimasta per sempre un’insignificante ballerina di fila, bella, sorridente e apatica.
Tutto ciò che aveva amato, venerato e ammirato era solo un miraggio. Senza di lui, non si sarebbe trasformata in un’ammaliante cherubina. Non l’aveva forse il visconte notata solo quando aveva cantato? Tutto era chiaro, finalmente, tutto era chiaro!
Ma una tale illuminazione, un ragionamento tanto inaspettato che distruggeva completamente ciò che era stato per più di dieci anni fu troppo per lui, gli annebbiò gli occhi e i pensieri e gli impedì di rammentare un trucco che egli stesso aveva elaborato, secondo il quale, per attraversare indenni i sotterranei, bisognava tenere le braccia rigorosamente al livello del viso. In quel momento le aveva invece diritte lungo i fianchi, percorse da fremiti di eccitazione. E fece un passo di troppo.
Forse era vero ciò che si diceva. Non appena l’essere umano giunge a quello che considera il significato della sua intera esistenza, viene sbranato dai suoi stessi pensieri e dalle sue stesse volizioni e muore.
La scala, la sua scala, si aprì come un abisso infernale sotto ai suoi piedi e lo colse totalmente di sorpresa. Perché ai tradimenti di Christine e dell’umanità era abituato, ma non si sarebbe mai aspettato d’essere ingannato dal suo rifugio, dal suo nascondiglio, dalla sua eterna amante, l’Opera Garnier. Credette addirittura, in un primo momento, che gli si fossero aperte le porte per l’Averno, che ora che si era liberato dall’amore, l’unico sentimento benigno che mai avesse provato, l’oscurità lo avrebbe divorato nelle sue spire ardenti e sarebbe precipitato per secoli in abissi di tenebra e di dannazione, irriso da diavoli cornuti e dagli spettri di coloro che aveva ucciso, dal grasso zingaro che lo picchiava incessantemente, dal macchinista che aveva impiccato e gettato al centro del palcoscenico, dalle decine di parigini che aveva sotterrato sotto la mole di due lampadari. E nessuna Dimora sul Lago gli avrebbe offerto protezione da loro, nessuna musica lo avrebbe salvato dal furore e dalla sete di vendetta. I morti non perdonano.
Ma perfino a fronte di una tale consapevolezza il corpo, addestrato dalla natura a sopravvivere come può in qualsiasi situazione, agì prima della mente. Era precipitato, per colmo di sventura, in una delle sue trappole più semplici e tuttavia più letali, un precipizio frastagliato che si incuneava in un pozzo di oscurità e terminava vari metri sotto, su una superficie irregolare e costellata di stalagmiti su cui sarebbe finito impalato sicuramente. Cadendo a piombo nell’aria fredda e rarefatta, con il mantello nero che gli si apriva intorno a ventaglio e svolazzava dietro di lui come le ali di un enorme pipistrello, perse il cappuccio e i capelli gli frustarono furiosamente il viso, irrigidito in un’espressione di stupore assoluto.
La sua mano destra scattò. Ventosa frenetica e decisa a conservare una vita che nei mesi addietro aveva tanto disperatamente sperato di perdere, si avviluppò su una sporgenza di roccia larga non più di tre braccia e scarsamente lunga e interruppe la caduta mortale. Il peso del suo stesso corpo gli si scaricò tutto quanto sul braccio con cui si reggeva e avvertì una fitta tale che quasi urlò, aggrappandosi anche con l’altra mano per avere maggiore stabilità. I suoi costosi abiti da fantasma, a lui cari in ogni sua malefatta, erano divenuti di una pesantezza esasperante e lo trascinavano giù, facendo perdere l’appiglio alle dita contratte. La mezza maschera bianca si era inclinata pericolosamente da un lato e rivelava metà della sua parte deforme, penzolandogli dall’orecchio. I piedi sbattevano in aria, convulsi, avvertendo la profondità del precipizio che li chiamava, la morte che li attendeva al di là della cortina di buio. Il punto da cui era caduto non era altro che una piccola finestrella vagamente illuminata dalle torce, troppo lontana per essere raggiunta da dove si era arrestato.
Ansimò. Tutto era avvenuto fin troppo in fretta, l’illuminazione, la caduta, la presa sulla sporgenza di roccia. Aveva scoperto di non amare davvero più Christine, e subito dopo era stato colto in fallo dalla sua stessa trappola, per una crudele ironia della sorte. Forse che il destino aveva decretato che senza di lei, senza la sua musa, egli non meritasse di vivere, di ricominciare? Che fosse giusto lasciarsi avvolgere dall’abisso e trovare la morte su un’appuntita stalagmite, in un ultimo spruzzo di quel sangue che troppe volte era stato versato? Immaginò, per un attimo, se stesso precipitare leggiadramente nel vuoto dell’oscuro cunicolo, circondato dalle falde svolazzanti del mantello e roteante nell’aria gelida, immaginò il momento in cui il suo torace, o la sua schiena sarebbero stati trafitti da parte a parte dal pugnale di ghiaccio, lasciandolo penzoloni nel fondo di un buco, immerso in un lago di sangue rappreso, prima cadavere, poi marciume, poi scheletro, poi polvere. La putredine che gli contaminava solo il lato destro del viso si sarebbe presa pian piano anche tutto il resto del suo corpo, facendone un suo maniero, e l’avrebbe infettato dalla testa ai piedi, mangiandogli la carne e, in seguito, le ossa.
No. No, non poteva morire così, non poteva arrendersi in quel modo! Non avrebbe esalato l’ultimo respiro per mano di una delle sue trappole, quasi suicidandosi! Non l’avrebbe data vinta al mondo e al destino, che lo volevano sconfitto e consumato in una caverna senza uscita. Se fosse morto, sarebbe morto alla luce del sole, accarezzato dai suoi tiepidi raggi, prima di riposare per l’eternità nell’oscurità di una tomba. Non si sarebbe consegnato alla sorte e a Christine, eternamente di loro possesso esclusivo. Lui era Erik Destler, il Fantasma dell’Opera, e per tutti gli inferni, non sarebbe morto quel giorno!
In un erculeo sforzo di volontà, tentò di sollevare il proprio corpo e di caricarsi sull’esiguo spazio consentitogli dalla sporgenza, ma a differenza del braccio sinistro, i cui muscoli si fletterono con efficienza, la spalla destra, probabilmente lussatasi quando si era aggrappato con una mano sola, mandò una fitta di atroce dolore e lo fece ricadere pesantemente penzoloni, le dita che si stringevano ai bordi dello sperone di roccia con frenesia per non scivolare. Dentro ai guanti, le sue mani sanguinavano. Ed era un classico, che fosse proprio la sua parte destra a tradirlo.
Non era altro che un essere umano, in fondo. Un essere umano che da solo non sarebbe mai risalito da quel buco.   
Imprecò furiosamente tra i denti serrati, consapevole della debolezza che pian piano lo avvolgeva, dell’approssimarsi del momento in cui le sue dita avrebbero perso ogni energia e l’avrebbero lasciato precipitare.
Era la prima volta che si trovava in una situazione fuori dalla sua portata.
Ma una voce lontana, una voce angosciata, ruppe la cortina di tenebre gridando da qualche parte sopra di lui un appellativo che una sola persona aveva usato per definirlo: “Monsieur Fantòme!”
Non era una voce melodiosa o angelica, non aveva nulla della dolcezza di quella di Christine, tuttavia in quei secondi fatali, in quell’oscuro e illimitato precipizio gli parve la più bella del mondo, la sola capace di illuminare il buio in cui era rinchiuso e di aprire nella sua mente frenetica uno spiraglio, un pertugio, una porta di speranza e di salvezza. Le sue mani, insensibili e martoriate, tremanti nello sforzo di rimanere aggrappate allo sperone di roccia, acquisirono una nuova ondata di energia allorché il richiamo echeggiò per i sotterranei ed egli riuscì, con vigore insospettato, a tirarsi su quel poco che gli consentiva di fare presa coi gomiti e di tenersi più saldamente al suo unico appiglio. Alzò lo sguardo sulla finestrella di luce sopra di lui, desiderando per la prima volta con tutto se stesso di vederne emergere quel volto olivastro e volitivo, quella massa di indisciplinati riccioli scuri e quei vispi occhi color ambra, e un nome mai pronunciato prima gli salì spontaneamente alle labbra, sonoro e angosciato: “Vivian!”
I suoi sensi, acuiti dal pericolo mortale in cui era incorso, captarono con precisione assoluta dei passi lievi e frenetici che si fermavano di botto sui gradini di pietra, che giravano in tondo, disorientati. Un attimo dopo, di nuovo quella voce vivace e potente, inutile nel canto, meravigliosa in quella terribile circostanza: “Monsieur Fantòme? Dove…dove siete?”
Quanto tempo aveva perso leggendo l’articolo, attardandosi nelle sue contorte elucubrazioni? Sicuramente le undici dovevano essere trascorse da almeno venti minuti, se la ragazza era andata a cercarlo fuori dalla Dimora sul Lago, affrontando i pericoli e le insidie dei sotterranei per ritrovare il suo ospite scomparso. La solita impulsiva incosciente; non aveva messo in conto che si sarebbe potuta perdere, che sarebbe potuta cadere in una trappola mentre attraversava luoghi a lei tanto oscuri? E perché diamine la biasimava?! Se non lo avesse fatto, sarebbe certamente morto.
“Sono qui!” gridò, lacerato, distrutto, esausto dalla scomodissima posizione in cui era costretto a rimanere. La spalla destra doleva da impazzire, e i guanti erano già a brandelli, stracci di cuoio che rivelavano la pelle sanguinante e ulcerata sotto. Non poteva resistere ancora a lungo, e quella sorta di balsamo benefico che l’aveva rafforzato allorché aveva udito il richiamo di lei si stava esaurendo: “Sono qui sotto, Vivian!”
I passi tornarono indietro, piccoli echi che scendevano fino al buio artigliante in cui penzolava e gli riscaldavano il sangue ghiacciato, promettendogli speranze che non avrebbe mai creduto esistenti. La vide, avvolta in un abito color prugna, i capelli sciolti e scarmigliati sulle spalle e il viso pallido e angosciato, le braccia sottili ben alzate al livello degli occhi e i piedi nudi tremanti di freddo. Venne colto da un terrore istantaneo e soffocante e temette che, non avvedendosi della botola spalancata, ella vi precipitasse dentro a sua volta: “Fermati!” ogni forma di gelida cortesia era svanita dinnanzi alla pericolosità della situazione.
Lei si arrestò di botto, si guardò intorno, frenetica, quindi abbassò lo sguardo sul pozzo di tenebra che si apriva sotto di lei, una bocca irta di affilatissime fauci che attendevano impazientemente il cedimento dell’uomo che vi era caduto all’interno. Egli scorse i grandi occhi marroni ingigantirsi per l’orrore, la bocca spalancarsi a metà in un’espressione di ammutolito sgomento, il pallore sulle guance intensificarsi. Era consapevole di lei come mai in passato, ma allo stesso tempo percepiva orribilmente anche le dita che scivolavano goffe sui bordi della sporgenza, il sudore che colava in grossi rivoli e rendeva incerta la presa, i muscoli che gli incidevano la carne di stilettate di dolore e la maschera che piano piano si inclinava all’ingiù, perdendo l’appiglio sull’orecchio.
“No!” il grido scaturì dalle labbra della giovane con sincera disperazione. Sembrava quasi che sperasse di cancellare l’orrore di un tale spettacolo con esso, di poter fermare tutto, di cambiarlo, rendendolo per lei più sopportabile. Erik non aveva mai veduto in nessuno tanta orripilata costernazione, e ne fu stupito, in modi più profondi e segreti dei precedenti. E di nuovo un’ondata di forza montò dentro di lui, le sue mani si conficcarono sulla roccia sporca del suo sangue, riscaldate da un qualcosa che non identificava. Era come se il trasporto della ragazza e le sue grida angosciate gli entrassero dentro, riempiendolo di energie insospettate.
“No, no, no!” scuotendo violentemente la testa come un cane che desidera liberarsi da un guinzaglio, Vivian cadde pesantemente in ginocchio sul bordo del precipizio e si sporse fino alla vita verso di lui, la disordinata capigliatura che scivolava in avanti e gli occhi gonfi di lacrime di totale sconforto: “Monsieur Fantòme! Monsieur Fantòme!”
“Vivian, ascoltami!” malgrado il pericolo che correva, malgrado il dolore alla spalla lussata e la fatica di mantenersi sospeso tra la vita e la morte, Erik parlò con sorprendente lucidità, pregando di vincere l’isteria della sua ospite: “C’è una leva sul muro, attiverà un meccanismo e una catena sul soffitto scenderà sino a me, permettendomi di risalire. Devi tirarla”.
Lei lo fissò con l’aria di chi non capisce, completamente dominata dal terrore, il corpo attraversato da un tremito incessante: “Q-quale leva?”
“Alla tua destra, sul muro! Sbrigati, tirala verso di te!”
La giovane si volse, le spalle che non la smettevano di fremere sotto l’abito viola, i singhiozzi che riecheggiavano nel profondo precipizio in cui lui lentamente annaspava nel tentativo di non precipitare incontro alla morte: “È grigia?” la voce solitamente ironica e sicura era terrorizzata, ma si sforzava di racimolare il sangue freddo. E non era da poco, in quella circostanza.
“Sì!” il sangue e il sudore che gli imbrattavano le mani rendevano la roccia scivolosa: “Sì, è grigia!”
Una serie di movimenti confusi, degli ansiti, delle imprecazioni soffocante, un “ahi” acuto e sconfortato, poi Vivian si girò con i lineamenti distorti in una smorfia di orrore e di impotenza: “Non ci riesco! Fa troppa resistenza!”
Erik lanciò un urlo di frustrazione, scagliandolo fuori dal precipizio con tutta la forza che aveva. Logico che la ragazza non ce la facesse…egli aveva progettato quella leva perché lui solo potesse tirarla, e mai aveva messo in conto la possibilità di cadere dentro ad una delle sue trappole. Ma senza la leva era spacciato, condannato alla solitudine eterna delle più basse viscere della terra, impossibilitato di salvarsi dal proprio genio. Schiacciato dalla consapevolezza della propria sorte allentò la stretta sullo sperone di roccia, i suoi gomiti slittarono sulla superficie incrostata di sangue rappreso e sudore isterico mentre le mani ferite si graffiavano ulteriormente sulle sfaccettature appuntite.
“No!” ripeté improvvisamente Vivian. Al suono della sua voce, l’uomo cessò di scivolare, si bloccò come anche prima si era bloccato, sollevando gli occhi spenti in una sorta di riflesso incondizionato. Lei aveva teso una mano nella sua direzione e gli teneva puntato addosso uno sguardo di un’intensità quasi folle: “No, non lasciarti andare!” gli diede del tu con la massima naturalezza: “Ti tirerò fuori da lì, adesso vado a vedere se trovo qualcosa e poi torno ad aiutarti!”
Una morsa di terrore gli strinse le tempie. Lei era un fastidio, una zavorra indesiderata, un’intrusa insediatasi con la forza nella sua dimora. Ma al pensiero di rimanere solo con la morte, di vederla svanire come un’illusione di cristallo, di non sentire più la sua voce che lo chiamava come se le stesse davvero a cuore il suo destino e i suoi occhi lucidi di lacrime fissi su di lui si sentì impazzire, sentì che ogni cosa perdeva i suo contorno: “No!” se avesse potuto, avrebbe evocato rampicanti invisibili con cui trattenerla dov’era: “No, non te ne andare, dannazione, non te ne andare!”
“Tornerò, te lo giuro, tornerò” sembrava sincera in modo totale e assoluto, ma lui non si fidava, era una donna, era un essere umano, era debole e fragile e nel fondo della sua anima lo odiava come tutti gli altri, lo voleva morto e l’occasione si era presentata su un piatto d’argento: “Non posso aiutarti se rimango qui, ma sono sicura che se trovo…” lei scattò in piedi, rammentando il limitato tempo che aveva a disposizione: “Ti prego, non lasciare la presa, io torno presto!”
“Non farlo!” Erik urlò così forte che gli si colorò il viso di rosso e le vene sul collo gli si gonfiarono, tese fino a scoppiare: “Non andare!” la sua voce sapeva di minaccia, di morte, ma chi mai gli avrebbe dato credito, in quel frangente? La vide infatti uscire dal suo campo visivo, svanire nell’oscurità dei sotterranei, e gli esplosero dentro follia e furore e disperazione e angoscia e ingiustizia e abbandono, coagulatisi in un grido senza forma umana che si perdette in mille illimitati echi, in un verso bestiale e tradito. Lei l’avrebbe abbandonato, ne era sicuro. Perché salvare la vita di un fantasma, di un nessuno, di uno spirito malefico e inesistente vivo solo per sbaglio? Perché non lasciarlo invece scomparire tra le altre ombre, nel posto che gli spettava?
La mezza maschera perdette definitivamente il precario equilibrio finora mantenuto e cadde, svolazzando come una farfalla, nell’abisso putrido e infernale in cui presto sarebbe finito anche lui, ammiccandogli nel buio per pochi secondi e poi perdendosi del tutto nel nero.
 
Vivian correva come non aveva mai corso in vita sua, divorando i metri a grandi falcate, percuotendo la pietra gelida e spietata con piedi veloci e leggeri e scandendo il tempo della sua traversata frenetica con forsennati battiti di cuore e disperati ansiti di fatica. Mentre scendeva sicura nel salone principale della Dimora sul Lago, le sue braccia la difendevano svettando parallele agli occhi e il suo cervello gridava follemente per la paura e la disperazione, pregando di farcela, di tornare in tempo, di salvare l’uomo che desiderava consegnare alla giustizia.
Perché lui non poteva morire. Era una certezza, un ordine, un comandamento. Non gli avrebbe permesso di precipitare, non avrebbe consegnato alle ombre voraci quell’individuo geniale, unico e mai sostituibile. Allorché l’aveva cercato, preoccupata, non vedendolo comparire alla loro lezione, allorché s’era arrischiata a percorrere gli insidiosi sotterranei e allorché l’aveva trovato sospeso tra la vita e la morte in un abisso di tenebra, l’anima e la mente erano sfuggite al suo controllo e avevano decretato, in barba alla ragione e alla logica, che l’avrebbe salvato ad ogni costo, forse persino a costo della vita. Era in balia del suo istinto, dei suoi impulsi più reconditi ed inconsci, di una smania divorante che le metteva le ali ai piedi e le urlava a squarciagola di andare più veloce, di affrettare il passo, di vincere la debolezza del suo fragile corpo. Non l’avrebbe lasciato morire. Avrebbe pagato per i suoi crimini, ma non così. Non così.
Stava piangendo. Lacrime perlacee le rigavano le guance pallide e le riempivano la bocca del sapore salato del dolore, incomprensibili alla sua mente razionale e pratica, fin troppo giustificabili al suo cuore folle di paura. Perché piangeva per un assassino? Perché si feriva le piante dei piedi sulla frastagliata superficie della pietra e si lacerava l’abito nel tentativo di strappare alla morte un individuo che ne aveva dispensata a proprio piacimento appena poche settimane prima? Che ne era stato dei suo propositi di vendetta, dei suoi piani? Li aveva dimenticati? Li aveva azzittiti per un poco, sostituendoli con un marasma di sensazioni inspiegabili? Che cosa la spingeva a quella volontà ferrea di salvarlo?
“Io non lo so. Ma non deve morire. Non deve morire!”  
I drappi che abbellivano le pareti. Per appenderli ad esse il fantasma s’era servito di una serie di cordoni di canapa che gli permettevano, se ne aveva voglia, di scostare la stoffa di lato e di relegarla in un angolo. Se fosse riuscita ad impadronirsi di uno di quei serpenti di tessuto, avrebbe potuto utilizzarlo per calarsi nel precipizio e portare su l’uomo. Era l’unica soluzione. O almeno, l’unica che le venisse in mente. Non c’era tempo per architettare un piano più articolato. Ogni minuto, ogni secondo poteva significare la sua morte. Anzi, forse era già precipitato. Ma non voleva pensarci. Non voleva nemmeno immaginare una simile eventualità.
Perché non aveva proprio idea di come avrebbe reagito alla sua morte.
“Ci penserò poi” affondò i denti nel labbro e lo morse finché non avvertì il sapore del sangue: “Non adesso”.
Non si sbagliava. Le corde erano dove aveva supposto, avvolte ai drappi scarlatti. Si gettò sulla più vicina con l’impeto della leonessa che si avventa sulla preda e la staccò dalla parete con foga convulsa, barcollando sotto il suo peso e pulendosi il volto dal sudore e dalle lacrime. Aveva agito più in fretta che poteva, attraversando la strada che in teoria avrebbe dovuto seguire il giorno in cui era caduta nella trappola dell’acqua e della porta irta di sbarre, ma adesso doveva invece risalire, con il peso della corda a gravarle sulle spalle e la consapevolezza della situazione disperata sospesa sopra al capo. Si sentì in procinto di urlare a squarciagola.
“No, Vivian, non cedere adesso, non arrenderti! Tu non ti arrendi mai! Puoi salvarlo, puoi farcela, devi solo volerlo!”
Si buttò in spalla il pesante cordone, un masso che la opprimeva, che la schiacciava al suolo, e a testa bassa tornò sui suoi passi, lasciando impronte insanguinate sul pavimento con i piedi pieni di vesciche e sentendo i folti riccioli bruni che le sobbalzavano sulla schiena, spargendo ovunque brillanti gocce di sudore. Come diavolo ci era finito in quel precipizio? Cosa l’aveva scosso al punto da farlo cadere in una delle sue trappole? Sicuramente era stato qualcosa di veramente orribile o sorprendente, per giustificare una così clamorosa disattenzione da parte dell’infallibile Fantasma dell’Opera. Perché era uscito a far compere? Perché non era rimasto con lei, ad impartirle le lezioni promesse? Tutto sarebbe andato bene, tutto si sarebbe svolto con la tranquillità dei giorni passati…e quell’incubo non si sarebbe mai profilato all’orizzonte.
“Non finirà bene anche stavolta. Io sono solo una ragazza. Non ho la forza di sopportare tutto quest’orrore e queste insidie. Sono scampata all’annegamento, ho risolto l’indovinello della Sfinge, ma non lo salverò, non vincerò di nuovo”.
“Stupida! Devi salvarlo”.
“Perché?”
“Perché lui…perché lui…”
Non le era chiaro. Per capriccio, forse? Sì, doveva essere così, per forza. L’avrebbe salvato per capriccio e perché nessuno meritava di fare una fine così orrenda. E poi aveva bisogno di lui. Ci teneva davvero, ai suoi insegnamenti, all’ammirazione con cui aveva letto la sua sciocca canzonetta e all’indulgenza con cui le aveva detto di trovarla talentuosa. Era stato gentile con lei, a suo modo, e le aveva offerto il suo sapere. Il minimo che poteva fare per sdebitarsi era salvargli la vita.
Avrebbe tanto desiderato conoscere il suo vero nome, per gridarlo, per sentire che suono aveva sulle sue labbra, ma un simile privilegio le era stato negato, così, mentre saliva la scalinata a rotta di collo, esausta e senza forze, invocò a squarciagola il suo soprannome: “Monsieur Fantòme! Monsieur Fantòme!” per dirgli che non l’avrebbe abbandonato, che era lì. L’avrebbe tirato fuori dalle fauci del mondo, avrebbe costretto quella buca oscura a vomitarlo, con tutti i mezzi possibili. Non sarebbe stato suo, non sarebbe divenuto possesso delle ombre e del sottosuolo.
“Lui è mio!” aveva uno sguardo di una ferocia spaventosa, mentre formulava questo pensiero.
“Tuo?”
“Devo essere io a incastrarlo!”
“….” la voce della sua mente tacque, poco convinta.  
Raggiunto il punto in cui la scalinata s’interrompeva per fare spazio alla cavità profonda e nera, quasi aveva timore di guardar giù, perseguitata dall’immagine di un vuoto assoluto e di pochi brandelli di guanti sulla sporgenza di roccia. Ma lui era lì, aggrappato allo sperone ora solo con una mano, orribilmente fragile e solo su un abisso di morte che lo chiudeva da ogni parte in una trappola fatale, il sangue scuro e denso che gli scorreva dalle dita straziate e cadeva giù in grosse gocce e il viso privo di maschera, chino sul petto, incorniciato da lunghe ciocche di capelli arruffati. Il cuore di Vivian quasi scoppiò per il sollievo: “Monsieur Fantòme!”
L’uomo sollevò la testa con fatica esasperante, quasi gli pesasse una tonnellata. Nella luce fioca delle torce appese ai muri, la carne deturpata era ancor più terribile di come la rammentava, ma non provò alcun disgusto per quei lineamenti guastati, alcun fastidio. Vedeva solo il luccichio dei suoi lucenti occhi azzurro scuro, ancora vivi, ancora coscienti, non ancora sconfitti, che la fissavano come se stentassero a riconoscerla, come se mai si sarebbero aspettati un suo ritorno. Egli provò a dire qualcosa, ma dalle labbra pallide emerse solo un gemito roco.
“Non parlare, non perdere le forze!” dal tono sembrava che avesse in mano la situazione e che fosse sicura di se stessa, ma il suo animo tremava e si sentiva sul punto di vomitare: “Ora vengo giù da te, sta tranquillo!”
Svolse freneticamente la lunga corda, facendo la spola con lo sguardo tra essa e la mano martoriata con cui il suo ospite si teneva avvinto allo sperone di roccia, e la legò ad una delle torce collocate in ganci di metallo fissati alle pareti, giudicandolo l’appiglio più stabile per un’operazione tanto delicata. Dubitava che monsieur Fantòme, in quelle condizioni, sarebbe riuscito ad arrampicarsi fino in cima al precipizio, ma se anche ne era in grado, non poteva permettersi di rischiare. Sarebbe scesa personalmente nell’abisso e gli avrebbe offerto il suo appoggio nell’ascesa alla luce. Non sarebbe stato tanto più difficile di scalare le alture del Plomb du Cantal con suo padre, nel periodo in cui si erano recati lì in gita. Forse non era capace di cantare, di stregare cuori maschili o di sorridere con dolcezza, ma aveva numerose esperienze alle spalle e valevano più di qualsiasi sguardo languido.
“Sto arrivando, monsieur F!” si passò la corda intorno alla vita e l’assicurò con il nodo scorsoio che le aveva insegnato suo padre durante una delle loro escursioni. Il Fantasma dell’Opera, nel frattempo, era scivolato ulteriormente in basso e solo poche delle sue dita si reggevano ancora alla roccia sporca di sangue, sudore e muco. Qualcosa di bianco gli spuntava dalla spalla destra… ma cos’era?
“Mio Dio” la consapevolezza le squarciò la mente come un colpo di coltello: “È la sua…clavicola”.
Chiuse gli occhi e si impose dei profondi respiri, sentendosi mancare per il raccapriccio. Quel poveretto stava letteralmente cadendo in pezzi…come se già non avesse abbastanza problemi con il proprio corpo! Era incredibile che gli restassero ancora abbastanza forze per non precipitare nel vuoto. Ma in fondo era il Fantasma dell’Opera, e qualcosa di soprannaturale doveva averlo per forza.
Saggiò la resistenza della fune con un paio di strattoni e, assicuratasi che non avrebbe ceduto trascinandola nell’oblio, poggiò un piede sulla gonna e con un colpo secco la lacerò, rovinandosi il vestito. Per riuscire nel suo intento, era necessario avere le gambe libere. Poco importava che fossero nude. Non aveva dopotutto dato fin troppo spettacolo davanti a lui? Adesso non le importava più di niente, tutto era passato in secondo piano. Doveva soltanto tirarlo fuori da lì, restituire la gelida sicurezza che tanto ammirava alle sue iridi azzurre e offuscate dalla sofferenza.
Si calò con prudenza, ma non con la lentezza che le avrebbe garantito una discesa sicura e priva di pericoli, messa in ansia dalle circostanze e dall’aspetto stravolto del suo ospite. Immediatamente il vuoto del precipizio la chiamò a sé e il suo stomaco sobbalzò, privato di un sostegno su cui appoggiarsi e di un solido pavimento. Tentando di rimanere lucida e concentrata e di non farsi vincere dal panico, Vivian inchiodò i piedi nudi sulla parete fetida e frastagliata del buco e si rannicchiò, sollevata dalla presenza della corda avvoltolata sui suoi fianchi, benevolo baluardo di salvezza che la tratteneva saldamente sopra la morte. Per sua fortuna, il fantasma era precipitato solo per pochi metri e si era aggrappato ad una distanza non troppo eccessiva.
“Un piede e poi l’altro, destra e sinistra” sussurrò tra sé e sé, facendo eco alle parole di suo padre e scendendo nelle profondità della grotta come il naufrago che si lascia avvolgere dall’oceano. Non aveva motivo di temere per sé, la corda l’avrebbe salvata dalla caduta e non le avrebbe permesso di andare giù, doveva invece sbrigarsi se voleva salvare monsieur Fantòme, esausto e pressoché spezzato, privo della sua maschera onnipresente e imbrattato di sangue e di polvere. Chi l’avrebbe mai detto, che sarebbe finita ad affrontare il gelo e la solitudine di una caverna per trarlo dall’abisso? E che avrebbe messo nell’impresa così tanta passione?
Minuscoli sassolini sfuggivano alla parete di roccia quando vi passavano sopra i suoi piedi nudi, una corrente insidiosa s’infilava tra i suoi capelli e le asciugava il sudore dalla pelle ed era ormai così vicina all’oggetto del suo salvataggio da poter avvertire l’odore metallico e aspro del suo sangue. Santo cielo, era ridotto in condizioni pietose…le maniche della giacca erano strappate fino al gomito, la pelle era lacerata da squarci e tagli aperti, e la candida clavicola gli devastava la spalla, sporgendo grottescamente dalla carne martoriata. E il suo volto, stravolto di fatica e di dolore, scoperto, vulnerabile, sfigurato. Qualsiasi fanciulla sarebbe inorridita a quello spettacolo, sarebbe svenuta, ma se anche avesse avuto mille deformazioni, Vivian non avrebbe esitato neppure un attimo ad andare avanti.
“Monsieur Fantòme” disse, con voce limpida e determinata: “Sono qui”.
Gli occhi di lui, prosciugati del tutto del loro brillio, si volsero con stanchezza mortale nella sua direzione e la percorsero da capo a piedi, vuoti e assenti. Forse la vedevano, forse no. Forse egli era giunto in quello stadio in cui realtà e allucinazione si confondono e in cui niente ha più un senso. Non disse nulla.
“Adesso dovete aggrapparvi alla corda, monsieur Fantòme” gli aveva dato del tu spinta dalla disperazione e dall’angoscia, ma ora che aveva la situazione sotto controllo, le sarebbe parso bizzarro continuare a farlo: “E dovete tirarci su. Io sono troppo magra per farlo con entrambi. Non preoccupatevi, se vi sentite cadere, aggrappatevi a me. Legata come sono, non ho la possibilità di precipitare”.
Lui sbatté le palpebre, il viso pervaso da uno stordimento umano, uno stordimento doloroso: “Christine…conchiglia…”
Udendo quel nome, Vivian s’irrigidì, avvertendo una curiosa stretta al cuore. Ancora quella maledetta Christine! Era lei che compariva nella sua mente, quando cadeva nel delirio? Era lei che invocava, che desiderava? Forse avrebbe preferito essere salvato dalla sua antica e bellissima musa, piuttosto che da lei, stonata e dura di lineamenti, poco femminile e scarsamente incline alla dolcezza. Che cosa gliene importava, di lei, in fondo? Non avrebbe mai potuto competere con la sua amata del passato.
“Christine non è qui, monsieur F” le uscì un tono aspro e secco: “Lei ha preferito una testa vuota di visconte. Ma non dovete morire a causa sua. Voi valete cento volte lei, ve l’assicuro”.  
Lo afferrò per i fianchi, una stretta tenace, che non ammetteva repliche, che voleva infondergli vita ed energia, e lui parve tornare un poco in sé a quel contatto. Una vaga luminosità comparve nelle sue pupille, un istinto di sopravvivenza sopito, ma non domato, lo spinse a circondarle a sua volta la vita e a stringere con la mano meno malridotta la ruvidità della canapa. La ragazza non gli era mai stata così vicina senza che lui portasse la maschera, e poteva contargli le piaghe e le cicatrici una ad una, poteva vedere come la deformità gli piegasse l’occhio all’ingiù e come gli storcesse le labbra, ma dietro all’orrore di tutto questo c’erano la bellezza e la nobiltà dei suoi lineamenti normali, quelli sul lato sinistro, e sotto al lezzo del sangue e del sudore aleggiava il suo profumo selvaggio, intenso come lo ricordava. Per un attimo le sue percezioni fisiche si intensificarono ed ebbe l’impressione di poter sentire la sua pelle sotto i vestiti, di percepire i muscoli sodi sfregarle contro il seno e di avvertire come non le era mai capitato prima i capezzoli turgidi che fremevano dietro la stoffa dell’abito, insopportabilmente sensibili.
“Maledizione, che mi succede?!” scosse con foga la testa, tradita dal suo stesso corpo: “Non può essere un capriccio, questo”.
Possibile che si trattasse di pura e banale libidine? Di brama carnale? Sì, era così, non c’erano altre spiegazioni, ed era già abbastanza assurdo che si sentisse attratta da un uomo del genere, specialmente ora che si presentava in simili condizioni. Qualcosa nel suo cuore, nel suo sangue, non funzionava per il verso giusto. Ma non poteva lasciare che lui se ne accorgesse.
“Va tutto bene, monsieur Fantòme, va tutto bene” con tono dolce e rassicurante, un goffo tentativo di negare all’uomo e a se stessa ciò che aveva appena provato, gli accarezzò i capelli sudati e appoggiò la guancia sul suo petto ampio e muscoloso, mentre lui, quasi senza energie, trascinava entrambi in superficie, arrampicandosi sulla corda e permettendole, adesso che era ferito e debole, di stringerlo così, di annusarlo così, di cedere alla propria lussuria, poiché di questo si trattava, di sola lussuria. Anche se non riusciva a staccarsi dal suo petto e i suoi seni mandavano crampi inaspettati e dolorosi, non significava che non aveva la forza di opporsi al buio che l’aveva posseduta. Non aveva dimenticato i suoi propositi, non aveva dimenticato niente. L’aveva salvato, ma sarebbe stata lei a rovinarlo.
Avvicinò le labbra al suo orecchio sfigurato e ripeté, come una cantilena: “Va tutto bene, tutto bene, tutto bene”.
Non ne era affatto sicura.

 
  
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