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Autore: Miyuki chan    13/02/2012    7 recensioni
Io, giuro, quella ragazza non l'avrei mai capita.
Prima mi ringhiava contro, poi si arrabbiava, poi mi ignorava, poi ancora fuggiva.
E adesso addirittura mi baciava...
*
Io, un giorno o l'altro, a quello stupido pirata avrei staccato la testa dal collo.
Lui e quella sua perenne aria da moccioso compiaciuto, i capelli corvini e ribelli, le lentiggini, gli occhi scuri e ardenti...
Stupido pirata, tanto bello quanto stupido.
Genere: Azione, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Marco, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace, Smoker, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Fire and the Tiger'
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Think of me long enough to make a memory


Fiocchi di neve vorticavano nell’aria fredda, fitti e numerosi, e già iniziavano a coprire la Moby Dick con un velo bianco e impalpabile.
Mi sporsi appena oltre il parapetto, osservando l’equipaggio che arrancando nella neve si dirigeva verso il paese: i miei occhi indugiarono sulla schiena di Ace, nuda nonostante il termometro fosse sceso di diversi gradi sotto lo zero.
Tornai a nascondermi dietro la sponda di legno laccato di bianco, rannicchiandomi con le ginocchia contro il petto, tremando appena sotto il pesante mantello che mi avvolgeva: ero terribilmente combattuta.
Da una parte, era un sollievo vedere Ace che si allontanava, perché ciò mi dava più tempo per sistemare le idee prima di parargli.
Ma, dall’altra, volevo –anzi, dovevo – sistemare la questione al più presto.
Però, dopotutto, non era colpa mia se lui era sceso a terra quando io invece non avevo alcuna intenzione di muovermi dalla nave no?
No, così non andava affatto bene: stavo solo cercando delle scuse, dei pretesti per rimandare il più possibile il momento delle spiegazioni.
E nemmeno ciò andava affatto bene, perché se avessi ritardato quel momento che temevo tanto anche una sola volta, sarei poi finita col rimandarlo ancora, ancora e ancora: e, infine, mi sarei detta che non era così indispensabile chiarirsi, che non dovevo rendere conto a nessuno di ciò che facevo, che erano solo affari miei, etc etc…
E non volevo che finisse così.
Non volevo comportarmi da codarda.
Tornai a sbirciare i pirati, che ormai si erano considerevolmente allontanati dalla nave: avrei affrontato Ace, il prima possibile.

*



Anche sfruttando i poteri del frutto Felis Felis per aiutarmi ad avanzare nella neve soffice e farinosa che mi arrivava alle ginocchia, non ero riuscita a raggiungere l’equipaggio della Moby Dick.
Maledizione a me e alla mia indecisione, quando Marco mi aveva chiesto se volevo scendere con loro non potevo semplicemente accettare subito?
Ormai giunta al villaggio tornai al mio aspetto originario, decidendo saggiamente che una tigre avrebbe destato decisamente troppe attenzioni, il che, considerato che quelli con cui stavo viaggiando non erano altro che i temuti pirati di Barbabianca, era tutt’altro che desiderabile.
Era un villaggio di medie dimensioni, con numerose e basse casette in mattoni attaccate le une alle altre, tutte coperte da uno spesso strato di neve, con massicci camini da cui uscivano spirali di fumo grigio che si mischiavano ai cristalli che scendendo imbiancavano l’aria; una larga strada lo attraversava da parte a parte, lungo la quale facevano bella mostra di sé locande e negozi di ogni genere; soltanto un paio di persone osavano sfidare le ostili condizioni atmosferiche, avvolte in pesanti mantelli con cappucci che ne nascondevano il viso.
Mi strinsi addosso il mantello, sospirando stancamente, chiedendomi come avrei fatto a trovare Ace: non conoscevo praticamente nessun membro della ciurma, e non potevo certo andare dalla prima persona che incontravo e chiederle se, per caso, fosse uno dei figli di Barbabianca e se, altrettanto casualmente, avesse mica idea di dove fosse il comandante della seconda flotta.
Ma uffa, perché capitavano tutte a me?
Forse sarei dovuta davvero rimanere sulla nave e, solo per una volta, rimandare il momento dei chiarimenti.
E se ora mi perdevo?!
Lanciai un occhiata atterrita alla strada che avevo percorso: la Moby Dick era stata ormeggiata in una grossa insenatura, al riparo da sguardi indiscreti, ed ovviamente non era visibile dal villaggio.
Mi lasciai sfuggire un gemito di disappunto, sentendo già la mia calma venir meno: ma cosa mi era saltato in mente di andarmene in giro da sola?!
Sicuramente mi sarei persa!
Sobbalzai lasciandomi sfuggire un gemito acuto, bruscamente riscossa dai miei pensieri da una mano che si posava pesantemente sulla mia spalla: mi ricomposi immediatamente, girandomi, mentre il mio cervello iniziava già a lavorare più velocemente che poteva per mettere insieme una frase di senso compiuto da rivolgere alla persona alle mie spalle che, avrei potuto giurarci, si sarebbe rivelata essere Ace.
Non riuscii a muovere un solo muscolo mentre i miei occhi sbarrati, anziché quelli neri e ardenti del pirata, ne incontravano due grigi e familiari, sottili e minacciosi:
“Ragazzina.”
Sentii distintamente il mio cuore mancare un battito e una miriade di sensazioni contrastanti e prepotenti travolgermi, riconoscendo in quella voce ed in quei tratti duri la figura di Smoker.

*



Non mi aspettavo che trovarla da sola sarebbe stato così facile, ma meglio così: all’inizio, dallo sguardo tra il sorpreso e il terrorizzato che aveva in faccia, avevo creduto che avrebbe tentato la fuga; invece poi sembrava aver recuperato un po’ dell’autocontrollo che con tanta fatica le avevo insegnato, e anche se molto titubante aveva accettato di seguirmi.
Era nervosa, respirava velocemente e continuava a guardarsi intorno con fare colpevole.
“Aspetti qualcuno?”
Fu la mia inevitabile domanda.
Trasalì, scuotendo energicamente la testa, senza guardarmi in faccia.
Sbuffai una nuvola di fumo nell’aria densa di odori della locanda: era una pessima bugiarda.
Ma decisi di lasciar correre, c’erano cose più importanti di cui volevo parlare:
“Allora, da quando combatti la Marina?”
Ringhiai, senza fare nulla per nascondere la rabbia nel mio sguardo e la nemmeno tanto velata minaccia nella mia voce.
Il suo sguardo si indurì all’improvviso, mentre puntava i suoi occhi nei miei:
“Io non ho intenzione di combattere proprio nessuno.”
Mi rispose aggressiva a sua volta, perdendo quell’aria da cucciolo smarrito che portava stampata in viso da quando poco prima i suoi occhi avevano incontrato la mia figura: l’avevo vista reagire in quel modo feroce diverse volte ma mai, dico mai, rivolgersi in quel modo a me; certo, esclusa l’ultima volta quando c’era stato di mezzo Portgas.
Digrignai i denti attorno ai miei sigari: quella che mi aveva appena ringhiato contro non era la risposta che volevo sentire; anzi, quella non era nemmeno la risposta alla domanda che avevo appena posto.
E poi, anche se avessi voluto prendere per buona quell’affermazione, c’erano diversi punti su cui avrei avuto da ridire: innanzitutto, non si era mai tirata indietro di fronte ad una battaglia.
Anzi, lei era il tipo di persona che, se infastidita, prima attaccava e poi, forse, faceva domande: maledettamente impulsiva.
E, ad ogni modo, non poteva assolutamente negare di aver letteralmente assalito i miei uomini: se per lei quello non era combattere…
Dannazione, era per questo che odiavo maledettamente parlare: troppo difficile e troppe incomprensioni, le lunghe discussioni mi facevano solo uscire dai gangheri.
“Intendi dire che non hai attaccato i miei uomini?”
Ringhiai, scoccandole un occhiata minacciosa.
“Non sto dicendo questo, sto dicendo che se non fosse stato strettamente necessario non l’avrei fatto. E che non ho nessuna intenzione di combattere proprio nessuno.”
“Ah no? Allora hai un modo curioso per dimostrare le tue intenzioni. E da quando sei diventata un’amante della pace?”
Non riuscivo a capire, quella che avevo davanti ora non sembrava proprio la ragazza che avevo addestrato e che conoscevo ormai da anni.
“Non è questione di amare o meno la pace, è questione che se tu mi dici che i pirati sono cattivi, allora io non mi faccio nessun problema ad eliminarli! Ma se poi scopro che non è così…
Perché dovrei combatterli?”
La guardai minaccioso, digrignando i denti:
“Hai idea di quanti marines abbia ucciso da solo quel moccioso?”
Domandai, certo che avrebbe capito a chi mi stavo riferendo.
“Si, ma non è stato lui a cercarsele! Siete voi che non gli date tregua.”
“Voi? Non noi? Non sei anche tu un marine?”
La vidi assottigliare lo sguardo, minacciosa, ma sembrò non reggere il confronto con i miei occhi ed abbassò ben presto i suoi.
Quindi, era così.
Non che non lo immaginassi già, volevo solo averne la conferma: e quell’aria colpevole era certamente una stramaledetta conferma.
Inspirai profondamente, il fumo dei sigari che mi bruciava la gola, imponendomi la calma mentre lottavo contro il mio istinto di trascinarla a forza a casa:
“Un marine in meno e un pirata in più.”
Mentre pronunciavo quella frase i suoi occhi scattarono nuovamente nei miei: aprì la bocca come per ribattere e, per un attimo, sperai mi avrebbe contraddetto.
Invece poi tornò a serrare le labbra, fissandomi con un misto di astio e un altro sentimento che non riuscii bene ad identificare – dolore? Paura, forse – .
Di fronte alla sua reazione una sensazione di impotenza mi travolse, mentre mi rendevo conto che, se le cose stavano esattamente così, ormai non c’era più molto che potessi fare.
Del resto, una parte di me sapeva che ciò che mi stava dicendo non era del tutto sbagliato: anche io più volte mi ero ritrovato a disubbidire agli ordini dei miei superiori per non andare contro ai miei principi.
Solo che… Ogni volta che era capitato ero riuscito, in un modo o in un altro, a non coinvolgerla: con quel mio comportamento mi ero fatto ben più di un nemico tra i pezzi grossi della Marina, e non avevo voluto che anche a lei accadesse lo stesso.
Mettersi contro la Marina non era qualcosa da fare alla leggera, e finché mi era stato possibile l’avevo tenuta fuori dalle spiacevoli situazioni in cui mi ero andato a cacciare.
Solo ora mi rendevo conto della portata dello sbaglio che avevo commesso tenendola all’oscuro di ciò che realmente pensavo; forse, se mi fossi comportato in maniera diversa, non saremmo arrivati a questo punto.
Espirai lentamente in una nuvola di fumo: ormai era tardi per i ripensamenti.
Presi fiato:
“Quindi, questo è un addio?”

*



Stavamo attraversando la piazza del paese, tornando alla nave, quando qualcosa aveva attirato la mia attenzione.
Ace aveva notato il mio sguardo perplesso e, rivolgendo il suo nella stessa direzione, aveva sbarrato gli occhi irrigidendosi.
Aveva attraversato la strada a passi rapidi e sicuri, infilandosi nella locanda, ed io e Satch non avevamo potuto fare altro che accelerare il passo e andargli dietro.
“Neh Marco, si mette male”
Commentò il comandante in quarta al mio orecchio, una ruga di preoccupazione che gli solcava la fronte mentre osservava l’atteggiamento aggressivo del pirata corvino, adesso alle spalle di Mikami che, ignara della sua presenza, era totalmente presa da Smoker, seduto di fronte a lei.
“Vecchio.”
Sibilò Ace, probabilmente memore dell’esito del loro ultimo scontro: il suo sguardo era tagliente e affilato, le sopracciglia corrugate che gettavano ombre scure sugli occhi ardenti e minacciosi, le labbra serrate in una linea netta e dura; brutto segno, era difficile vedere Portgas D. Ace arrabbiato.
Il marine ricambiò l’occhiata con un ringhio, serrando i denti attorno ai sigari, gli occhi grigi ridotti a due fessure in cui si rifletteva lo stesso sentimento d’odio che bruciava in quelli del pirata.
Mikami si voltò sorpresa sentendo la voce del comandante in seconda: impallidì, sbarrando gli occhi azzurri e drizzandosi di scatto sulla sedia, rigida e tesa.
Per qualche secondo, nessuno parlò.
“Ace…”
Chiamò infine timidamente la ragazza, gli occhi enormi e chiarissimi che sembravano quasi bucare la pelle bianca tanto erano grandi e intensi.
Il Comandante in seconda spostò lo sguardo su di lei, irrigidendosi, mentre i suoi occhi si facevano più scuri ed impenetrabili; se vederlo arrabbiato era difficile, era ancora più difficile vedere Portgas D. Ace ferito.
L’aria era così tesa, che persino Satch aveva completamente perso il proprio buonumore e la sua parlantina allegra, ed era immobile al mio fianco.
Rimasi a mia volta in silenzio, le braccia rigide lungo i fianchi, rendendomi conto che, per una volta, nemmeno io sapevo come comportarmi.
Gettai una rapida occhiata ad Ace: sapevo che non sarebbe stato così avventato da scatenare una battaglia in quel luogo così ricolmo di persone eppure… il calore che emanava la sua pelle era tutt’altro che rassicurante.
Al mio fianco, lo sentii irrigidirsi maggiormente mentre la temperatura continuava a salire: gli avventori della locanda avevano ormai tutti smesso di mangiare, bere e chiacchierare, ed assistevano alla scena col fiato sospeso: alcuni di loro, riconoscendo l’effige di Barbabianca e Smoker, avevano ritenuto saggio darsela a gambe, mentre altri, membri dell’equipaggio della Moby, avevano già messo mano alle armi, attendendo solo un segnale da Ace per scagliarsi all’attacco.
Non andava affatto bene.
Mikami dovette rendersi conto di come la situazione stesse velocemente degenerando:
“No, Ace, aspetta un attimo…”
Forse il suo avrebbe voluto essere un ordine, ma la voce tremula e lo sguardo preoccupato resero quella frase molto più simile ad una supplica.
Gli occhi di Ace saettarono su di lei, facendosi più affilati ed impenetrabili: serrò la mascella, come ad impedire che le parole gli sfuggissero di bocca, un secondo prima di voltarle le spalle e marciare fuori dalla locanda sbattendosi malamente la porta alle spalle sotto lo sguardo timoroso dell’oste, immediatamente seguito da Satch.
I figli di Barbabianca che assistevano alla scena spostarono i loro sguardi su di me, confusi: scossi appena la testa in segno di diniego, non ci sarebbe stata nessuna battaglia.
Serio, lanciai un ultima occhiata a Mikami: era rimasta immobile, gli occhi così chiari da ricordare vetro trasparente che minacciavano di andare in frantumi e sciogliersi in lacrime da un momento all’altro, le labbra che nonostante fossero tenute serrate in una linea rigida continuavano inevitabilmente a curvarsi verso il basso.
Preferii non dire nulla, mentre mi voltavo verso la porta e uscivo dalla locanda per raggiungere Satch e Ace: nonostante tutto, non mi sarei immischiato.

*



Quando vidi che anche Marco se ne andava senza dire una parola, un senso di vuoto e smarrimento mi travolse lasciandomi senza fiato.
Spinsi bruscamente indietro la sedia, facendo per alzarmi e inseguire i tre comandanti, ma il ringhiare sordo di Smoker mi trattenne: mi bloccai, costringendomi a rimanere seduta, gli occhi bassi e fissi sulle mie unghie disperatamente conficcate nel legno vecchio e consunto del tavolo; mi accorsi di stare tremando.
Dopo tanto tempo, era tornato: quel sentimento di solitudine che una volta mi era tanto familiare, adesso era tornato e mi stava inghiottendo, lentamente ed inesorabilmente.
Serrai i denti, trattenendo i singhiozzi, non riuscendo però ad impedire che una prima lacrima scendesse lungo la mia guancia in una scia salata.
“E’ per lui che stai facendo questo?”
La voce rude di Smoker che all’improvviso tornava a farsi udire mi fece sobbalzare.
Inspirai cercando di calmarmi, gli occhi che bruciavano e un nodo in gola che si faceva sempre più stretto.
“No”
Risposi, sforzandomi inutilmente di modulare la mia voce perché non suonasse così incrinata.
I suoi occhi si indurirono, mentre la ruga sulla sua fronte si faceva più profonda conferendogli un aria ancora più cupa:
“Non sai mentire.”
Quella frase suonò molto come uno dei rimproveri che mi rivolgeva durante i primi allenamenti, quando ci eravamo appena conosciuti, e per un attimo mi illusi che le cose tra noi potessero tornare così, come erano state fino a qualche settimana prima: lui ordinava ed io obbedivo, lui insegnava ed io imparavo.
Ma mi diedi subito della stupida: era ovvio che non saremmo potuti tornare indietro.
Sentendo la sua sedia sfregare bruscamente contro il vecchio pavimento di pietra, alzai finalmente gli occhi: lo vidi sistemarsi la giacca, mentre con calma apparente si accendeva due nuovi sigari che andavano a sostituire quelli vecchi, ormai consumati e abbandonati nel posacenere in ceramica.
Lo guardai, confusa, lottando ancora contro il pianto.
“Se è così, questo è un addio.”
Stavolta, la sua era un’affermazione.
Rimasi immobile, ferita, mentre un'altra lacrima mio malgrado mi sfuggiva; osservai i tratti del suo viso rilassarsi e la ruga tra le sopracciglia appianarsi, mentre chiudeva gli occhi e tirava la prima boccata dai sigari appena accesi.
Socchiuse gli occhi e mi rivolse uno sguardo stanco ma, incredibilmente, rilassato; un tenue bagliore di sollievo iniziò ad illuminare e riempire il vuoto che sentivo nel petto, quando un sorriso appena accennato gli increspò le labbra.
Smisi di respirare: questo significava che…
Mi alzai in piedi a mia volta, stordita, il cuore che martellava nel petto, sentendomi come se il peso che mi opprimeva e mi pesava sulle spalle si fosse improvvisamente dissolto.
Rimasi in silenzio, mentre il significato della parola “addio” si imprimeva a fondo nel mio cuore ferendomi come una coltellata, mentre sentivo gli angoli delle mie labbra scivolare inevitabilmente ed inesorabilmente verso il basso, come se la terra sotto i piedi mi fosse improvvisamente venuta a mancare.
“Ragazzina, non fare quella faccia”
Mi rimproverò, con un tono di voce calmo ed in un certo senso caldo che ben poche volte gli avevo sentito usare.
Mi morsi il labbro, trovando quel timbro terribilmente doloroso, mentre nel mio petto la sofferenza per l’imminente separazione si mischiava con un crescente senso di sollievo mentre realizzavo che, ora, avevo davvero chiuso con la Marina: ero libera.
Prima che potesse fermarmi, lo abbracciai.
Lo sentii sussultare ed irrigidirsi, non ricambiò la stretta ma nemmeno vi si sottrasse: non era il tipo da lasciarsi andare a dimostrazioni d’affetto e a me, in fondo, andava benissimo così.
Dopo qualche secondo mi ritrassi, un timido sorriso tirato che faceva capolino sulle labbra.
“Cosa fai ancora qui? Sparisci, prima che cambi idea e ti arresti.”
Sbottò rompendo il silenzio: la sua voce era tornata al solito timbro rude e burbero e le sue labbra erano tornate a serrarsi attorno ai sigari, ma nei suoi occhi grigi potevo ancora vedere qualcosa di molto simile all’affetto.
Finalmente, mi lasciai andare ad un vero sorriso:
“Ciao, allora”
Sussurrai, lanciandogli un ultimo sguardo riconoscente prima di voltarmi: “addio” era una parola che, in vita mia, non avevo mai usato con nessuno, e che volevo a tutti i costi continuare a non usare.
E poi, avrei potuto giurarci: quella non sarebbe certo stata l’ultima volta che l’avrei visto.
Smoker non rispose, ma non vi feci caso: andava benissimo così.
Accelerai il passo, precipitandomi fuori dalla locanda alla ricerca di Ace e Marco: adesso sì che sapevo cosa avrei dovuto fare.


Spazio autrice:
Sigh... Fumosooooo ç_ç
Mi sento un po’ triste ad essere sincera, Smoker mi piace e sono un po’ dispiaciuta di averlo strapazzato così!
Perché, in fondo, fa il duro ma ce l’ha pure lui un cuore no?
Spero solo di essere riuscita a tenerlo IC, perché fargli affrontare un discorso del genere non è stato molto facile (anche considerato che, come ho scritto, lui è più un uomo d’azione, non certo il tipo che si siede a tavolino e si mette a discutere) è_é
E spero anche di non essere risultata troppo sdolcinata o melodrammatica è_é
Oltre a ciò… lo so che ho praticamente snobbato Ace, mi rifarò nel prossimo capitolo!
A prestooo :*

  
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