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Autore: Hakigo    12/02/2012    0 recensioni
RACCONTO INTERROTTO.
[Cit. capitolo 7 - Delle urla provenivano dall’esterno e il fumo rendeva impossibile vedere ciò che stava accadendo a meno di quattro metri di distanza. La donna sentiva gli invasori vicini, i loro passi, i respiri attraverso le maschere e vedeva chiaramente anche i laser rossi che usavano come mirini per i loro fucili. Tratteneva il respiro, per non farsi sentire. Per il fumo, non riusciva più neanche a tenere gli occhi aperti: probabilmente avevano lanciato dei lacrimogeni. Non sapeva quanto tempo fosse passato. Forse un’ora, forse solo dieci minuti, ma Honey non accennava a svegliarsi.
Un colpo di tosse a dimostrare che fosse viva. I mirini che si univano all’istante in un unico punto.
]
E se le parti per una volta fossero invertite? Se fossimo noi, i cattivi? Honey è una bambina che crescendo imparerà a difendersi dagli invasori, a distinguere i bravi dai malvagi: non aveva calcolato che un giorno, lei stessa sarebbe stata accusata di alto tradimento.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era notte.
Honey aveva un sonno tremendo, perché aveva giocato senza sosta a scacchi con il suo compagno di cella, per vedere quanto la loro mente fosse in grado di reggere un certo tipo di ragionamento. Ore e ore erano state sfruttate a questo scopo, anche quelle durante la notte, fino ad arrivare ad un record di ventisei ore filate senza un minimo di preparazione e con delle piccole pause per il pranzo e per andare in bagno.
La testa doleva ad entrambi. Una partita era riuscita a durare almeno cinque ore, dato che nessuno dei due aveva intenzione di farsi sconfiggere. Molte pedine erano state mangiate e spostate con un passo altrettanto furbo da parte dell’avversario, fino a quando Mano, con un gesto completamente incontrollato e stanco, aveva spostato la pedina di modo da fare scacco matto. Allora, con un gemito di vittoria, si era lasciato cadere sulla branda, cadendo nel mondo dei sogni prima ancora di toccare il cuscino. Honey era crollata allo stesso modo.
Quando le prime luci dell’alba avevano cominciato a schiarire un paio di stelle, un tonfo aprì la porta come se fosse un animaletto docile, nonostante fosse in ferro battuto e rinforzato. Si svegliò solamente quando si sentì tirare per le braccia con decisamente poca grazia da due soldati, ma non aprì bocca per lamentarsi, perché vide che la stavano trasportando verso la sala degli interrogatori. Non era la prima volta che i due investigatori la trascinavano nella stanza a notte fonda, quando l’alba era ancora lontana, quindi non si oppose. Avrebbe solamente sonnecchiato tutto il tempo sul tavolo, come un paio di volte era successo.
Tuttavia, riuscì a svegliarsi completamente quando vide davanti a sé una persona di cui ricordava a malapena il volto, che aveva visto per l’ultima volta il giorno in cui era stata catturata e ferita alla gamba, dove ora spuntava una cicatrice decisamente brutta da vedere. Poggiò i piedi a terra e fece forza, ma i due erano decisamente più forti di una ragazza come lei, continuando a camminare all’interno della stanza dove il ragazzo l’aspettava con le braccia aperte, dove la gettarono in malo modo.
È stata pagata la cauzione.” spiegò semplicemente la guardia a destra, guardandola dal’alto verso il basso, mentre si dimenava per sfuggire alla presa di Boyce senza successo.
“No!” si oppose con un urlo, spingendo con i gomiti sul petto del ragazzo e cercando di fuggire, poi l’altro le afferrò i polsi e fece in modo da tenerla immobile, faccia a faccia, con un sorriso larghissimo stampato sulle labbra.
Sorellina…” fece con voce morbida il ragazzo, con quell’accento che somigliava sempre di più a quello di suo padre, che lei adorava come sé stessa “Finalmente posso portarti a casa!” continuò, ma Honey non smise di dimenarsi. Gli occhi le lacrimavano e il cuore batteva all’impazzata, terrorizzato ed agitato, mentre le gambe tremavano, doloranti per tutto il tempo passato seduta.
“Lasciami!” ordinò in lacrime, guardando le due guardie che osservavano la scena impassibili. Aveva dimenticato un sacco di parole straniere, durante il suo soggiorno in prigione, perché con Mano non doveva preoccuparsi di parlare con una lingua che non era la loro. Aveva subito anche molte percosse da parte degli investigatori, che non capivano quel che stava dicendo durante le loro sedute che ultimamente erano diventate più una perdita di tempo.
“Aiutatemi a portarla in macchina” ordinò allora Boyce, portandole una piccola provetta sotto il naso.
Honey perse la forza con un solo respiro, lasciandosi cadere intontita e  senza forze contro suo fratello, guardandolo con gli occhi ancora pieni di lacrime, supplicandolo per l’ultima volta. Quella sua ultima richiesta, comunque, non venne accolta.
Quando uscirono dalla sala degli interrogatori, la cella sua e di Mano aveva la porta aperta.
“Mano…” chiamò con un gemito, allungando il braccio, ma non arrivò nessuna risposta. Semplicemente, le guardie aiutarono Boyce ad entrare in macchina mentre portava la ragazza tra le braccia, aprendogli lo sportello e richiudendolo quando furono dentro. Poi partirono, lasciando una fumata grigia e facendo smuovere rumorosamente i ciottoli del parcheggio.
Quella fu l’ultima volta in cui Honey vide la prigione.
 

***

 
“Questa miscela ti sta rinforzando le ossa, non posso smettere di dartela, Sadiq” disse paziente Austin, mentre riversava nella bocca del malato un liquido trasparente dall’aria innocua, che lo faceva rigirare nel letto come posseduto ogni notte da quando aveva preso a somministrargliela.
“Fra poco avremo finito e potrai camminare di nuovo” si intromise allora Aamir, che gli teneva le mani ferme. Se quella miscela fosse caduta sul lenzuolo candido, l’avrebbe fatto diventare verde scuro nel giro di pochi secondi.
“Posso già camminare, prendo questa roba da un mese!” si oppose di nuovo, stringendo gli occhi quando sentì la miscela far effetto lentamente, ricominciando a riempirlo di tormenti.
“Non smetterò di somministrartela. Se lo facessi per un solo giorno non farebbe più effetto” spiegò di nuovo paziente l’eremita, mentre riposava la sua ciotola nel tascapane che si portava sempre dietro “Ancora un paio di giorni e potrai smettere di prenderla.” poi uscì, con la sua schiena gobba, senza neanche salutare, come faceva sempre, raggiungendo la biblioteca dove Mohena cuciva e Sebastian strapazzava per l’ennesima volta il suo giornale sportivo. Era raro che non avesse qualcosa da leggere fra le dita: il suo era un amore incondizionato.
Tuttavia, l’uomo alzò gli occhi dal giornale quando sentì la porta aprirsi e la moglie fece lo stesso “Come sta?” chiese con una certa preoccupazione nella voce e nell’espressione.
“Almeno adesso riesce a parlare e non a mugugnare” rispose con un’alzata di spalle, guardando i due signori che ricambiavano con un’espressione sollevata.
“Si sieda pure, Austin” lo invitò allora Sebastian, piegando il giornale e indicandogli una delle poltrone nella sala, davanti al camino acceso “Cosa possiamo offrirle?”
“Gradirei un po’ di latte” fece con un certo timore.
Comunque, non ebbe modo di capire se la richiesta che aveva fatto era da maleducato o meno, perché qualcuno suonò alla porta. Mohena corse ad affacciarsi alla finestra, affiancando il nemico, seguita da suo marito e qualche secondo dopo dall’anziano eremita che non aveva più i riflessi di una volta. Abram, intanto, era sceso al piano inferiore e aveva inforcato il fucile, mentre Aamir era pronto con l’arma tesa in cima alle scale e Ethan faceva lo stesso dallo stipite della porta della cucina.
Con un solo movimento, il ragazzo aprì la porta, facendo sobbalzare quello dall’altra parte, che indossava una tuta arancione piuttosto evidente. Non ci volle molto per capire che era un evaso dal carcere.
“Sono Mano!” disse parandosi con un gomito. La luce improvvisa che lo aveva investito quando Abram aveva aperto la porta gli faceva dolere gli occhi in un modo insopportabile.
Ci fu un momento di silenzio generale.
Il capo dei ribelli era evaso, e in sé questo era un bell’avvenimento, ma era solo e questo non tornava nei conti. Ethan aveva detto chiaramente che lui e Honey erano nella stessa cella, quindi se uno era riuscito a fuggire, doveva esserci riuscito anche l’altro.
Insieme al silenzio si fecero presenti emozioni preoccupate e cattive, facendo così passare Mano dalla parte del messaggero che portava solo cattive notizie, anche se così non era.
Il primo a smuoversi fu Aamir, che buttò l’arma a terra e corse per le scale, rischiando di uccidersi almeno un paio di volte . Non appena fu davanti alla porta, non esitò a buttare le braccia al collo del suo vecchio compagno, che non vedeva da almeno un paio di mesi, se non tre. Aveva perso il conto.
“Mano!” fece piagnucolando, mentre l’altro respirava, affannato, ancora spaventato dal fucile. Aveva creduto veramente che sarebbe morto di lì a poco, dopo tutta la fatica che aveva fatto per tornare alla villa dal carcere, camminando per un giorno intero senza avere neanche la possibilità di dormire. Non sapeva se la scelta di tornare là era saggia, ma aveva bisogno di un posto per nascondersi, perché sicuramente la polizia lo stava cercando.
“Entra!” fece prontamente Abram, tirandolo dentro casa e portandosi appresso anche il principe che non sembrava avere la minima voglia di lasciarlo andare, ancora commosso dal ritorno del suo vecchio compagno di avventure.
Lo fecero sedere, gli diedero del latte – e Austin ne approfittò per prendersi il bicchiere che aveva chiesto prima del nuovo arrivato – e qualcosa da mangiare. In breve, la sua pelle riprese il colore originale e gli occhi tornarono lievemente a brillare, finalmente tornati a vedere alcune delle persone a cui voleva più bene.
Tuttavia, nonostante la felicità generale, c’era una domanda che girava nell’aria da quando Mano era comparso dietro la porta, ma solo Mohena ebbe il coraggio di parlare “Dov’è Honey?”
La domanda echeggiò per la stanza come una condanna. L’evaso voltò la testa.
“L’hanno portata via. Ho approfittato della porta aperta per andarmene” rispose con un tono colpevole. Quando avevano aperto la cella per prenderla, era intontito dal sonno e fin dai primi momenti aveva creduto che l’avrebbero portata nella sala degli interrogatori come succedeva spesso di notte. Gli investigatori si divertivano a svegliare i carcerati, era una forma di fastidio e di tortura come un’altra, sebbene più leggera. Solo quando l’aveva sentita urlare aveva capito che c’era qualcosa che non andava.
Allora si era alzato e aveva fatto capolino dalla porta ancora aperta. Non sembravano esserci guardie, in giro, così era andato vicino alla porta d’uscita e, strisciando sotto al vetro della cabina della sentinella, aveva sentito delle persone uscire dalla stanza degli interrogatori.
Quando gli passarono davanti, nemmeno lo notarono. Mano comunque vide chiaramente la sua compagna di cella in braccio al figlio minore del signor Sebastian, lo stesso che aveva fatto la spia e aveva fatto arrivare gli elicotteri. Per colpa sua adesso Honey aveva una cicatrice orrenda sulla gamba. Come poteva aver tradito la sua stessa famiglia?
Comunque, quando il gruppo passò, dovette precipitarsi a seguirli, per uscire dal carcere. Non poteva fare niente per la ragazza, ma almeno avrebbe potuto avvisare i suoi genitori alla villa, che sicuramente, del figlio minore, non avevano più alcuna notizia per forza di cose.
“Hai visto chi l’ha portata via?” chiese allora Abram, preoccupato
Annuì, ma si guardò bene dal dirlo, scrutando i visi dei presenti uno per uno.
“Chi?” fece di nuovo l’altro, impaziente.
“È stato Boyce.”
Quell’unica risposta, quel nome, creò uno scompiglio generale in tutti i presenti. Boyce era il traditore, il figlio che aveva rinnegato i genitori che stavano salvando migliaia di bambini, il ragazzo che ora lavorava presso il Presidente. Le voci correvano in fretta nel loro continente e tutti erano venuti ben presto a conoscenza di quel che faceva Boyce per tirare avanti. Era sistemato anche piuttosto bene.
“Boyce?” ripeté con ira Abram. Sapeva bene quel che suo fratello provava per la ragazza e il solo pensare a quel che avrebbe potuto farle gli faceva ribollire il cervello di rabbia. Afferrò le chiavi della macchina da uno dei ripiani: sarebbe andato a riprendersi Honey, l’avrebbe portata nuovamente a casa, l’avrebbe stretta, l’avrebbe baciata e l’avrebbe protetta da chiunque avesse tentato di portarla via un’altra volta.
“Chi è Boyce?” chiese educatamente Arden, ancora seduto a tavola, mentre Abram correva verso la porta.
“È nostro figlio” rispose la donna, lasciandosi cadere su una delle sedie.
Prima che potesse dare cenni di tranquillità, Sebastian gli spiegò la situazione “Boyce è il nostro figlio più piccolo. È stato lui a fare la soffiata su questo luogo alla polizia.”
Allora il ragazzo si incupì “Perché avrebbe dovuto farlo? Siete la sua famiglia!” disse con una certa enfasi. Cominciava a perdere il controllo anche lui. Nel frattempo Abram scese di nuovo le scale con un fucile a canne mozze in mano, poi tornò in cucina a prendere il giubbotto.
“Abram!” lo richiamò Austin, facendolo fermare “Non uscirai da questa casa con quell’arnese tra le dita!”
“Devo tirarla fuori da lì!”
“Vengo con te.” s’intromise allora Arden, creando uno scompiglio generale.
“No!” fu Deanna a parlare, stavolta, parandosi davanti alla porta d’uscita “Con la violenza non riuscirete a risolvere nulla!”
Spostati!” ordinò quello con il fucile.
Si spaventò a quell’urlo, ma non si mosse, decisa sul suo posto “Potrebbe usarla come ostaggio! Non essere così avventato, o almeno posa il fucile.” l’ansia era tanta che riuscì solo a parlare nella sua lingua “Non sai neanche dove abita!
“Lo so io” rispose Ethan.
“Nessuno andrà da nessuna parte a far violenza” proclamò allora Sebastian, guardando il figlio con espressione severa, facendogli poggiare da una parte il fucile “Deanna ha ragione. Se devi andare da Boyce, non portare nessuna arma con te, sarebbe solo una mossa stupida e lo metteresti in allarme. Se andasse via non avremmo più possibilità di vederla o di portarla a casa.”
Allora, con un gesto di stizza, Abram diede un calcio al fucile, facendolo spostare di qualche metro. Poi aprì la porta ed uscì come un fulmine, seguito a ruota da Arden, che era impaziente di riabbracciare sua sorella.
 

***

 
Durante tutto il periodo in cui non si erano visti, Boyce ne aveva fatta di strada. Fece entrare Honey in uno degli stabilimenti più lussuosi della città, dove aveva un appartamento abbastanza grande al secondo piano. Non fu difficile trasportarla: un po’ grazie all’esercizio fisico che aveva dovuto fare per entrare nelle squadre private del presidente, un po’ perché la ragazza era visibilmente dimagrita dall’ultima volta in cui l’aveva vista, il giorno dell’agguato. Aveva perso un po’ di forme sui fianchi e sulle cosce, ma fortunatamente il viso era rimasto tondo come sempre, con le guance stranamente piene. Certo, un viso tanto giovane e florido si addiceva poco al fisico magro: tuttavia, Boyce contava di farle riprendere qualche chilo durante il soggiorno a casa sua. Aveva un paio di cuochi che pensavano a cucinare e sicuramente i loro piatti erano molto più buoni di quelli che fino a quel momento aveva assaggiato in carcere.
L’abbandonò sul letto della sola camera per gli ospiti che aveva fatto preparare esclusivamente per il suo arrivo, poi andò a darsi una lavata e a radersi. Voleva farsi trovare fresco e pulito per il suo risveglio. L’opera per conquistarla doveva cominciare sin da subito, anche prima di quella per farla riavvicinare a lui. Sapeva che Honey era un tipo orgoglioso e non contava di riprendere i vecchi rapporti sin dall’inizio, ma aveva comunque buone probabilità.
Nell’attesa, dopo essersi preparato, indossando una camicia a fantasia scozzese, un paio di jeans e le scarpe sportive, andò a sedersi al piano, cominciando a suonare quella melodia che aveva scoperto anni prima nel canticchiare della ragazza. Con il passare del tempo aveva avuto modo di affinare la sua tecnica e di porre delle piacevoli sfumature allo spartito, in attesa di fargliela sentire e di vedere la sua reazione. Sapeva che era un’amante della musica, lo aveva scoperto quand’era appena arrivata: rimaneva seduta sul tappeto a fissare lo stereo che riproduceva a non finire brani classici di Bach o Beethoven. Ricordava con precisione della prima volta in cui si era seduta vicino a lui, sullo sgabello del pianoforte, cercando di capire come funzionassero i tasti bianchi e quelli neri, premendoli talvolta durante qualche esercizio, storpiandogli tutta la melodia. Quando si rese conto di essere stufo di farsi rovinare in continuazione le sue composizioni, le aveva insegnato qualche passaggio, con le scale e tutto il resto. Poi, come per ogni cosa, aveva imparato a suonare ma aveva lasciato perdere poco dopo, subito dopo aver finito l’entusiasmo per un nuovo gioco. La cosa che più gli rodeva era che aveva imparato in fretta, mentre lui aveva dovuto seguire anni e anni di insegnamenti per arrivare ai suoi livelli. Comunque, era tutta colpa della miscela, che la rendeva più intelligente di quanto dovesse essere.
Numerose volte le aveva rinfacciato questo particolare, ma lei ogni volta rimaneva impassibile. Non si era mai reso conto di quanto le sue frasi avessero potuto distruggerla e farla crescere con una visione distorta della vita o dei bambini della sua età. Durante lo stesso periodo aveva cominciato a frequentare i ragazzi più grandi, che presero a trattarla male, fino a quando non si ritrovò un taglio lunghissimo lungo tutto il fianco destro, perché aveva provato ad entrare nella sua camera dalla finestra.
Alla fine, Honey era stata trattata male sempre, quand’era ancora bambina. Era ovvio che si fosse invaghita di suo fratello Abram, dato che era l’unico che la trattava bene tra tutti i bambini della villa. Boyce aveva cominciato ad invidiare suo fratello che si teneva per se tutte le attenzioni di quella che ormai era diventata una ragazza, così aveva cominciato a trattarla bene anche lui, fino a quando non se la ritrovò tutta per sé fra le mani non appena suo fratello cominciò i corsi per diventare un ottimo soldato.
Tutto quel che aveva era stato guadagnato o perché gli spettava di diritto o perché c’era qualcuno che non sapeva più che farsene. Difficilmente era riuscito a meritarsi qualcosa con la sua sola intelligenza. Si era buttato nello studio, tra i libri di storia, di musica, di arte, tutto per avere un vero elogio da parte dei suoi genitori, che continuavano a stravedere solo ed unicamente per tutti i bambini che ospitavano nella villa, ma mai per lui. I loro erano complimenti distratti, indaffarati, non lo guardavano neanche negli occhi quando recitava versi di Neruda in uno spagnolo sciolto e dalla pronuncia perfetta, che aveva raggiunto con faticosi studi on-line o con dei dizionari che mettevano la pronuncia tra parentesi. Aveva imparato a pronunciare la r come un siciliano, a muovere la lingua come un portoghese e a far fluire la parlata francese come un madre lingua, ma non era bastato a niente. Quando aveva trovato appeso al muro un foglio che invitava la popolazione a denunciare la sua famiglia, non aveva avuto bisogno di riflettere due volte sul da farsi. Aveva contattato l’allora segretario del ministro, che ora era un suo sottoposto, e aveva dato il via alle ricerche, regalando coordinate ai nemici della sua famiglia, ancora troppo indaffarata con i bambini per rendersi conto delle sue uscite frequenti e dei suoi rientri notturni. Era filato anche tutto troppo bene, per i suoi gusti; eppure alla fine aveva raggiunto un risultato considerevole, con le sue sole forze. Era il segretario del presidente che governava l’intero continente, se non l’intero pianeta e tutto solo per un misero impegno da parte sua. Non importava se i suoi genitori non l’avevano approvato, perché, alla fine, non avevano mai approvato nulla. Comunque, avrebbero approvato un fidanzamento con la loro figlia preferita, giusto?
 
Honey si svegliò con la testa che le girava, costretta così a lasciarsi di nuovo cadere sul cuscino per riprendere minimamente i sensi. Ricordava alla perfezione quel che era successo nella prigione, ma non riuscì ad alterarsi, ancora troppo stordita da quel che le avevano fatto respirare.
Sentiva una scia fluente di note provenire da una delle camere della casa e non impiegò molto a riconoscere la melodia che queste creavano. Certo, aveva qualche sfumatura che non aveva mai sentito, ma nel complesso rimaneva la ninna nanna che sua madre le cantava prima di rimboccarle le coperte a lei e ai suoi fratelli.
Già, chissà come stavano. Da quanti anni non rivedeva il viso di Neil? E Arden? Per non parlare poi di quello di sua madre, che probabilmente con tutto quel tempo si era riempito di rughe, come quello di suo padre. No, Oscar non riusciva proprio a vederlo con il viso stanco tipico di una persona che faceva un lavoro come il suo in fabbrica. Lo ricordava ancora forte e impettito come quando gli comandava di schiacciare qualche insetto entrato sfortunatamente in casa.
Cosa ne era rimasto del mondo che aveva vissuto quando era bambina? Decisamente niente.
Si tirò nuovamente a sedere, stavolta più preparata, poi poggiò i piedi sul pavimento inaspettatamente foderato a creare una moquette e tremendamente caldo. Forse erano nei periodi freddi, non lo ricordava neanche più. Aveva perso il conto dei giorni, da quando era in cella.
Una volta in piedi si diresse verso la fonte di quella melodia che continuava a cullarla come una buona mamma, anche se sapeva che al principio c’era solo una persona cattiva che aveva interrotto la sua vita tranquilla alla villa, proprio poco prima di compiere l’età giusta per tornare a casa, che aveva tradito l’intera famiglia, genitori e fratello compresi. Provò un brivido ripensando ad Abram: quanto avrebbe voluto riabbracciarlo!
Così si alzò, lentamente, rendendosi conto solo in quel momento di avere indosso un pigiama in pile verdino. Aveva voglia di vomitare, se solo pensava a Boyce mentre la cambiava, sperando visceralmente che non fosse stato lui ad infilarle il pigiama che portava adesso.
Con dei piccoli passi arrivò nella sala dove suo fratello stava suonando il pianoforte, senza smettere di correre con le dita sui tasti quando la vide entrare. Era sempre stato un gran fanatico della sua musica, sin da quando lo aveva conosciuto la prima volta e sapeva bene che non avrebbe mai interrotto un’esecuzione se non per motivi importantissimi. Attraversò la stanza e andò a sedersi sul grande divano posto alle spalle del ragazzo, chiudendo gli occhi e sospirando, già stanca, limitandosi ad ascoltare quel rimasuglio che era rimasto della sua vita familiare, fino a quando l’altro non finì la sua esecuzione. Carezzò  i tasti e chiuse amorevolmente il piano, alzandosi poi per andarle incontro e sedersi al suo fianco. La abbracciò, ma Honey non rispose a quel gesto di affetto falso, in attesa che l’altro si spostasse e respirando a pieni polmoni la sua colonia che comunque aveva un che di piacevole.
L’altro si alzò per guardarla, sorridendole in modo naturale “Mi sei mancata così tanto…”
Lei non rispose, volgendo gli occhi altrove, senza riuscire a trattenere un paio di lacrime che Boyce si premurò immediatamente di asciugare con il dorso della mano destra “Non piangere, ci sono io con te…” sussurrò piano, mentre la spingeva contro il proprio petto che si era inaspettatamente fatto largo e duro. Honey rimase un tantino sorpresa dalla forza fisica del fratello che non aveva quando erano ancora alla villa dei suoi genitori.
Il ragazzo si accorse del suo stupore, studiandola in viso, premendola ancora di più contro di sé per farle notare ancora di più il suo vigore fisico, insieme ai rigonfiamenti sulle braccia che premevano sulla camicia “Sono cambiato molto, dall’ultima volta. Non permetterò a nessuno di portarti via da qui, neanche se dovesse venire la polizia in persona, H” sussurrò, baciandole poi la testa.
La ragazza sospirò con nostalgia, perché era molto che non sentiva qualcuno chiamarla a quel modo. Le sembrava quasi di essere tornata a casa, nella biblioteca dove si nascondeva dagli altri bambini che la trattavano male, tra le pagine di libri d’avventura e le note di melodie che non aveva mai conosciuto se non con l’aiuto del ragazzo che adesso la stringeva.
“Perché mi hai portato qui?” chiese, parlandogli per la prima volta da quando era arrivata nella camera, separandosi da lui e allontanandosi, sedendosi sul cuscino più distante, verso il bracciolo.
“Non venirmi a dire che stavi meglio in prigione! Appena ho saputo che eri in cella con Mano ho fatto di tutto per portarti fuori di lì, ho pagato la cauzione. Costi parecchio allo Stato, sai? Ti ho comprata a caro prezzo.”
Sentirsi dare dell’oggetto da comprare la fece rabbrividire, ma non disse niente, continuando a tenere lo sguardo basso verso le sue ginocchia coperte da quel pigiama verdino che aveva indosso.
“Se veramente mi vuoi bene, Boyce, torniamo a casa. Mohena e Sebastian dimenticheranno tutto, con un po’ di impegno da parte tua…potrebbe tornare tutto come prima!” mentre parlava lui si era alzato dal divano e si era avviato verso il piano, sedendosi nuovamente sullo sgabello e guardandola in faccia, in uno scontro diretto. Il suo sguardo era intenso, le metteva ansia e la faceva sentire nuda.
“Pensi che avrei tradito i miei genitori, altrimenti? Ho cantato perché quella vita non mi stava bene!” esclamò alzandosi nuovamente, sciogliendosi i polsini della camicia e andando verso la finestra con passi lunghi e leggeri. Era cambiato anche nel camminare. “Io non volevo che cominciasse tutta quella storia, non mi è mai piaciuto avere tutti quei marmocchi intorno che succhiavano via energia da mio padre e mia madre! E tu, Honey” la ragazza sussultò a sentire il suo nome uscire con tanta dolcezza da delle labbra tanto furiose “è anche colpa tua se mia madre non mi ha mai degnato delle attenzioni che meritavo.”
“Cosa stai dicendo? I tuoi genitori ti vogliono più bene di quanto ne vogliono a me!” rispose allora Honey, alzando gli occhi su di lui. Lo vide sussultare quando i loro sguardi si incrociarono, così prese fiato e continuò “E te ne vogliono ancora adesso, anche se li hai traditi.”
“Sono stati loro a tradire me per primi, non il contrario!” stava per continuare ma un campanello lo interruppe.
Dalla porta davanti al pianoforte entrò una cameriera che doveva avere all’incirca vent’anni, ma non era una terrestre “Signor Boyce, ci sono due persone che chiedono di vederla.”
“Sono impegnato, adesso.” disse facendo un gesto di stizza con la mano, voltandosi di nuovo verso l’ospite. Sembrava essersi calmato almeno un po’.
“Uno dei due dice di essere suo fratello, signore.”
Entrambi i ragazzi presenti nella stanza guardarono la cameriera con espressione stupita. Nessuno dei due disse niente, limitandosi a stare in silenzio per pensare.
Honey si alzò dal divano, correndo verso la porta da dove era entrata la cameriera, senza riuscire a dire una parola, riuscendo a schivare le braccia del padrone di casa che tentavano di fermarla.
“Abram, Abram!!” urlò mentre vedeva due figure oltre la porta di vetro che separava il corridoio dall’ingresso. A quell’urlo, la figura dietro il vetro si mosse, voltandosi verso la voce e mostrando una chiazza indistinta e rosa dietro la parete trasparente ma opaca. Coprì la distanza ancora con pochi passi, poi la porta si aprì dalla parte opposta, lasciando entrare il ragazzo nel suo campo visivo.
“Honey!” la chiamò questi con un sorriso sorpreso, aprendo le braccia e lasciando che lei gli si appendesse al collo, in una stretta forte e mozzafiato, mentre lui la stringeva di rimando, la alzava da terra in modo che la schiena non gli facesse male e continuava a chiamarla, piano, sussurrandole il suo nome nell’orecchio come una preghiera.
Lasciò che toccasse nuovamente terra, sciogliendola dall’abbraccio, anche se a malincuore.
Fu allora che si volse verso il secondo ospite, che le tolse il sorriso in un istante.
Arden era in piedi, davanti a lei, incredulo, frastornato e felice. Si vedeva chiaramente che era sull’orlo del pianto dal modo in cui guardava la sorellina dopo anni e anni di separazione. Boyce, senza capire, osservava quella scena in silenzio, facendo mente locale tra i ribelli che aveva visto nella villa prima che contattasse il presidente, senza riuscire ad identificarlo.
Lo sconosciuto aprì le braccia, con un sorriso, mentre Honey si portava le mani tremanti sulla bocca, in un pianto fatto di singhiozzi che le scuotevano la schiena a ritmi irregolari. Fu l’altro ad andarle incontro e a stringerla come se fosse una bambina piccola, lasciando che il fiume di lacrime gli bagnasse completamente il cappotto costoso che aveva indosso. Lei farfugliò parole incomprensibili, mentre piangeva, che solo l’altro sembrò capire, rispondendole con frasi dolci e rassicuranti, carezzandole la nuca mora e dai ciuffi corti e tagliati in malo modo.
“Cosa sei venuto a fare, Abram?” chiese allora Boyce trattenendo a stento l’ira che si portava in corpo. L’aveva portata in casa per farla sua e lui era di nuovo arrivato a rubargliela da sotto il naso.
Il fratello si voltò alle sue parole, guardandolo con un’espressione truce che lasciava trapelare la sua rabbia senza complimenti, dimostrando che era tale e quale a quella dell’altro. Anche Honey e l’altro si voltarono a guardarli, nel momento stesso in cui il maggiore sfilava dalla cinta una pistola, fin’ora nascosta sotto il cappotto lungo.


Note Finali*
Olè, questo capitolo stava diventando veramente troppo lungo, così ho deciso di pubblicarlo a metà.
Ormai questa storia sta per volgere al termine, si tratta veramente di pochissimi capitoli (una decina al massimo) e, come avevo già detto negli aggiornamenti precedenti, una volta finito questa vedrò di provvedere anche alle altre, finendole di nuovo una per una. Ancora non ho deciso quale riprendere in mano per prima, a dire la verità, perché sto passando un periodo fermo - a dimostrazione il fatto che passa tanto tempo fra un aggiornamento e l'altro.
Vorrei ringraziare tutti quelli che seguono questo racconto in modo più appassionato o meno. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, quindi chiedo ai più coraggiosi di lasciarmi un commento, giusto per farmi un'idea. Detto questo mi dileguo. Non vi faccio false illusioni sulla prossima parte del capitolo perchè veramente non so quando pubblicherò. Potrebbe mancare una settimana come potrebbe mancare un mese o un anno.
Notte a tutti, haki.
   
 
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