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Autore: Doralice    11/02/2012    3 recensioni
Piccola, azzurra aleggia
una farfalla, il vento la agita,
un brivido di madreperla
scintilla, tremola, trapassa.
Così nello sfavillio d'un momento,
così nel fugace alitare,
vidi la felicità farmi un cenno
scintillare, tremolare, trapassare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg, Tematiche delicate
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Tutti i buoni propositi che mi sono fatta di frenarmi, di aspettare a mettermi a scrivere – e pubblicare – questa storia, perché è bene prima pianificare a fondo la trama e gli avvenimenti che ho intenzione di raccontare e l'evoluzione dei personaggi e, insomma, tutte quelle cose che vanno fatte per rendere una storia degna di questo nome... tutti questi buoni propositi, dicevo, si sono infranti nel momento in cui ho letto la poesia qui citata, mentre ascoltavo contemporaneamente il brevissimo brano qui linkato.

Questa storia è nata per caso, contro ogni mia reale intenzione... il che è a dir poco emblematico, visto il tema trattato (capirete più avanti cosa intendo). E sarei ipocrita e poco riconoscente se non dichiarassi che tutto questo ha potuto diventare reale sopratutto grazie ad Elendil Snape. Non esagero se dico che questa storia è scritta a quattro mani, perché gran parte dell'ispirazione e delle idee e delle immagini che escono dalle mie dita, non sarebbero mai esistite senza il costante contributo di Elendil. Dunque diamo a Cesare quel che è di Cesare, e ricordatevi di scrivere al plurale nelle recensioni, perché qualsiasi commento varrà per me tanto quanto per lei.







The Buttlerfly Effect


Piccola, azzurra aleggia

una farfalla, il vento la agita,

un brivido di madreperla

scintilla, tremola, trapassa.

Così nello sfavillio d'un momento,

così nel fugace alitare,

vidi la felicità farmi un cenno

scintillare, tremolare, trapassare.

Herman Hesse –



Prologo


Dodici anni è un'età difficile. A dodici anni ti poni un sacco domande. Sul mondo, su te stessa, sul mondo dentro te stessa.

Pensate, poi, se di domande ne hai una sola. Perché tutte le altre te le sei già fatte e hai anche trovato le risposte per ognuna di loro.

Ma per quella domanda no.

Nessun'altra, solo quella, solo lei. Così apparentemente banale e di semplice risoluzione, eppure inafferrabile. Di tutte, l'unica che ancora ti fa tribolare, alla ricerca di qualcosa che cancelli il punto interrogativo e ci metta al suo posto un bel punto. E basta.


Le gambe raccolte al petto, Azuré affondava le sottili dita nella sabbia del bagnasciuga e scavava, riempiendo le unghie di granelli, il palmo di grumi umidi misti a frammenti di conchiglie. L'acqua le lambiva le dita dei piedi facendole il solletico con il risucchio.

L'ennesimo schiamazzo di suo fratello le fece ruotare gli occhi nella sua direzione. Aingeal s'era inerpicato addosso a loro padre, che al momento sembrava molto divertito mentre tentava di scrollarselo di dosso tuffandosi all'indietro in mezzo alle onde turchesi.

Ops! –

Nonostante avesse già notato l'ombra alle sue spalle e sapesse perfettamente cos'era intenzionato a fare, Azuré parò a stento la palla di sabbia lanciata da John. E gli scoccò un'occhiataccia.

Sherlock era “papà”, John era “babbo”. Anche se lei preferiva chiamarli per nome, con sommo disappunto di John.

Se mi guardi un'altra volta in quel modo, ti lancio in acqua. – l'avvertì affiancandosi e guardandola dall'alto.

Azuré si ripulì alla bell'e meglio: – Almeno mi laverei. –

Perfetto! – esclamò lui con un perfido sogghigno.

Due mani ferme la sollevarono per le ascelle e un attimo dopo tutto il mondo s'era fatto molto bagnato e salato.

Riemersero dall'acqua sputacchiando e ridendo e ingaggiando immediatamente una tremenda lotta di schizzi, alla quale s'unirono subito anche il papà e Geal. Fu una battaglia epica e le forze erano pari, per cui alla fine non vi fu alcun vincitore. Stremati e bisognosi di ossigeno, si decisero infine ad uscire dall'acqua. Azuré si asciugò la faccia con una manata e si lasciò cadere sul bagnasciuga, strizzando gli occhi contro la luce vivida di quel luglio.

Accanto a lei, John non fece commenti, ma Azuré conosceva bene quella sua espressione trionfante. Erano in vacanza da una settimana e lei non aveva fatto altro che sabotare qualsiasi tentativo di divertimento. Non che questo avesse impedito loro di spassarsela, ovviamente. Azuré avrebbe solo voluto che la lasciassero in pace, a crogiolarsi nei suoi pensieri. Non lo sapevano che le ragazze della sua età hanno bisogno dei loro spazi, dei loro tempi?

Ecco cosa voleva dire crescere con due uomini. Tre, da quando era nato Geal. Era una brutta storia essere in minoranza.

Azuré sospirò, arrendendosi davanti alla palese capziosità dei suoi collegamenti mentali. Sempre lì dovevano andare a parare, eh?

Un penny per i tuoi pensieri. –

E Azuré sorrise tra sé.

John era quello delle frasi fatte, dei proverbi, del “dalle mie parti si fa così”, del “sai cosa avrebbe detto la nonna?”. Quello che prima di accompagnarti a scuola si preoccupava sempre che sotto ti fossi messa la maglia di lana e che al mare ti spalmava un triplo strato di crema solare perché “non si sa mai”. Era rassicurante, John, era la colonna portante, senza di lui non si sarebbe potuto nemmeno parlare di “famiglia”. Non ci voleva una laurea per capirlo: lei era cresciuta con loro, l'aveva sempre sentito.

Azuré mosse appena la spalla e rispose atona: – Nessun pensiero. –

Sapeva bene che non sarebbe stata una vaga risposta negativa a scalfire il suo granitico intento di farsi i fatti di sua figlia. John era il confidente di tutti. Già, persino il suo, nonostante Azuré fosse così simile al papà.

Sherlock era quello delle frasi ad effetto, dei discorsi da lasciarti a bocca aperta, delle battute sferzanti, dell'intelligenza sovrumana che sconfinava in un ego spropositato. Era quello avventato, lui, quello degli esperimenti ai limiti del legale e delle vacanze sulle Ande, in groppa a dei lama, al seguito di indios che masticavano foglie di coca. Era il succo vitale di quella famiglia folle e rappezzata, la fulgida stella attorno alla quale si muoveva tutto il loro piccolo sistema planetario.

Gli assomigliava in tutto e per tutto, Azuré, nel fisico come nel carattere sociopatico e nell'intelligenza fuori dal comune. Lo ammirava di quell'ammirazione mista al vago – imbarazzante – timore reverenziale che si riserva agli eroi. L'avrebbe seguito in capo al mondo.

Ma solo perché sapeva che prima o poi sarebbe tornata a casa, sotto l'ala protettiva di John.

D'accordo. – le stava dicendo – E questo “nessun pensiero” ha magari a che fare con le due B in pagella? –

Azuré sbuffò una mezza risata e si mise a sedere, scrollando con le mani la sabbia che s'era infilata tra i capelli scuri.

Il babbo era adorabile nel suo costante modo di preoccuparsi per tutto e tutti. Ma come al solito aveva cannato in pieno. Certo, non le aveva fatto per niente piacere chiudere l'anno scolastico con una media sotto la A. Ma cosa poteva farci se il sistema d'istruzione britannico era sbagliato? Lei non era portata per lo sport e dell'arte non gliene fregava niente, eppure ogni settimana la costringevano a lanciare una stupida palla dall'altra parte di un'altrettanto stupida rete, per non parlare dell'illogica nonché inutile imposizione di “rielaborare un'opera d'arte a scelta e realizzarla con una tecnica a piacere”.

Sciocchezze. Azuré non vedeva l'ora di chiudere con la scuola media e andare, finalmente, al liceo. Voleva studiare scienze per iscriversi poi a medicina: con due genitori come loro e la sua innata predisposizione, non aveva dubbi che sarebbe andata alla grande. Allora e solo allora si sarebbe preoccupata seriamente della propria media.

Erano ben altre le sue preoccupazioni attuali. Solo, non era sicura che quello fosse il momento più adatto per parlarne con i suoi genitori.

Non è questo. –

Il babbo si mise a sedere, le gambe incrociate e le mani intrecciate in grembo. Anche se non la guardava, Azurè sapeva che le stava prestano la massima attenzione: era nella sua posizione da ascolto. Lo faceva sempre. Empatia. Una cosa che lui aveva e il papà invece no, non l'avrebbe mai posseduta. Chissà se anche lei sarebbe stata così?

John. – alzò appena la testa verso di lui, nascondendo il disagio e l'agitazione nella smorfia a cui il sole la costringeva.

Mhm? –

Era buffo il suo sforzarsi di non dare a vedere quanto fosse attento. Il fatto è che, anche se a lui non piaceva, sapeva bene che quando lei lo chiamava “John” voleva parlare di cose serie.

Io non sono stata adottata, vero? –

Una conchiglia le capitò opportunamente sottomano, cosicché poté sfogare la tensione rigirandosela tra le dita.

Papà l'aveva detto che non avrebbe retto a lungo. –

Azuré aveva nelle orecchie quel suono lievemente malinconico dei tardi pomeriggi d'estate, fatto dello sciabordio delle onde e delle grida lontane dei gabbiani e delle chiacchiere dei pochi che si attardano in spiaggia fino a quell'ora. Era strano. Non aveva mai immaginato che la verità – quella verità che sapeva sarebbe arrivata, prima o poi, ma che fa sempre un certo effetto – gliel'avrebbero detta con un'atmosfera simile. Chissà cosa avrebbe provato, d'ora in avanti, a passeggiare su una spiaggia?

Portò un ginocchio al petto e chinò la testa di lato, posando la tempia sulla mano. Guardò di traverso il profilo di uno dei suoi due padri. Aveva il suo naso, Azuré, e anche la forma del viso era la stessa. Gli zigomi e le labbra invece, erano di Sherlock, come anche il colore degli occhi. Come avevano potuto pensare che prima o poi non avrebbe notato la somiglianza?

Ma tutte le ricerche che aveva fatto erano chiare e lampanti: il primo neonato ufficialmente concepito da due persone dello stesso sesso, era venuto al mondo nell'aprile del duemilatredici. Sedici mesi dopo la sua nascita. C'era decisamente qualcosa che non quadrava.

John si schiarì la voce, come faceva sempre quand'era nervoso.

Avrai tante domande. – le disse timido.

Azuré mosse le labbra, indecisa.

In realtà ne ho solo una. – alzò la testa e strofinò il mento contro il dorso della mano – Come avete fatto a tenerlo nascosto? C'è di mezzo anche zio Mycroft? –

Il babbo si voltò a guardarla e aveva quel suo solito sguardo. Quello di quando lei faceva o diceva qualcosa che lo sorprendeva. Era uno sguardo strano, che la metteva a disagio. Perché era come pieno di orgoglio, ma aveva anche qualcosa di malinconico. Era uno sguardo talmente tipico di John, che sembrava fatto appositamente per stare sul suo viso. S'era chiesta spesso se quello non fosse lo sguardo che un tempo riservava al papà.

C'è di mezzo anche zio Mycroft. – confermò.

Si pulì poi le mani dalla sabbia e si alzò. Azuré sollevò il capo e lo guardò dal basso, in attesa della frase che avrebbe stroncato quel discorso.

È meglio se... ne devo parlare col papà prima di... –

Ecco, appunto. Azuré distolse lo sguardo, accigliata.

Senti, lasciamo perdere, ok? – borbottò alzandosi a sua volta, evitando ostentatamente di guardarlo.

Non me ne volete parlare, sono troppo piccola, magari fra qualche anno... – cantilenò – Certo, va bene. –

S'incamminò lungo il bagnasciuga, diretta chissà dove, comunque lontano da lui.

Ti ho mai mentito? –

Questa, poi! Azuré si voltò verso di lui, irata.

Da quel che mi è appena stato riferito, sì. – ribatté freddamente – Per dodici anni. –

John era in pieno assetto militaresco, adesso. Lo notava dalla posa rigida, le spalle diritte, la mascella contratta. E quell'espressione di determinazione così caratteristica di lui, quasi quanto lo era quella da “lampadina accesa” che vedeva ogni tanto sul volto di Sherlock.

Questa sera, dopo cena. – dichiarò fermamente.

Mi direte tutto? – lo incalzò, trattenendo a stento l'incredulità.

John annuì. E Azuré si sentì come sgonfiare di tutto l'astio. Lo occhieggiò, cercando di mantenere l'aria sostenuta, di non apparire colpevole come si sentiva.

E adesso vieni qua e fatti dare un bacio. – le ordinò.

Lei sbuffò, raspò la sabbia con i piedi, scrollò le spalle. E infine, le braccia incrociate sul petto, gli andò incontro a grandi passi e si fermò giusto davanti a lui, in attesa del bacio.

Vai. – le disse dopo averle premuto bruscamente le labbra sui capelli.

Azuré ricambiò con un timido, velocissimo bacetto sulla guancia, e scappò via.


I sussurri cessarono nonappena varcò la soglia della portafinestra che dal soggiorno dava alla veranda. Non origliava mai, Azuré: non ne aveva bisogno. Ma adesso che sapeva che stavano parlando di lei – perché di che altro avrebbero potuto parlare? – le sarebbe tanto piaciuto sentire cose si dicevano.

Il babbo evitava di guardarla in modo diretto. Il papà la guardava in modo strano. Non sapeva quale dei due atteggiamenti la mettesse più a disagio. Si sedette su una delle poltroncine di vimini libere, e attese, le mani ficcate sotto le cosce, nei suoi pinocchietti color menta, con i capelli umidi della doccia raccolti in una pinza.

I suoi genitori si scambiarono un'occhiata inequivocabile.

Sherlock si accomodò meglio nella sua poltroncina: – Da dove vuoi che iniziamo? –

Azuré strinse le labbra e deglutì a vuoto.

Dal momento in cui ti sei accorto che eri incinto. – disse tutto d'un fiato.

Lui alzò le sopracciglia arricciò le labbra con aria ammirata. Come le succedeva ogni volta che lui faceva così, Azuré arrossì, ma si obbligò a non distogliere lo sguardo.

Aspetta, come hai fatto a capire...? –

Il papà ridacchiò e Azuré scosse la testa.

Ovviamente non poteva che essere lui. – disse con sicurezza – Tu mentre aspettavi Geal ti lamentavi continuamente e papà non faceva che rassicurarti come se sapesse cosa stavi passando. –

John arrossì un po' e si mosse impacciato sulla sedia. Azuré intercettò lo sguardo divertito di Sherlock e si morse il labbro nel tentativo di non ridere.

Bene, – fece lui battendo le mani – direi che possiamo iniziare. Era il marzo del... –

Aprile. – lo corresse John.

Marzo. Era marzo. –

A Baskerville siamo stati in marzo, ma tu non ti sei resto conto di niente fino ad aprile. –

A dire il vero, i primi sintomi... –

Azuré alzò le mani: – Ehi, stop! Time out! –

I due si zittirono.

Cominciamo dal momento in cui avete lasciato Baskerville. – suggerì – Tanto quel caso lo conosco a memoria. –

Loro si scambiarono un'occhiata e annuirono.

Sherlock tornò a guardarla: – E sia. Ma non ti lamentare se dovremo epurare il racconto di qualche... dettaglio. –

Azuré era abbastanza grande da intuire quali dettagli dovessero essere epurati, ma preferì diplomaticamente non immaginare niente. Per cui si limitò ad annuire e poi fece un bel respiro, cercando di prepararsi almeno un po' a ciò che le avrebbero raccontato.

   
 
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