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Autore: Doralice    13/02/2012    4 recensioni
Piccola, azzurra aleggia
una farfalla, il vento la agita,
un brivido di madreperla
scintilla, tremola, trapassa.
Così nello sfavillio d'un momento,
così nel fugace alitare,
vidi la felicità farmi un cenno
scintillare, tremolare, trapassare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg, Tematiche delicate
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Uno

~

Di sogni e sintomi e sospetti e altre cose che iniziano per “s”


La vita è ciò che succede

mentre noi pensiamo ad altro.

Oscar Wilde –



Ottobre 2010.


L'autonoleggio era giusto a due minuti dall'uscita della A41. John salutò con sollievo il cartello Aylesbury / Centre London W.

Fece manovra nel parcheggio e fermò l'auto. La chiave girò e il motore si spense con un ultimo, stanco brontolio. Anche a John parve di spegnersi. Il ritorno da Baskerville era stato un viaggio lungo, lunghissimo. Infinito. Ma di solito non era il contrario? Di solito non era l'andata a sembrare più lunga del ritorno?

Smontò dall'auto. E quasi si stupì che Sherlock facesse lo stesso: dopo quattro ore di totale immobilità e anomalo silenzio, era convinto che si fosse irrimediabilmente fuso con il sedile. Lo vide avviarsi fuori dal parcheggio. Batté le palpebre e distolse lo sguardo con uno sospiro, scrollò le spalle per sgranchire il collo indolenzito. Si mosse infine verso gli uffici per riportare le chiavi al gestore.

Quando uscì si accorse che il giorno aveva fatto definitivamente spazio alla sera. E che aveva freddo. Soffiando via un brivido tra i denti, tirò su la zip della giacca e andò a cercare Sherlock. Lo trovò appena fuori, sul marciapiede difronte. Un taxi era fermo, acceso, in attesa che salissero.

Il percorso fino a Baker Street, a quell'ora, di domenica, non dovette durare più di venti minuti. A John parve un'eternità. Quel silenzio, che li accompagnava da tutto il giorno e che all'altezza di Birmingham aveva iniziato a pesare, ormai pareva aver permeato ogni cosa, appiccicoso e anche un po' soffocante. Né la presenza del tassista né lo sfrigolio insistente della radio rimediavano al disagio.

Quando la vettura fermò al 221B, Sherlock aprì la portiera e uscì senza una parola. Ancora una volta, gli occhi stanchi di John seguirono la sua figura. Non aveva la forza di cercare di capire cosa lo tormentava. Salì le scale con il passo esausto di chi vede il proprio letto ancora lontano dieci miglia, nonostante sia appena dietro l'angolo.

È sempre così, dopotutto, no? Gli ultimi passi sono sempre quelli più difficili.

Quando trovò il conforto del materasso sotto il suo corpo stanco, John decise risolutamente di chiudere gli occhi e, assieme ad essi, chiudere anche il pensiero “che-diavolo-gli-prende-adesso?”. Almeno fino al mattino dopo. Che lui lo sapeva bene: ci voleva la forza del sonno ristoratore per affrontare uno Sherlock con la luna storta.


Dopo un'intera notte insonne, le idee iniziavano ad accatastarsi. Dove aveva messo i cerotti alla nicotina? Mhm... no, non aveva voglia di alzarsi. Non dopo aver trovato la perfetta posizione per pensare.

La sagoma di John apparve in un angolo del suo campo visivo.

'Giorno. –

Sherlock non rispose. Così come non rispose alla signora Hudson che gli chiedeva se voleva una tazza di tè. Non rispose nemmeno al cellulare: non era il momento, Lestrade avrebbe dovuto fare quel lavoro per il quale era mantenuto dai contribuenti, per una volta.

Non si mosse di lì, dunque. Non fece un bel niente Sherlock.

E facendo un bel niente, arrivò l'ora di pranzo. E passò anche. Il gorgoglio dello stomaco era facile da ignorare, tutto sommato.

A metà pomeriggio riuscì a giungere ad una conclusione e per averne la conferma avrebbe dovuto sentire John. Ma John era in ambulatorio, certo, era lunedì. Dunque doveva telefonargli. Il suo cellulare era nella tasca del cappotto. E il cappotto era appeso nell'ingresso. E davvero non era il caso di alzarsi dal divano. Chiamò la signora Hudson, ma lei non si fece viva. Doveva essere offesa perché lui non aveva risposta alla sua offerta di un tè.

Sbuffò. Che tedio la gente comune.

La sera lo colse nel bel mezzo di un ragionamento. Gli occhi s'abituarono al graduale cambiamento di luce, finché le ombre attorno a lui divennero sempre più lunghe e sfocate, e infine si ritrovò immerso nel buio del soggiorno.

Quando John accese la luce, il suo cervello s'era già premurato di preparare i nervi ottici a ricevere quell'assalto sensoriale, ma non servì a molto. Ferite, le pupille si strinsero sotto le palpebre. Una breve fitta s'irradiò dalle tempie, annunciandogli l'insorgenza di una seccante cefalea.

Ci fu un momento in cui John gli chiese se voleva mangiare. Era abbastanza fastidioso quando interrompeva il corso dei suoi pensieri, per cui non rispose. Dove era rimasto? Non riusciva proprio a concentrarsi con tutti quei rumori che faceva in cucina. Per non parlare del suo continuo brontolio. Fu allora che Sherlock riconsiderò quella conclusione e decise che non avrebbe chiesto a John quella conferma che gli serviva.

Per il momento.

Dopotutto, John non era pronto per una cosa del genere. Era palese dal modo in cui la sua ristretta mentalità girava attorno al problema senza metterlo a fuoco. Doveva averlo sicuramente catalogato come attività onirica influenzata dalle tossine con cui era venuto a contatto a Baskerville. Incubi, in poche parole. Bastava soffermarsi sul suo volto tirato e perplesso, tipico di quando faceva un brutto sogno e stava a rimuginarci su tutto il giorno.

Decisamente, John non era pronto.

Nonostante tutto quel gran bel riflettere, fu facile per Sherlock evitare di pensare che – forse – anche lui non era poi così pronto.


Da stoico e paziente uomo di mondo quale era, John sorvolò sull'ennesimo comportamento asociale del suo coinquilino e proseguì la serata per conto suo. Preparò la cena, sparecchiò, lavò i piatti. Decise poi di non fermarsi a guardare la televisione, perché quella presenza di mummia vigile sul divano lo metteva a disagio. Optò quindi per la propria camera e un buon libro. Sì, quella era una degna soluzione.

John aveva già abbastanza gatte da pelare per stare a preoccuparsi anche degli sbalzi umorali di Sherlock. Gli sarebbe passata, come sempre. Come sarebbe passata a lui quell'altra cosa che...

Ma quel comportamento non era da Sherlock – rifletteva mentre si lavava i denti. Insomma, non era normale, non dopo la brillante risoluzione di un caso, per lo meno. Mhm... come se lui ne sapesse qualcosa di ciò che era o non era “da Sherlock”. Andiamo, quanto lo conosceva? Certamente non quanto Sherlock conosceva lui. Gli aveva riassunto la vita al loro primo incontro: adesso, dopo più di un anno di convivenza, chissà quante informazioni aveva accumulato su di lui in quell'assurdo database che aveva al posto del cervello.

E tu? Tu che ne sai di lui?

La mano fermò il movimento e lo specchio del bagno gli rimandò una buffa espressione che aveva un che di patetico.

John finì di lavarsi e soffocò un grugnito infastidito nell'asciugamano. Fuori dal bagno, si sporse appena a sbirciare in soggiorno: era sempre lì. Sempre immobile. Sempre silenzioso. Sempre così eternamente lontano.


Sempre così eternamente vicino. Neppure si ne rendeva conto di quanto.

Interferiva con il fluire dei ragionamenti. E non poteva nemmeno tirare fuori la scusa dell'ignoranza: gliel'aveva detto così tante volte di non stargli addosso in quel modo.

Ah, se n'era andato in camera sua. Finalmente.

Sherlock riprese il filo dei pensieri. Lo dipanò lentamente, snodandolo con perizia e stendendolo ordinatamente nella sua testa. Ogni cosa trovò una collocazione e l'unico vuoto che restava era sempre lo stesso: quello che attendeva di essere riempito dalla conferma di John.

Tempo. Gli serviva tempo. Conoscendo John, non sarebbe bastato semplicemente chiederglielo. O forse sì? Be', la risposta dipende sempre da come si pone la domanda.


Spazio. Gli serviva spazio. Era tutto troppo soffocante, troppo caldo, troppo umido, troppo... troppo. Era insopportabile. Dio, avrebbe voluto che non finisse mai...

John si risvegliò di colpo, prima di raggiungere quel limite oltre il quale un sano maschio adulto non può che dire addio alla propria dignità e all'igiene dei propri boxer.

Si era addormentato dopo due pagine e aveva sognato. L'aveva sognato ancora. Si passò una mano sulla fronte sudata e sospirò di frustrazione.

Quello che più lo disgustava era il fatto di non riuscire a capire se era una cosa bella o brutta. Cioè, praticamente non gli faceva schifo il sogno in sé, ma ciò che ogni volta gli faceva provare. C'era un bel po' di materiale per la sua analista. Ma no, grazie, quella era l'ultima cosa che sarebbe andato a riferirle. Ci mancava solo che Mycroft venisse a saperlo, a sapere una cosa del genere... santo Iddio...

Imbarazzante” era il termine che gli veniva in mente. Ma non era sufficiente, proprio no.

Il primo di quei sogni l'aveva fatto a Baskerville. La seconda notte. S'era svegliato con un mezzo urlo strozzato in gola e il corpo in preda ai tremori. Aggrovigliato alle coperte, s'era rigirato convulsamente, con il sangue che gli pulsava violento ai due poli estremi della volontà maschile. Era convinto di trovarsi Sherlock seduto lì vicino, con lo sguardo di chi la sa lunga e un sorrisetto di consapevolezza stampato in faccia.

Ovviamente non andò così. Sherlock dormiva nel letto a fianco al suo e sembrava non essersi accorto minimamente che qualcuno, ad un passo da lui, aveva quasi infartato a causa di un sogno che lo coinvolgeva da vicino. Molto da vicino.

Le tossine. – si era detto e continuava a dirsi – Sei ancora sotto l'influenza di quelle dannate tossine.

Quanto era facile prendersi in giro.

John raccolse il libro e provò a distrarsi riprendendo la lettura. Dopo la quarta volta che rileggeva la stessa frase senza comprenderne il significato, abbandonò il libro sulle ginocchia e si strofinò la faccia. Aveva l'impressione che la tecnica “letto più buon libro” non sarebbe stata sufficiente, questa volta. In preda ad un'insonnia coi fiocchi, si decise a scendere di sotto per farsi un tè. Almeno gli avrebbe occupato una buona mezzora.

La mummia era dove l'aveva lasciata. Gli risparmiò l'accensione della luce, chiedendosi tuttavia se si sarebbe reso conto di qualcosa, e si limitò ad accendere quella della cucina. Conosceva a memoria il contenuto dei cassetti e sapeva localizzare ad occhi chiusi il bollitore e la latta del tè e le tazze pulite, ma era troppo stanco e quella cucina poteva riservare brutte sorprese dimenticate lì a putrefarsi in sostanze chimiche e lui di esperimenti ne aveva fin sopra i capelli.

Fornitosi della sua bella tazza di tè, passò di nuovo per il soggiorno. E una punta di preoccupazione iniziò a farsi strada in mezzo alle sue personali paranoie, andando a colpire il tasto più apprensivo del medico che era in lui.

Da quanto stava lì? Gli sarebbe venuta una cancrena, le piaghe da decubito... Ma aveva mangiato? Aveva dormito? Aveva fatto la pipì – era pericoloso anche quello, eh!

Sto bene, John. –

John si scottò le dita con il tè che il suo sobbalzo aveva fatto traboccare dalla tazza. Mugolò per il dolore e si succhiò le parti offese.

Stai... – si schiarì la voce – stai lavorando ad un nuovo caso? –

Certo che no. –

Allora cosa... –

Sto cercando di pensare. E la tua presenza ansiogena mi distrae. –

Era difficile mantenere della sincera empatia e preoccupazione nei confronti di un essere tanto impermeabile ai rapporti umani come Sherlock Holmes. John virò i suoi sentimenti verso la pietà – pietà per una persona così arida e irriconoscente, che non riusciva nemmeno a fare finta di apprezzare gli sforzi del suo unico amico – e decise di tornasene in camera sua. Almeno il libro non lo trattava male. E nemmeno il letto. E poi adesso aveva anche il suo tè. Loro sì che erano sulla sua stessa lunghezza d'onda.

Per quanto possa apparirti assurdo, apprezzo che ti preoccupi per me, John. –

Immobilizzato sulla rampa delle scale, John s'imbronciò subitaneamente. Quanto era fastidioso quando capiva al volo cosa gli passava per la testa e glielo sbatteva in faccia in quel modo! Non aveva il minimo pudore.

Come no. – borbottò tra sé.

Gli ultimi scalini subirono l'assalto dei suoi passi appesantiti dal rancore infantile.


Alle quattro del mattino del giorno dopo, Sherlock batté le palpebre nel buio e sospirò profondamente. Aveva riflettuto abbastanza. Era il momento di mettere da parte quella faccenda e dedicarsi a qualcosa di più proficuo.

Nel mettersi a sedere, la schiena scricchiolò pericolosamente e la vista gli si offuscò. Si aggrappò saldamente alla seduta del divano, aspettando con impazienza che la testa smettesse di girargli. Calcolò allora che non mangiava da circa trentasei ore. Ebbene, avrebbe dovuto obbligarsi a fare un pasto.

Seccante. Era decisamente tedioso dover essere schiavo della propria biologia.

Sherlock riuscì infine a schiodarsi da quel divano e andò in cucina per cercare qualcosa – qualsiasi cosa – potesse sostentarlo. Aprì il frigo e, senza nemmeno guardare, arraffò la prima cosa che trovò e la divorò nel tragitto dal soggiorno al bagno. Suo malgrado, doveva fare pipì.

Oh, e aveva bisogno di una doccia. E anche di vestiti puliti.

Noioso, noioso, noioso.

Si bloccò sul pianerottolo. Il suo cellulare: non lo controllava da più di un giorno. Andò di sotto e lo sfilò dalla tasca del cappotto. Controllò le chiamate mentre tornava di sopra. Sette da Lestrade, due da Mycroft. Cinque messaggi.

Odio quest'espressione, ma stiamo brancolando nel buio. Rispondi appena puoi. – GL

D'accordo, rispondi quando ti gira... ma rispondi! – GL

Non ti mando affanculo solo perché mi servi. Comunque è implicito. – GL

Un sorriso sì aprì gradualmente sul volto di Sherlock mentre cancellava i minacciosissimi e terrificanti richiami dell'ispettore.

Mi chiedo quale sia l'utilità di possedere un cellulare se poi non ti degni di

Cancella”. E adesso che andasse a piangere da mamma perché suo fratello gli faceva i dispetti.

Vai a dormire. – JW

Sherlock rallentò il passo fino a fermarsi, il cellulare in una mano e un non meglio identificato pezzo di cibo nell'altra. Alzò gli occhi dallo schermo e guardò il vuoto davanti a sé per un momento. Voltò infine lo sguardo verso la rampa di scale che portava alla camera di John, poi tornò a guardare il cellulare.

Quel messaggio dimenticò di cancellarlo.


Buongiorno. –

L'aveva salutato? John ricambiò a stento con un grugnito.

Non aveva ancora fatto colazione. In quel momento, ciò di cui era consapevole si limitava al fatto che 1) aveva fame, 2) il suo nome era John Hamish Watson – e non era del tutto sicuro sul secondo nome.

Fatto sogni interessanti? –

A parte quello che mi perseguita da tre notti, dove tu sei una donna e non mi sembra vero di poterti saltare addosso senza sentirmi gay? No, assolutamente nessuno.

Non l'aveva detto a voce alta, vero? Nel dubbio, John trovò adeguata come reazione strozzarsi con il proprio caffè. Tossì, deglutì, tossì ancora sotto le manate che Sherlock gli stava dando sulla schiena.

Nel breve momento in cui intercettò la sua espressione, ebbe una mezza sincope. Eccolo là. Esattamente quello che temeva. Lo sguardo di chi la sa lunga e il sorrisetto di consapevolezza stampato in faccia: preciso sputato al suo terrore più nero.

Durò meno di un battito di ciglia, poi Sherlock scivolò fuori dalla cucina.

Se mi cerchi sono da Lestrade. Buona giornata, John. –

La fronte solcata da numerose rughe d'ansia, John batté le palpebre ed esalò un sospiro che trasudava disperazione. Quando si ricordò di rispondere al suo saluto, venne raggiunto dal rumore della porta che si chiudeva.


Sherlock alzò il bavero del cappotto e mosse un braccio a chiamare un taxi. Il vuoto era stato colmato e il contenuto corrispondeva esattamente ai suoi sospetti.

Dunque, adesso cosa avresti intenzione di fare?

La sua coscienza possedeva la bizzarra capacità di mutare voce a seconda della situazione: in quel momento aveva fatto la riprovevole scelta di assumere quella di Mycroft.

Non lo so cosa devo fare, va bene? Sono un genio, non un dio.

Sherlock montò sul taxi e diede come direzione Scotland Yard.

Non era una situazione di facile risoluzione – rifletteva mentre le vie di Londra gli scorrevano davanti agli occhi. Non lo era mai, quando lui ne era direttamente coinvolto. Ma a Sherlock piacevano i casi complessi.

Sfortunatamente, in quello specifico caso, vi era un unico punto a suo sfavore. Di lì a poco, tutte le sue geniali facoltà intellettive sarebbero state assorbite dal più imponente esperimento della sua vita. Un esperimento che, a sua totale insaputa, era già in atto.

   
 
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