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Autore: screaming_underneath    14/02/2012    3 recensioni
Dopo la grande battaglia tra i Cullen e i Quilieutes contro i vampiri italiani, i Volturi, la vita sembra ricominciare a trascorrere in modo tranquillo.
Si piangono i morti e si leccano le ferite, cercando di far finta che niente sia successo.
Renesmee, perduto il ragazzo-lupo cui aveva ormai donato quasi interamente il cuore, torna da Jake, ciò che le è rimasto assieme ai figli, cercando di condurre una vita all'insegna della normalità.
Sedici anni dopo Moonglow, briciole per l'eterna vita dei vampiri e dei lupi di Forks, tutto inizia, di nuovo, con un matrimonio. Anzi, due.
Tutti sono cresciuti, in particolare i figli di Renesmee, ognuno prendendo la sua strada, ognuno cercando di convivere con il fatto di essere qualcosa di più di un ordinario essere umano.
Quando la vita sembra andare per il meglio, esattamente all'alba del sedicesimo anno dalla fine della guerra contro i Volturi, ancora una volta, l'equilibrio si rompe...
_
[Incompiuta]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quileute | Coppie: Jacob/Renesmee
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The New Twilight Saga '
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Di ricordi e racconti


Leah


Il fresco della notte mi sbatteva in faccia, insinuandosi nella scollatura del mio vestito con prepotenza e gonfiandomi la gonna; in mano stringevo ancora uno dei due sandali neri che erano andati a completare, quelli che mi parevano mesi prima ma che dovevano essere solo poche ore, la mia trasformazione da Leah-perennemente-infilata-in-jeans-mascolini a Leah-stasera-faccio-strage-di-cuori. Uno dei due era andato perso chissà dove, tra i rovi avidi delle mie carni del sottobosco, impigliato probabilmente nella macchia di arbusti secchi che delimitavano il confine della proprietà degli Uley e l'inizio del bosco verso, quello dove già da una decina di minuti correvo a rotta di collo.

Stranamente, era quella l'unica cosa cui riuscissi sul serio a pensare, mentre correvo la mia corsa per la vita: le mie scarpe, le mie fottute scarpe, pagate centonovantasette dollari in un negozio dal nome altisonante dove la Leah di sempre, quella dotata di intelligenza e coerenza non avrebbe mai neppure ficcato la punta di un'unghia.

E tutto per lui.

Ecco. Per lui. George, lo sconosciuto.

Ero furiosa, furiosa.

Non tanto per aver scoperto che la persona – cosa – per cui avevo deciso di ingaggiare una lotta furibonda contro me stessa e i limiti che mi imponevo era in realtà molto probabilmente una creatura centenaria affamata di carne di lupo... quanto, invece, aver constatato come ormai mi lasciassi bellamente prendere per i fondelli dalla vita, senza neppure rendermene conto. Ero al centro di un palcoscenico, le luci tutte puntate su di me, i visi curiosi volti nella mia direzione – Ammirate, gente, ammirate! Un raro esempio di Canis Lupus Mutaformis femmina, ormai anziano. Vedete come si aggira per la gabbia, frustrato? Affascinante, nevvero? No! No piccolino, non ti avvicinare. Potrebbe morderti, e tu ci tieni, alle tue graziose falangette, nevvero? – senza che però nessuno avesse avuto il garbo di avvertire la maggiore ed unica protagonista che lo spettacolo era iniziato ormai da tanti anni, e che milioni di interessati sconosciuti avevano preso parte a momenti assai imbarazzanti della sua vita – il mio primo bacio, ad esempio, o la prima volta che mi ero decisa a spogliarmi davanti Sam, tanto per dirne un'altra... per non parlare del pasticcio fatto coi cosmetici di mia madre, a sedici anni, cercando invano di riuscire ad apparire una ragazzina come tutte le altre, o di quando mi ero fatta beccare da Jacob ubriaca e seminuda, avvinghiata ad uno dei nuovi del branco.

Scene terribili, che ero riuscita a sigillare con colla e scotch nel seminterrato della mia mente solo dopo anni di allenamento.

Venghino, venghino, mi ritrovai a pensare. Un brivido mi percorse il collo, giù fino alle caviglie. Per quanto inverosimile, quel palcoscenico forse era la cosa più vicina ad una rappresentazione reale di ciò che era veramente il Destino.

Un gruppo di bambini urlanti e pestiferi che ti tirano le orecchie e la coda e vomitano risate sui tuoi errori, battendo le mani a tempo e architettando nuovi scherzi con il piacere perverso di un killer.

Come avevo anche solo potuto pensare di...

Un Figlio della Luna.

Di nuovo, quell'osservazione. Il mio cervello masochista, invece che pensare a coordinare i muscoli delle mie gambe, soffiò di nuovo nella mia direzione quelle quattro parole, che dentro di me risuonavano esattamente con lo stesso tono di voce che un boia userebbe per proporre un'ultima sigaretta al suo condannato.

Cazzo, Leah!

Non poteva essere, no.

Non lui.

Non George, non l'uomo che avevo raccolto sulla spiaggia, la pancia sbranata, sangue ovunque e quegli occhi blu bellissimi.

Non l'uomo di cui molto probabilmente ero innamorata. Io! Innamorata!

Ragiona. Ferite di quel genere non guariscono in sette giorni, né in dieci.

Uccidono.

Senza che me ne rendessi conto, mi lasciai sfuggire un gemito, non sapevo se per l'ovvietà con cui il mio cervello mi aveva finalmente permesso di notare quanto tutto quello fosse fin troppo vero, reale, o se per la stanchezza.

Da quanto correvo? Troppo, troppo per il corpo in cui ero rinchiusa.

Hai scelto tu, idiota. Ricordi? Meglio-morta-che-vederlo-per-l'-eternità. Non lamentarti e corri, idiota.

Allungai ancora il passo, giusto per far zittire la voce, saltando arbusti bassi e spinosi e rovi che non vedevano l'ora di spolparmi le caviglie. Non ce la facevo già più.

Per quanto avessi cercato di ignorare il problema, fino a quel momento, non potevo più fare finta che l'aria non mi si bloccasse in gola, ben lontana da dove sarebbe dovuta finire; sentivo le ginocchia farsi sempre più deboli, e i muscoli dei polpacci tendersi all'inverosimile, in uno sforzo estremo e terribilmente doloroso. Dovevano essere passati ormai almeno una decina d'anni da quando li avevo sforzati in un corsa del genere l'ultima volta.

Un tempo, ero veloce, la più veloce; il fatto che l'essere secolare che avevo alle calcagna stesse per raggiungermi era l'ennesima prova che dimostrava quanto fossi invecchiata.

La creatura incalzava, allungandosi per raggiungermi, ruggendo furiosa. Se chiudevo gli occhi, potevo immaginare i suoi artigli scavarmi il petto, le zanne dilaniarmi il viso. Quanto avrei potuto sopportare ancora quel ritmo? Un chilometro, due? Mi stavo allontanando dalla spiaggia, di questo ero certa... e con lei, sfumavano anche le possibilità di chiedere aiuto.

Con un fruscio quasi ammaliante, la parte inferiore del mio abito decise che quello era il momento opportuno per impigliarsi da qualche parte, e scoprirmi le cosce... Solo che non era stato un arbusto, per quanto tentassi di crederci: era lui, lui con le sue zanne, e i suoi artigli neri e lucenti in quella splendida luce lunare di fine Luglio.

Mi aveva raggiunto, ancora un balzo, ed un altro... e sarei stata finita.

La stanchezza mi rendeva incoerente, incapace di fare null'altro che non fosse continuare a muovere i piedi in avanti, sbuffando sempre di più; per l'ennesima volta, maledii il giorno in cui ero nata me stessa.

In un ultimo tentativo disperato di guadagnare un minimo vantaggio, scartai verso sinistra, dopo essermi bloccata di colpo, aggirando un grosso abete che doveva essere lì da almeno un secolo e mezzo.

Sentii la cosa-George passarvi attraverso, probabilmente disorientato, con un ringhio animalesco da brividi. Lo avevo confuso, ma già sentivo di nuovo il rimbombo dei suoi passi dietro di me, vicini, vicini, vicini. Sottovento com'ero, potevo facilmente fiutare l'odore penetrante di morte che emanava, un tanfo talmente forte da mettere i brividi.

Eccoci, Lee. Sei arrivata al capolinea.

Adesso, scendi dall'autobus o il dirottatore ti mangerà.

E poi: Venghino, venghino!

Ancora il palcoscenico. Dalle tribune d'onore, grassi bambini con grassi genitori adesso chiedevano a gran voce lo spettacolo finale, battendo i pugni sulle balaustre.

Dietro il tendone, clown e giocolieri fremevano, in attesa di un mio gesto.

Era il mio circo, io avevo in mano la bacchetta che orchestrava il tutto, il direttore in attesa. Col capo chino, aspettavo, una mano all'altezza del petto, l'altra alta, dritta davanti a me.

Aspettavo, senza sapere cosa.


Infine, avvenne.

Signori e signore, adesso, per lo show finale, un gioco di prestigio!

Prima Leah c'è, poi non c'è più.

Magia!

E lo era.

Nel momento esatto in cui tutte le mie vecchie paure, il mio disprezzo, l'amarezza per ciò che ero e che ero diventata sparirono, esplodendo al vento come gli ultimi brandelli della mia vita, nel momento esatto in cui nel Circo della Vita che si svolgeva nella mia testa tutti si alzavano, gridando oooh meravigliati con le dita alla bocca, nello stesso istante, rinacqui.


Come mi ero potuta dimenticare di quella sensazione? Come ero riuscita a sopravvivere nell'ovattato mondo sensoriale umano per tanti anni, senza la terra contro le zampe, e il naso in aria a spazzare gli odori?

Era liberatoria e fantastica.

Come un ex alcolista che assaggia per la prima volta da mesi, da anni, un cucchiaino di cognac, e che subito ricade in rovina, come un bambino diabetico che si ficca in bocca un leccalecca, assaporando quel momento di dolcezza proibitivo.

Come avevo potuto sopprimere il lupo che era in me, per la vita piatta e monotona di una comune mortale?
Mi sentii potente, giovane, capace di tutto.
Mi girai, con un ghigno lupesco e un ringhio cupo che usciva spontaneo dalla mia gola, pronta e perfettamente calma. Sembrava che la mia irrazionalità e la stanchezza delle mie membra umane fosse scomparsa, assieme ai miei vestiti, brandelli intorno a me.
Leah Clearwater era tornata, con indosso la sua pelliccia preferita, pronta a vendere cara la pelle.


Mi girai, e lui era lì. Si era fermato, forse sorpreso del mio scatto repentino, io stessa ne ero rimasta strabiliata.

Il lupo mannaro, con un ringhio, alzò una delle grandi e dinoccolate zampe anteriori, ergendosi in tutta la sua spaventosa altezza, i denti scoperti, canini lunghi e letali che sapevo non mi avrebbero perdonato. Il manto color della notte, scompigliato e sporco, riluceva di piccole gocce di umidità.

Le ammirai, incantata... poi l'ombra calò su di me, prepotente, ricordandomi cosa dovessi fare.


Vieni pure avanti, bambolo.




Moonie

Silenzio.

Mi svegliai di colpo, con le lenzuola avvinghiate strette nella loro morsa soffocante al collo. Ah! Caldo!

Breve lotta, breve imprecazione da parte mia, presa in prestito da quel pozzo di finezze di mia sorella Gwen, poi il silenzio, di nuovo.

La casa dormiva ancora. Se allungavo le orecchie, potevo riconoscere i respiri e i battiti dei miei familiari, l'uno diverso dall'altro. Sorrisi, riconoscendo il lieve canticchiare del mio fratellino più piccolo, come sempre tutto intento a scribacchiare su quel suo quadernaccio.

Non dormiva mai, non ne aveva il bisogno. Era stato così sin dalla nascita, per la disperazione dei miei genitori, e adesso che aveva scoperto il mondo dell'immaginifico vi passava intere nottate, senza alzare il capo dal foglio. Che sapessi, comunque, non aveva mai fatto leggere nullo di suo a nessuno della famiglia, solo al suo migliore amico, e sempre con il maggiore dei riserbi.

Inspirazione, espirazione.

Tesi i muscoli, sciogliendoli una volta per tutte dalla coltrina avvolgente del sonno, le dita ripiegate ad artiglio davanti a me. Mi sentivo come un gatto su di un tetto, allungato a sbadigliare al sole.

Avevo dormito bene.

Da quanto non mi capitava? Settimane, mesi?

Di certo dormivi meglio quando passavi tutte le serate a studiare, lavorando come una matta, Moo.

Forse è merito di Alex.

Nel mio letto d'infanzia, tutta allungata come una scimmia, arrossii.

Alexander Mayers, figlio del defunto Joshua Mayers, morto diciannove anni prima, il mio aguzzino, mi aveva baciata.

Io lo avevo baciato.

Senza rimorsi, senza pensare a Jon, o al fatto che fossi in un luogo pubblico, davanti al branco al gran completo e alla mia famiglia.

Ci eravamo baciati, ed era stato il momento più vivo e bello di tutta la settimana, l'unico in cui finalmente ero potuta tornare me stessa.

Me stessa.

Era bello, era una bella parola.
Sempre sorridendo come una scema, il viso in fiamme, mi diressi verso il bagno, alla destra della mia camera: ero nuda, ma nessuno vi avrebbe fatto caso. Mia madre e mio padre avrebbero dormito almeno sino a mezzogiorno, mio fratello forse avrebbe continuato a scrivere fino al pomeriggio. A quanto pareva, stava seguendo la scia giusta per finire il suo racconto, mi aveva confessato con fare di cospiratore la sera prima, finiti i canti tribali in compagnia del vecchio indiano. Probabilmente non si sarebbe fatto vivo per tutta la giornata, n0n sarebbe stata la prima volta.


Mentre l'acqua scivolava sulla mia pelle, leggera come una piuma, di nuovo, mi ritrovai a pensare a lui, a come mi aveva sorriso, alzando la mano in cenno di saluto, quando mi aveva riaccompagnata a casa. Se ne era andato così, con un “ci vediamo” appena mormorato, senza nemmeno sfiorarmi di nuovo. Non sembrava lo stesso Alex sbruffone che mi tiranneggiava da bambina, né quello che mi aveva abbordato, sulla riva del mare, con la scusa della danza e delle belle ragazze. Durante quelle ore passate assieme eravamo finiti con lo scioglierci, chiacchierando del più e del meno, come vecchi amici. .

Anche se non volevo accettarlo del tutto, mi era piaciuto.

Alex era l'esatto opposto di Jon, in effetti. Capelli chiari, occhi verdi e sorriso contagioso, quel sorriso che ti illumina gli occhi e ti fa venir voglia di essere felice anche a te. Per non parlare poi dell'aria da sbruffoncello e le battutine sarcastiche... e sì, dovevo convenire che era un ottimo baciatore, forse perché non ricevevo più un bacio con quella passione e tenerezza insieme da tanto tempo.

Basta, Moonglow.

Non lo rivedrai più, comunque. Non ti ha detto che sarebbe ripartito a breve? Tanto meglio. Jonathan, ricordi? Sai, il ragazzo con cui hai passato otto anni della tua vita...

Quello che non mi vuole sposare?

Lui. Proprio lui.

Ah!

Non fare danni, Moo. Per favore.

Strano che la seconda voce nella mia testa assomigliasse tanto a quella di Wendy, sopratutto perché eravamo molto distanti l'una dall'altra, e il mio scudo mentale era ancora ben innalzato, contro attacchi esterni.

No, decisi. C'ero solo io e le mie cellule grigie con strane allucinazioni uditive... e avevano ragione.

Quel segmento del mio cervello che parlava a nome della mia ben più coerente gemella aveva ragionissima, su tutti i fronti. Non potevo lasciare che il bacio di un sconosciuto mi gettasse in quello stato. Era stato un errore, punto.

Non lo avrei ripetuto.

Amavo Jon, lo amavo con tutta me stessa; era lui quello con cui volevo passare la vita, era lui che mi ero visualizzata, all'altare, a braccetto di mio padre, con la cravatta seriosa e i capelli in ordine, per una volta.

Brava, Moo. Non farti distrarre.

Decisi che appena fosse tornato gli avrei chiesto scusa. Non volevo più litigare con lui in quanto al matrimonio, ero pronta a patteggiare per una convivenza, se Jared Cameron si fosse dimostrato tanto egoista. Tutto, ma non volevo più essere separata da lui, la notte, e dover aspettare che in casa tutto tacesse per farlo salire, di soppiatto, senza il consenso di mio padre. Non volevo più litigi, né giornate intere passate senza neppure sentirci per telefono. Volevo solo che tornasse, e mi baciasse come avrebbe fatto fino a qualche tempo prima, quando ancora la vita era facile e mia sorella era chissà dove in giro per il mondo, con una promessa di matrimonio al dito.

Con quella convinzione, cancellai per l'ultima volta l'immagine di quegli occhi verdi prato, e il ricordo di labbra sconosciute ma terribilmente piacevoli che si posavano sulle mie, ed afferrai un asciugamano dalla pila ordinata vicino alla doccia.

Ero decisa, decisissima...


Allora, perché quaranta minuti più tardi, non lo cacciai fuori della nostra proprietà a calci, salvaguardando ciò che della mia relazione con Jonathan rimaneva ancora in piedi ?



Stavo facendo colazione, una colazione stranamente umana, quando sentii passi nel cortile, e l'abbaiare furioso di Aaron, che con la gentilezza e la cordialità di un maggiordomo voleva far sapere al mondo che adorava gli stranieri in visita. Sperai di riuscire a zittirlo in tempo, prima che svegliasse i miei.

Volevo godere di quel silenzio pacifico e meravigliosamente piacevole il più a lungo possibile, prima che mia madre, molto probabilmente con il tatto di un elefante, iniziasse a farmi il quarto grado sulla serata appena trascorsa, e magari a domandarmi perché mai, invece che con il mio ragazzo, avessi passato tutta la serata appiccicata ad un perfetto sconosciuto.

Perfetto sconosciuto che, con un sorriso decisamente incantevole nella luce della mattina – da quanto non capitava che il sole splendesse sullo stato di Washington per più giorni consecutivamente? – se ne stava appoggiato allo stipite della porta d'ingresso, una mano presa ad accarezzare il grosso cranio del nostro Bracco di Weimar. «Bello. Credo mi avrebbe staccato una mano, se solo non avesse riconosciuto il mio odore. Ha l'aria feroce» commentò, rifilando a Ron una pacca un po' più forte. Il cagnone, con un guaito, gli si distese ai piedi, a pancia in su, accattando ancora carezze.

Non risposi, non subito, almeno. Domande – cosa diavolo ci fai qui, cosa vuol dire “ha riconosciuto il mio odore”, ma tu non hai una vita tua, e, ultima ma non ultima, perché non sei arrivato prima? – mi vorticavano in testa, istupidendomi; per di più, il fatto che Alex mi fosse davanti in maniche di camicia, coi capelli sapientemente scompigliati e il sorriso più bello che avessi mai potuto ammirare sopra degli occhi dello stesso colore della menta piperina... beh, non era certo d'aiuto.

«... No, beh, sai... Anche nella vostra famiglia ci sono dei Quilieute, e immagino che conosca a menadito le facce e gli odori del branco, giusto? Non sono una minaccia» specificò, senza che riuscissi a cogliere il soggetto della frase. Come era possibile che avesse degli occhi tanto verdi? Un mistero.

«Io... sì, immagino di sì.» borbottai, senza muovermi di un centimetro. Era così... così...

«E come si chiama, di grazia?»

«Chi? C-cosa?»

«Il cane, Moonglow, il cane. Sei sicura di stare bene? Forse non avrei dovuto farti fare tanto tardi, ieri sera, ma sai, con il casino successo a Leah Clearwater e tutto...»

Oh, perfetto.

In tredici anni di vita, non mi ero mai chiesta se potessi arrossire – avevo una solida faccia tosta che in molti esercizi commerciali forse mi avrebbero invidiato – né era mai accaduto che dovessi scoprirlo... ma ne ero capace.

Avvampai, chinando il capo. Complimenti per la figura, Moo.

«Aaron. Si chiama così, anche se per tutti è solo Ron.»

Borbottai, incapace di fare di meglio, in quel momento. All'improvviso, mi mancò la meravigliosa sensazione di pace e silenzio di qualche minuto prima, quella dove ero io, io e basta, e i pensieri sporchi su Alex Mayers iniziavano lentamente a sparire dalla mia testa.

Caccialo.

«Vuoi entrare? Hai fatto colazione?»

Non era quello che intendevo, idiota. Caccialo, caccialo prima che accetti. Dì che ti sei ricordata di un impegno, che devi studiare, che tua sorella ti aspetta, che devi fare shopping, dare la pappa al cane...

«Ti va una passeggiata, invece?»

Hai da fare, insomma. No, Moo, no! Digli che devi andare a trovare Leah assieme a Gwendolen, per accertarti che Seth stia bene e non sia del tutto rincoglionito dall'ansia.

«Certo! Predo la borsa!» Leah starà bene, è una mutaforma, in fin dei conti. E poi, è la cognata di mia sorella, non la mia, risposi alla me-Gwen, con tono di sfida, schizzando verso il salotto per recuperare il cellulare. Sarei stata raggiungibile, non stavo mica emigrando nel Perù! Per di più, ero adulta e vaccinata, capacissima di prendere le mie decisioni.

Tuo padre ti aveva detto di rimanere dentro casa fino a quando la faccenda non fosse stata stata chiarita. A quanto pare, c'è un essere centenario assetato di sangue nei paraggi, vuoi davvero uscire, Moo?

Mio padre dorme, dopo una nottata intera di ronda e giramenti di balle. Non c'è più nulla, nei paraggi. E se anche ci fosse, lo contatterei telepaticamente e lui avviserebbe il branco. Di sicuro, Embry e Paul sono ancora in giro tra LaPush e Forks. E ora sta zitta.

Oh, 'fanculo. Fa quello che credi, ma non lamentarti con me, poi.

«Eccomi!» cinguettai, saltellando di nuovo verso la porta. Sul tavolo di cucina, potevo ancora intravedere la ciotola di cereali che avevo abbandonato mangiata a metà, e sperai che mia madre, trovandola, avesse il buon gusto di toglierla dalla portata dell'enorme bocca di Aaron, salvaguardandolo da un intossicazione acuta da schifezze caramellate umane.

«Dove vuoi andare?» me lo chiese con un sorriso, che arrivava ad illuminargli gli occhi. Forse non avrei dovuto, forse avrei dovuto dirgli di no, e pensare a Jon. Forse sarei dovuta partire subito, e dirigermi verso il Posto Segreto del mio ragazzo, su tra le montagne dietro la riserva, e chiamarlo a gran voce e chiedergli scusa e baciarlo e smetterla di pensare al bel giovane dagli occhi sinceri e un po' maliziosi che avevo davanti... Ma gente, la vita è una, e io avevo dalla mia l'eternità.

Chiusi la porta, facendo roteare il portachiavi a forma di stella che avevo intagliato un secolo prima, con fare da cospiratrice. Quel giorno, volevo solo divertirmi un po'.

«Credo di saperlo.»




Eli

Mi svegliai per il mal di testa. Il solito vecchio, caro mal di testa.

Inizia dalle cose semplici.

Come ti chiami?

Non ricordavo.

Era ancora troppo presto per quello.

Prova ad alzarti in piedi.

Ero disteso su di un manto muschioso, che emanava un vago profumo di funghi. Le piante del sottobosco erano rimaste schiantate sotto il mio peso, quella notte, e potevo percepire sotto la mia pancia scoperta legnetti e spine acuminate pronte a tagliuzzarmi non appena mi fossi mosso.

Con un gemito, ancora con gli occhi chiusi, puntai i gomiti, stringendo i denti. I muscoli, non ancora del tutto funzionanti a dovere, lanciarono la loro protesta.

Li ignorai, portando il peso del mio corpo sulle ginocchia.

Ok, bene.

Prendi un respiro profondo e apri gli occhi.

Pessima idea.

Con un ruggito ben poco umano, serrai di nuovo le palpebre, artigliandomi la faccia con le dita sporche di terra. Troppa luce per le mie pupille ipersensibili.

Cercai di concentrarmi, in cerca di eventuali tracce di ricordi della Grande Notte, ma non ne trovai. Sarai stato stupito del contrario...

Leah.

Chi è, Leah? Ricordi?

Ma non ricordavo. Solo quel lampo, improvviso, troppo veloce perché lo cogliessi.

Pian piano, rilassai le dita contratte, massaggiandomi le tempie ritmicamente.

Comincia dalle cose semplici. Come ti chiami?

Elijah.

Bene, questo è un inizio. Apri gli occhi. Dove ti trovi?

Eseguii. Adesso, la luce del sole estivo era meno fastidiosa, segno che stavo lentamente tornando me stesso. Anche il mal di testa era scemato, anche se le orecchie avrebbe continuato a pulsarmi per ore. La Notte era quasi finita.

Davanti a me, uno scoiattolo mi fissava, col capo inclinato e gli occhi, capocchie di spillo nere e lucide, immobili nella mia direzione. Non aveva paura, era solo... curioso. Gli feci un sorriso, tendendo tutti i poveri nervi della mia faccia, e quello, con un ultimo squittio, fuggì, rimbalzando sulle zampette rossicce.

Dovevo avere un aspetto orribile.

Che posto è questo?

Ma non lo sapevo.

Conoscevo almeno i tre quarti di tutte le foreste americane – era la sola cosa di cui fossi certo, per il momento – ma non quella in cui mi trovavo.

Abeti, larici dalla chioma folta e così alta da farti sentire infinitamente piccolo.

Chiudi di nuovo gli occhi.

Occhi verdi che mi guardavano, pieni di apprensione.

Signore? Si sente bene?”

Freddo. Dolore.

Questo? Nulla di che. Un ricordo.”

Leah.

Mani che mi stringevano forte. Ancora dolore.

Leah.

Volti cui non sapevo dare un nome, tutti sorridenti e cordiali.

Leah.

Una donna, bella, col volto un po' sciupato di chi ha sofferto per tanti anni, ed è profondamente infelice. Leah. Era lei.

Improvvisamente, mi ricordai tutto.

La fuga, i miei inseguitori, il mio nome. Cosa fossi. Il perché mi fossi ritrovato con lo stomaco dilaniato su di una spiaggia dello stato di Washington. Il nome dei miei salvatori. Leah. Leah era stata la più gentile, la più carina. Si vedeva che non tutto – anzi, forse nulla – era andato bene nella sua vita, glielo potevi leggere in faccia... eppure, mi aveva aiutato, e donato un sorriso in quei terribili giorni che avevano seguito la mia aggressione.

I denti dei vampiri non perdonano mai.

La festa in spiaggia. Ricordi anche quella? Sei sicuro di essertene andato in tempo?

Un brivido mi percorse. Sì. Sono sicuro di sì. Ero lontano dalla spiaggia quando mi sono trasformato, di questo sono certo. Leah... Leah mi ha portato alla casa degli Uley, la casa di quella signora con la cicatrice sulla guancia, perché stavo poco bene.

Altro brivido.

Che era successo poi?

Non riuscivo ad andare più avanti di così. La Notte era iniziata, cancellando ogni traccia di umanità dal mio corpo e dalla mia mente, spazzate via in un lampo doloroso.

Leah era con te.

Quella consapevolezza mi colpì come un pugno, facendomi accasciare di nuovo al suolo, coi palmi delle mani stretti ai lati della testa. Non ricordavano, non sapevo.

No. No. No. Non è successo un'altra volta. No.

Ma non potevo esserne certo.

No. Non di nuovo.

Dovevo controllare. Forse mi avrebbero ucciso – sì, adesso, ricordavo persino ciò che il mio “incidente” aveva cancellato... ero finito in covo di vampiri, dritto dritto nelle loro mani, e loro mi avevano aiutato e non avevano mai avuto nemmeno un piccolo sospetto – forse mi avrebbero ucciso, ma non mi importava.

Se era successo un nuovo Grande Casino, allora era tutto chiaro.

Avrei chiesto scusa, e sarei morto.


Almeno, non sarei finito a far parte della millenaria collezione di Aro.




Moonie

Non so bene quando iniziammo a parlare delle nostre vite private, in effetti.

Stavamo passeggiando per i boschi tra LaPush e Forks, lenti, io passandomi nervosamente una mano tra i capelli ogni volta che il discorso prendeva una piega un po' più intima, lui sorridendo parecchio, totalmente a suo agio. Lo invidiavo, sembrava riuscire a discorrere con la stessa facilità di fiori e piante tradizionali dell'America nord-orientale e di sesso, una capacita che sembrava aver abbandonato invece la mia lingua di solito così vispa.

Camminavamo a braccetto, come vecchi amici; lui non aveva più provato a baciarmi, dopo l'exploit della sera prima, e in un certo senso era meglio così. Parlare era ancora abbastanza neutrale, potevo riuscire a sostenerlo.

«E così, tu e Jonathan Cameron. Non pensavo fosse il tuo tipo di ragazzo. Ti reputavo una ragazza così solare...» iniziò, dopo un poco che camminavamo in silenzio. Sembrava quasi dispiaciuto, o forse deluso, e mi quel fatto mi stizzì. In fin dei conti, non mi conosceva affatto. «Sono una ragazza solare! Perché?» replicai, bloccandomi nel mezzo del sentiero. Le fronde degli alberi in quella zona di bosco erano più fitte, e il sole vi passava attraverso in piccoli fasci, che ci illuminavano a tratti. Sembrava di essere in uno dei dipinti in chiaroscuro di mio fratello.

«Beh – questo è un parere personale, ovviamente – Jon mi pare un po' troppo ottuso e musone per te, di quelli che ridono di quelle freddure sconce da camionista e con cui non puoi intavolare un minimo di conversazione seria. Tu sei laureata, non è quello che mi hai detto? E il tuo Jon? Ha almeno finito le superiori?» mi aggredì. Mi guardava, al di sotto di quegli occhi verde menta che non riuscivo a leggere, ma in cui, per un momento, riuscii a scorgere forse un sentimento che si avvicinava all'ira.

«E' un tuo parere, forse, Alexander, ma avresti dovuto tenerlo per te. Il ragazzo che tanto denigri fa parte della mia vita da oltre otto anni, e non è solo battute tristi con gli amici e birre, sai? Forse non ha una laurea, ma è dolce e sa farmi ridere... Ci sono un sacco di cose che non conosci, quindi, sta zitto e basta. Che te ne frega, poi? Non sei mio amico, sei solo uno che mi ha infilato la lingua in bocca ad una festa!» adesso ero arrabbiata anche io, tanto da costringermi a dire un sacco di cazzate io stessa. La bella giornata che tanto avevo lodato se ne stava andando a puttane, con il mio buonumore, e la voglia di correre verso il posto dove Jon era nascosto era quasi struggente, anche se forse non la migliore; nello stato mentale in cui ero, avrei finito col litigare anche con lui per l'ennesima volta.

«Forse perché vorrei essere tuo amico. Forse sono geloso.» Lo aveva appena mormorato, col capo chino. Del Distruttore di Castelli di Sabbia non rimaneva nulla in lui, adesso.

Non volevo credergli.

Impossibile. Andiamo, Moo! Voltati indietro e piantalo qui. La strada la troverà da sé.

Ma non lo feci. Invece, accantonai la mia rabbia, e mi avvicinai di nuovo a lui, circospetta come si fa con un cane rabbioso.

«G-geloso? Alex, tu non mi conosci» ripetei, ma non ci credevo fino in fondo. Mi persi nel verde, adesso liquido, dolorosamente liquido. Era quella tristezza che già avevo catturato nei suoi la sera prima, quando gli avevo chiesto con malgarbo cosa diavolo non andasse in lui, perché non si fosse trasformato. Forse non erano affari miei, ma ero curiosa lo stesso... quindi non me ne andai, ma strinsi forte una sua mano, pentendomi per come lo avevo aggredito, sopratutto perché aveva ragione.

Io amavo Jon, lo amavo sul serio... ma non era il tipo di ragazzo che mi avrebbe colpita, senza che vi fosse stato l'imprinting.

Eccolo. Ecco il nodo della questione.

Alex, che conoscevo da quando non ero che una mocciosetta col costumino rosa confetto su di una spiaggia di LaPush, Alexander che avevo baciato senza la minima vergogna davanti a tutti solo perché mi sentivo sola, aveva fatto centro.

Non sei felice. Non sei felice perché Jonathan, per quanto un bravo ragazzo, non è il tuo bravo ragazzo. E ti ci sono voluti quasi dieci anni e un semisconosciuto che non vedevi da un altro decennio per capirlo. L'imprinting, che magico legame.

Bene, giusto. E ora come la mettiamo?

«Io... io...» provai. Lui, con un cenno impercettibile della testa, mi fece segno di tacere. Eseguii, ringraziando per quella concessione. Avrei fatto più danno che altro.

«Quando avevo all'incirca undici anni ero incazzato col mondo. Mio padre era morto o mi aveva abbandonato – a quel tempo, non riuscivo a capire la differenza, e questo non faceva altro che rendermi ancora più furioso – e mia madre passava il suo tempo a piangere, lasciando che la casa accumulasse polvere. Io ero più o meno abbandonato a me stesso, proprio come la casa, solo che ero più fastidioso... così, mamma mi cacciava fuori di casa, con il secchiello in mano, cercando di convincermi a giocare con gli altri, sai, gli Uley e tutta la carovana. Ma non lo facevo, perché li odiavo. Li odiavo, perché loro avevano un padre vivo con cui giocare, che la sera rincasava e leggeva loro una favola, oppure giocava a pallone.» Adesso la sua mano calda era avvinghiata alla mia, quasi con disperazione. Non mi guardava, ma lasciava correre il suo sguardo qui e là tra le foglie verdi e fresche degli alberi che ci circondavano, perso tra vecchi ricordi.

«Li odiavo, quindi camminavo. Camminavo per ore, scalciando la sabbia. Se ero fortunato, non incontravo nessuno... se ero ancora più fortunato, incontravo te. Ti trovavo sempre nel solito posto, in un angolino della spiaggia, nascosta tra gli scogli, a fare castelli di sabbia. Eri brava. Ti guardavo, a volte per delle ore, senza che tu te ne accorgessi, da lontano. Poi, quando ero stanco, venivo da te e distruggevo tutto» dal profilo della sua guancia, riuscii a scorgere quello che mi parve un ghigno terribile. «Sai, forse era il mio modo di chiederti se potevo essere tuo amico. Tu te ne stavi sempre da sola, qualche volta assieme a tua sorella, Gwendolen. Quando eri con lei, rimanevo sempre lontano. Detto tra noi, la tua gemella mi mette i brividi.» altro ghigno, e questa volta venne da sorridere anche a me, anche se non c'era nulla di divertente, solo un bambino abbandonato e solo con un sacco di rabbia dentro, che non aveva amici.

Gwen, Il Mostro.

«M-mia sorella sa essere molto convincente, alle volte» tentai di inserirmi nella conversazione, ma lui mi ignorò, tornando a stringermi la mano ancora più forte. Eravamo talmente vicini che solo allungando il collo avrei potuto sfiorare la sua tempia con le labbra, ma mi imposi di non farlo. Non era il momento, e non mi andava neanche un po'. Ero solo... amareggiata dentro, e riluttante a sapere la conclusione di quella storia. Avevo sperato in un giorno tranquillo, divertente, e mi ero ritrovata faccia a faccia con gli stessi problemi di sempre.

«Avrei voluto tanto giocare con te, sai? Ma ero sicuro che non avresti mai accettato, e questo mi faceva arrabbiare ancora di più. Così, ti buttavo giù le torri che costruivi con tanta lena e precisione, giusto per sentirmi ancora peggio di come mi sentissi. Avevo perso mio padre, e tu eri solo una delle vittime designate per sfogare la merda di sensazione che mi portavo dentro. Scusa.» Era sincero. Glielo potevo leggere in faccia, anche di tre quarti così com'era, dal modo in cui teneva le spalle basse, e la mano libera con le dita contratte contro la coscia. Gliela presi, portandomela al cuore. «Avrei giocato con te, se solo me lo avessi chiesto. Anche io ero molto sola, lo sono sempre stata.»

Anche io ho perso un padre. Avrei voluto aggiungere.

Ma anche questo, come tante altre cose, non lo dissi.

Mia sorella lo aveva perso, perso sul serio. Io, in qualche modo, mi ero abituata all'idea di quel papà mai conosciuto, che era rientrato nella nostra vita con la stessa facilità con cui si era riconquistato il letto di mia madre... e sì, amavo mio padre. Jacob.

Era Gwen quella coi problemi. Per lei, è sempre stato Bill.

«Non credo. Non lo dire, ti prego. Non voglio, perché, altrimenti, potrei darti la colpa per ciò che accadde dopo.» La sua voce tremava, aveva socchiuso gli occhi. Rimase immobile, per un po', in preda ad un tremore tale che anche io potevo percepirlo nelle mie ossa, attraverso il contatto delle nostre mani. Non sapevo cosa dire, quindi rimasi zitta, aspettando la fine.

Perché doveva ancora arrivare. Non era solo la storia di un bimbo solo e arrabbiato che vaga per la spiaggia distruggendo sculture di sabbia.

«Ti ricordi il giorno in cui tua sorella mi si è trasformata davanti? Era arrabbiatissima, e lo ero anche io, ma mi ha spaventato. Ero piccolo, e non conoscevo tutte le stranezze del vostro mondo. I ragazzini non potevano ascoltare le vecchie storie Quilieutes, e non sapevo assolutamente nulla di mutaforma, licantropi e vampiri... Quindi non ho capito quando me ne sono ritrovato uno davanti» riprese fiato, lasciandomi ad occhi sbarrati.

«Cosa? C-che è successo, Alex?»

«Me ne sono andato in fretta e furia, non volevo che il mostro dalla pelliccia bluastra mi raggiungesse. Correvo talmente forte che quanto mi sono trovato lontano dalla spiaggia, al centro esatto del bosco, non sapevo più da che parte dirigermi... e non sapevo nemmeno di aver varcato i confini della riserva. Quando il nomade mi ha attaccato, nessuno è venuto ad aiutarmi, non subito, almeno. È stato tuo padre a trovarmi.» la voce adesso era spezzata. Non era più con me, nel duemilatrencinque. Aveva di nuovo undici anni, e le costole spezzate e il petto squarciato dai denti di un vampiro. Mi stupiva il fatto che fosse ancora vivo.

«Non sono morto. Non del tutto. Sono stato in coma per giorni, il mio cervello ha semplicemente staccato la spina. Non ricordo nulla di quel periodo, non ricordo nulla tra la trasformazione di tua sorella e il mio ritorno a casa... Ma ho avuto la febbre, alta, talmente alta che i dottori di Seattle si sono chiesti come fosse possibile che una volta uscito dal coma non avessi riportato danni cerebrali. In effetti, è una magia cui io stesso stento a credere, il più delle volte. Eppure, sono vivo. Sono vivo, e sono tornato a casa. Sono vivo, e il prezzo da pagare per questo è stato giocarmi il mio turno da cagnone formato extralarge... ma il succhiasangue mi aveva lasciato un dono.»

Ecco perché se ne andato, ecco perché non si è trasformato. Contenta, Moo?

Alex alzò il capo, voltandosi verso di me. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, come chi ha pianto a lungo, o ha rivissuto cose ripescate dal proprio Dimenticatoio personale. Sentii una fitta trapassarmi il cuore, vederlo in quello stato era terribile, comparato al ragazzo spiritoso e un poco malizioso che mi si era presentato la sera prima.

Ognuno ha i suoi scheletri nell'armadio, Moo, e ciò che ti ha mostrato non è che una piccola parte. Era vero, e lui aveva patito anche troppo.

Lo guardai anche io, nero contro verde, intensamente.

«Che dono, Alex?» chiesi, ma appena diedi voce alle mie parole, mi tornò in mente la strana smorfia che mi aveva lanciato mentre ballavamo, dopo la mia domanda inopportuna e proprio prima di baciarmi, e le sue parole. Sarà bello.

«Il futuro.» Lo disse tranquillo, senza la minima esitazione, e io pensai a mia zia Alice, e al suo potere. Chi o cosa vedeva il giovane che avevo di fronte?

«Il futuro. Quindi, adesso sai che cosa farò tra un'ora, o domani, o tra cinque giorni?» chiesi di nuovo, ma di nuovo capii, ancora prima che aprisse bocca, che non funzionava così con lui, non era come mia sorella, o mia zia.

«No. Vedo il mio futuro, e solo pochi minuti in avanti... una decina, all'incirca.» mi corresse. Aveva ancora gli occhi piantati nei miei e, per un solo momento, vi vidi passare dentro la stessa ombra della sera prima, anche se adesso, sorrideva. Sembrava che l'oscurità che lo aveva catturato fosse stata rilegata di nuovo nel Dimenticatoio di Alex, in angolo della sua mente.

«Perché sorridi?»

«Fallo.»

«F-fare cosa?» E lo sapevo.

Alex mi guardava, mi aspettava, con gli occhi chiari ed aperti su di me. Potevo leggergli dentro, ed era come leggere dentro di me; così, li chiusi, li serrai forte, e pensai a Jon.

Un'immagine di lui che mi sorrideva, con un'espressione curiosa e di aspettativa molto simile... Ma non riuscii a catturarla.

Essia. Se è questo che vuoi, fallo, Moo.

Non ci riuscivo.

Non riuscivo a pensare al mio ragazzo, così baciai l'altro, Alex, senza pentirmene.

Mi aveva raccontato la sua storia, e nella sua storia c'ero anche io, e mia sorella, che a quanto pare gli aveva fatto talmente paura da costringerlo a fuggire via. Mi aveva detto che non mi voleva dare la colpa per ciò che gli era successo... eppure mi sentivo in colpa, in colpissima.

Non lo avevo voluto come amico, e lui era fuggito, da solo, e quasi ci era rimasto secco. Sei un mostro, Moonie-Lunatica.

Così lo baciai, di nuovo, e questa volta la sensazione era familiare, estasi allo stato puro. Sentii la sua mano salire fino alla mia testa, per stringere il suo volto al mio, caldo contro più caldo.

«Io voglio essere tua amica, Alexander. Voglio costruire castelli con te. Ci stai?»

Lo sussurrai pian piano, nel verde del bosco estivo, tra gli uccellini che fischiettavano e il caldo che ci appiccicava le magliette alle spalle.

Lui non rispose, ma lo sentii annuire contro la mia spalla, e tanto mi bastò.

Avevo un amico, un amico vero, e non riuscivo a ricordare il volto del mio ragazzo.




Eli

Arrivai alla riserva che era pomeriggio inoltrato, evitando accuratamente le tracce lasciate dai lupi. Non avevo nessuna possibilità di non essere beccato, ma dovevo fare una prova.

La casa di Leah Clearwater mi era di fronte, lontana forse un ottocento metri circa. Se ascoltavo, rimanendo nel silenzio più perfetto, potevo sentire il respiro di lei dentro la casa, irregolare e per nulla confortante, ma pur sempre presente. Non potevo sbagliarmi.

È viva. Non l'hai uccisa, è viva.

Non ho ucciso lei. Ma gli altri? Carlisle, Edward, Esme, Gwen, Renesmee...

I nomi sorsero spontanei nella mia mente, ognuno accompagnato da una faccia sorridente.

No. No. Non di nuovo.

Decisi che sarei entrato a tutti i costi. Se dovevo morire per mano dei suoi fratelli, almeno, sarei morto nel tentativo di parlarle, di spiegarle, e di chiedergli scusa.

Glielo dovevo.

Lei mi aveva aiutato, lei mi aveva salvato la pellaccia... e l'unica cosa che fossi riuscito a combinare in cambio per tutta la sua gentilezza era stato quasi ucciderla.

Mi odiavo.

Con un ruggito, nudo come un verme, schizzai di nuovo via, nella direzione dalla quale ero venuto. Sentivo dietro di me i passi di qualcosa in avvicinamento, qualcosa di grosso che non sarebbe stato molto caritatevole col mio povero corpo umano se mi avesse catturato... quindi scappai di nuovo via, spingendomi di nuovo fuori dei confini del branco di LaPush.

Un ululato mi raggiunse, talmente minaccioso da farmi venire la pelle d'oca. Era un ammonimento... Ma non ne avevo bisogno.


Corsi via, verso la civiltà.

Avevo bisogno di vestiti, vestiti comodi e caldi, poi, sarei potuto andare incontro al mio destino come meglio potevo.





Angolo della maledetta autrice che si rifà viva dopo tre mesi di silenzio stampa con una faccia tosta indescrivibile

Ehm. Toc Toc, si, non è il Lupo Mangia Frutta ma sono io. LaViSvampita, sì, quella che ha scritto questa parvenza di storia ed è da novembre che non pubblica.
Scusatemi.
Non so come fare per screditarmi ai vostri occhi, e riguadagnare la vostra benevolenza. Sono stata un mostro, terribile. D:
Prima c'è stata la scuola. Poi il virus nel computer (un mese di assistenza) poi mancanza di idee, poi assenza del pc una seconda volta, infine capricci dell'adsl e di nuovo, scuola.
E la testadicazzaggine della sottoscritta.
Scusatemi, scusatemi, scusatemi.
Ve lo dico già da adesso. Il capitolo prossimo non arriverà che tra una ventina di giorni, perché, purtroppo, ho due settimane di studio intensissimo ed un esame di inglese alle porte... ma non scomparirò, non di nuovo, è una promessa e una minaccia. Non potete capire quanto mi sia sentita male al pensiero di non aver aggiornato... Scusate T.T <3
Lettori cari, ditemelo voi. Questo capitolo almeno vi è piaciuto un pochino?? no, perchè io non son soddisfatta. Insomma.
Se volete ingiuriarmi, picchiarmi, offendermi in qualche modo, io ci sono. Scrivete una recensione e fatelo ;) Me lo merito.
Un bacione, e davvero! A presto u.u
Vostra Autrice Ignorante


p.s. Ho pubblicato due cose, entrambe riconducibili alle mie ff... una è una drabble (Non Ora==>http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=903640&i=1) non ci sono nomi, ma io so di chi ho parlato, e se voi lettori delle mie ff la leggerete, forse lo capirete anche voi. L'altra è una mia raccolta, per il momento sono solo Jake e Leah, ma ci ficcherò dentro tutti, compresi Gwen <3 Moonie, Alex (che mi dite di lui, a proposito??? ;)) Ben, Seth ecc... Se volete leggervi le due storie già pubblicate la trovate qui ==> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=881437&i=1

Bene, mi dileguo.
Grazie in anticipo per pomodori, ingiure e tutto <3 Vi voglio bene :3


   
 
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