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Autore: Elpis    16/02/2012    5 recensioni
Nella saga di Twilight si intrecciano molteplici vite e storie d’amore. Ma mentre alcune coppie vengono descritte fin nel più minuto dettaglio, altre vengono lasciate in ombra e dei loro destini si sa poco o nulla. Riuscirà Nessie a stare con il suo Jake una volta cresciuta e scoperta la verità sulla loro storia d’amore? E Leah Clearwater troverà un compagno o continuerà a rimpiangere per sempre l’amore perduto di Sam? Ma pensiamo anche ai Volturi: qual è la verità sulla strana apatia che colpisce Marcus? Che tipo di legame può aver spinto Victoria a creare addirittura un esercito per vendicare la morte dell’amato?
Questi ed altri ancora sono i personaggi su cui la mia ff vuole fare un po’ di luce.
Primo Capitolo: “Touched by you skin” Jacob/Renesmee
Secondo Capitolo: “Touched by the sadness” Marcus/Dydime
Terzo Capitolo: "Touched by the moon” Leah/ Nuovo Personaggio
Quarto Capitolo: “Touched by the future” Alice/Jasper
Quinto Capitolo: “Touched by your the stars” Emily/Sam
Sesto Capitolo: “Touched by your sprint” Victoria/James
Settimo Capitolo: “Touched by your silence” Seth/Angela.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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                                    Touched by the future

                                                                                                                              Alice/Jasper
 
 


 
 

                                                                                                              I didn’t know how you find me
                                                                                                             But from the moment I saw you
                                                                                                                  Deep inside my heart I knew
                                                                                                                        Baby you are my destiny
                                                                                                                                        Destiny Jim Brickman






 

 

La stanza era buia  e fredda e Alice era raggomitolata in un angolo, le ginocchia strette al petto. I capelli, lunghi e intricati,  le piovevano intorno al petto che si alzava e abbassava al ritmo affannoso del suo respiro. Aveva perso il conto del tempo e ignorava che giorno od ora fossero, ma un istinto oscuro ed atavico le suggeriva che non dovesse mancare molto. Presto sarebbe stati lì. Presto sarebbero venuti a prenderla.
Bastò quel pensiero a farle inabissare ancora più a fondo la testa fra le ginocchia, sfregando la fronte contro il ruvido tessuto del camice grigio che ricopriva il suo corpo ossuto. C’era un materasso rattoppato proprio vicino alla stretta feritoia con le sbarre che loro chiamavano “finestra”, ma non le piaceva usarlo. Fin dall’inizio il suo posto era sempre stato lì, incuneato fra il comodino senza una gamba e l’angolo della parete. C’era persino il segno della sua presenza, una chiazza più chiara nel pavimento sporco e polveroso.
Uno squittio la fece sussultare. Si strinse la mani intorno alla testa, rabbrividendo per lo schifo. Odiava i topi. Li detestava, al punto che spesso la notte si rigirava nel letto, sentendo il ticchettio dei loro minuscoli artigli, il fruscio delle loro code rosate che sfregava per terra, il rumore delle loro zampe spelacchiate che sfregavano fra loro.
Avrebbe voluto poter usare il suo dono a comando, giusto per sapere cosa la aspettava, per avere la certezza che sarebbe rimasta a marcire fra le pareti di quel manicomio per sempre e mettersi l’anima in pace. Il volto di sua madre mentre la lama del borseggiatore affondava nel suo ventre caldo le colmò la mente, un liquido infetto che le avvelenò i pensieri.
Si morse le labbra,  il cuore che le tamburellava incessantemente nel petto. A cosa servivano le sue visioni se nessuno aveva mai creduto che dicessero il vero? A cosa serviva poter prevedere il futuro, se poi non poteva fare niente per fermarlo? Aveva provato così tante volte a cambiare il corso degli eventi, a sgrovigliare la matassa dei destini altrui, da aver perso il conto.
Ci aveva provato a cinque anni quando non sopportava l’idea che il suo coniglietto Billy morisse di quella malattia improvvisa.
Ci aveva provato a dodici anni quando aveva previsto la brutta caduta di Cynthia, la sua sorellina di appena quattro anni, ed era solo riuscita a sbucciarsi il ginocchio a sua volta.
Ci aveva provato quella notte, quando sua madre, Cassandra Brandon, era rimasta in ufficio più a lungo del solito e aveva deciso di attraversare da sola le strade buie e pericolose. Quella volta la visione era giunta come uno strappo doloroso all’altezza del petto, un giramento di testa improvviso che l’aveva piegata in due. Era scattata verso la porta come un’indemoniata e aveva artigliato e colpito suo padre che cercava di trattenerla, fino a vomitare a carponi sul parquet perché il volto grigio e spento di sua madre le aveva strizzato le viscere in una morsa insopportabile. Aveva  scalciato, gridato giustificazioni e lanciato avvertimenti mentre un fiotto di lacrime le usciva dagli occhi e si mescolava al sangue che le colava dal mento. Era stato inutile. Suo padre non le aveva creduto: le aveva chiesto quale sostanza avesse assunto, se droga o alcol, e l’aveva schiacciata al suolo fino a quando non aveva capito che era tardi, che era troppo tardi per fare qualcosa. Aveva smesso di dimenarsi e si era arresa, inerme, mentre persino i singhiozzi si spegnevano nel suo petto.
La porta si aprì con un cigolio ed entrò un uomo con un camice bianco.
Non avrebbe saputo dire se lavorava lì da molto o se era un nuovo assunto, i loro volti slavati non facevano presa sulla sua memoria. Per lei erano un ammasso confuso di occhi piccoli e penetranti, di bianchi sorrisi finti e mani grandi e forti.
Era chiusa in quel posto da sei mesi e per la prima volta pensò di meritarselo. Una vocetta piccola e cattiva le suggerì che suo padre aveva fatto bene a farla portare via, ad allontanarla dalla sua nuova moglie e dalla sua nuova famiglia. Dal giorno in cui il corpo di sua madre era stato ritrovato in quel sudicio vicolo puzzolente non riusciva più nemmeno a guardarla in faccia e a volte lo vedeva tremare quando gli si avvicinava troppo.
L’uomo con il camice le afferrò una spalla in una presa ferrea e la indirizzò verso la porta. Lo seguì docile, sebbene conoscesse già il luogo dove voleva portarla e il suo stomaco si fosse contratto al solo pensiero. Chinò il capo, contando le mattonelle per terra mentre i suoi piedi scalzi percorrevano il corridoio. Contare era un buon modo per regolarizzare il respiro e calmare il battito affannoso del suo cuore, glielo aveva insegnato sua nonna quando era ancora viva. Inspirò profondamente, ma il metodo non parve funzionare e mano a mano che quella porta bianca si faceva sempre più vicina il nodo alla bocca dello stomaco si strinse sempre di più, tanto da darle un senso di nausea.
Razionalmente pensava davvero che quella che l’attendeva fosse la giusta punizione. Aveva lasciato che quello squallido borseggiatore togliesse la vita a sua madre ed era più che giusto che pagasse per non aver saputo usare al meglio la sua preveggenza.
L’aveva vista morire e non era intervenuta.
L’aveva vista morire e non l’aveva salvata.
C’era stato sangue, così tanto sangue che le  mani le sembravano irrimediabilmente sporche. Sua madre non  aveva urlato ma un suono soffocato le era fuoriuscito dalla gola mentre la lama recideva muscoli e pelle. Quel suono, basso e gracchiante,  non se lo sarebbe mai scordato, non importava quante volte l’avrebbero sottoposta al “trattamento”.
Ma per quanto il suo cervello si fosse già rassegnato a quello che la aspettava, memore dei suoi falliti tentativi di fuga, il suo corpo no, quello non sembrava tollerare l’ineluttabile.
Alice iniziò a dimenarsi fra le mani dei suoi aguzzini, graffiando e scalciando. Sentì uno di loro chiamare rinforzi ma non se ne curò, lottando per sfuggire dalla loro presa e ritornare nell’angolino della sua stanza. Il ragazzo pallido non ci impiegò molto ad arrivare, quasi come se fosse stato sempre lì, in attesa.
Alice non ricordava né il volto, né il nome delle guardie ma lui era l’eccezione che confermava la regola. Era bello, con la pelle bianca e perfetta, i lineamenti decisi, anche se un po’ ordinari. Ma non era tanto quello a colpirla, quanto il modo in cui la guardava. Il suo sguardo era strano, famelico, se proprio avesse dovuto trovare una definizione. La fissava come se fosse qualcosa da mangiare e le sue iridi tremolavano appena.
La afferrò, stringendo i suoi piccoli pugni in una morsa e Alice boccheggiò a contatto con la sua pelle indicibilmente fredda. Era forte, terribilmente forte, molto più di quello che si sarebbe detto da una prima occhiata. Fissò il suo volto da vicino, il sorrisetto soddisfatto che gli incurvava le labbra, le profonde occhiaie violacee proprio sotto i suoi occhi di un colore indefinibile. Si accorse che portava le lenti a contatto.
Il suo sputo lo colpì sulla guancia poco sopra le labbra dischiuse e Alice approfittò del suo attimo di distrazione per sgusciargli dalle mani. Era sempre stata piccola, minuta, e la sua stazza ridotta le conferiva agilità e scioltezza. Nonostante questo non riuscì a fare un solo passo prima che il suo braccio la artigliasse alla vita, sollevandola come se fosse una bambola di pezza. Un ringhio animalesco gli fuoriuscì dalla gola, un suono basso e  soffocato che le risuonò nelle orecchie e la fece rabbrividire per la paura. Rimase immobile, rigida come un ciocco di legno mentre lui avanzava a passi decisi verso il corridoio e quella porta bianca si faceva vicina, sempre più vicina.
Un velo di lacrime le offuscò gli occhi mentre la scaricava a terra e gli inservienti la circondavano. Il ragazzo pallido le lanciò un’ultima occhiata ironica, ma rimase in disparte mentre gli altri aprivano la porta e la spingevano dentro.
 Le ginocchia le cedettero nel vedere il macchinario che torreggiava in mezzo alla sala e le sue labbra si piegarono in un monosillabo: “No!”, che fu un urlo e una preghiera insieme.
Le guardie non mostrarono un minimo di pietà, né di fronte ai suoi occhi verdi colmi di lacrime, né di fronte ai  suoi singhiozzi isterici. La spinsero rudemente sull’apparecchiatura, costringendola a sdraiarsi sul lettino. Quando le maniglie di ferro le strinsero i polsi Alice smise di dimenarsi e distolse lo sguardo dai camici bianchi, fissando il soffitto. Non aveva bisogno di guardare per sapere cosa stava succedendo: un medico sarebbe presto entrato per controllare gli strumenti e annotare il tutto su un foglio bianco, alcuni minuti di tensione per dare il tempo alla macchina di caricarsi  e poi avrebbe dato il segnale convenuto. Alice sentì il ronzio dell’apparecchiatura che si azionava e deglutì a stento. Aveva un blocco all’altezza della gola e la bile le era risalita fino ad inquinarle il palato con un sapore acidulo.
Un inserviente le si avvicinò e le posizionò una specie di casco pieno di tubicini in testa, poi le infilò un pezzo di gomma in bocca, in modo che separasse per bene l’arcata superiore da quella inferiore. La prima volta si era stupita di quella precauzione ma un compagno di reparto le aveva confidato che a volte le convulsioni erano tali che i pazienti  finivano per amputarsi la lingua con i loro stessi denti. Un lucina rossa brillò vicino alla sua palpebra sinistra e Alice chiuse istintivamente gli occhi, preparandosi psicologicamente al dolore.
Quando la prima scarica elettrica le attraversò le membra, Alice capì che nessuna preparazione al mondo sarebbe stata adeguata. Il suo corpo si inarcò, ribellandosi ai numerosi lacci e manette che la tenevano legata al lettino, mentre tutto esplodeva in macchie di colori confusi.
Subire l’elettroshock era qualcosa a cui non ci si abituava mai: ogni volta era un’esperienza diversa, ogni volta il suo corpo reagiva in modo diverso. Tuttavia Alice aveva imparato a fare distinzioni fra due situazioni.
 Nella prima il dolore lasciava il posto dopo alcuni secondi a un torpore comatoso. Scivolava nel buio e le sembrava quasi di estraniarsi dal proprio corpo, di osservare con un certo distacco quell’ammasso di carne e ossa che si contorceva e urlava parole incomprensibili. Quando era più fortunata sveniva e si risvegliava direttamente nella sua stanza, dolorante e stordita, abbastanza presente da nutrire l’amara consapevolezza che anche quella seduta non era servita a niente: il suo “dono” di prevedere il futuro non se ne andava, per quanto potessero straziarle la carne.
Nella seconda invece la beata incoscienza non sopraggiungeva e lei rimaneva lì, ancorata a quei lacci di gomma, vigile e presente fino alla fine.
Le bastò un secondo per rendersi conto che quella rientrava nella seconda ipotesi. I tecnici abbassarono per un attimo il voltaggio, forse per darle un po’ di respiro. Al cenno del medico aumentarono di nuovo la potenza e di nuovo Alice venne trascinata in quel vortice di fuoco, ogni sua cellula attraversata da quella scarica che le incendiava i nervi. Provò ad urlare e la massa di plastica che aveva in bocca la soffocò, il suo sapore orribile si fuse all’odore di carne bruciata.
Non ce la faccio più. Voglio morire.
Fu un pensiero repentino che si affacciò con prepotenza nella sua mente. Se avesse avuto un minimo di lucidità l’avrebbe terrorizzata, perché era tristemente vero. Non aveva niente per cui valesse la pena andare avanti. Non aveva più una famiglia, né un posto dove andare. Viveva per le ore di buco fra un elettroshock e l’altro, come un’orrenda cavia da laboratorio, per giunta divorata dai sensi di colpa.
Inarcò la schiena, scossa da tremiti convulsi. I capelli le turbinarono intorno alla testa, scuri tentacoli fruscianti. Il respiro le si mozzò nel petto e cercò di tossire mentre un grumo di plastica, bava e sangue le ostruiva la gola. Rovesciò gli occhi all’indietro, esibendone il biancore.
Ti prego, basta.  
Improvvisamente il dolore cessò. Si trovava in una strada buia e c’era un caldo appiccicoso, di quello che si incolla alla pelle e sembra aderirvi come una seconda patina. Barcollò, insicura sulle gambe e si appoggiò a un muro scrostato, piangendo per il sollievo.
Lo vide a pochi passi, perso a contemplare il cielo e il cuore accelerò i suoi battiti.
Era seduto su un muricciolo in un vicolo scadente, con dei rifiuti ammassati poco lontano e fango e melma ovunque; eppure sembrava un dio.
Alice appoggiò la guancia al muro, lasciandosi scappare un sospiro che lui non avrebbe potuto udire. Era di una bellezza ultraterrena, una bellezza così profonda e toccante da mandarla in confusione. La luna ne illuminava i tratti delicati  e la pelle nivea, giocando con i suoi crini biondi. Indossava un abbigliamento semplice, ma troppo pesante, inadatto a quel caldo afoso. Eppure non sembrava a disagio e nemmeno una goccia di sudore solcava la sua pelle perfetta.  
Alice barcollò in avanti, attratta dal suo profilo come una falena dalla fiamma. Non le sarebbe importato bruciarsi se questo avesse voluto dire stargli vicino, anche solo per un attimo.
I suoi lineamenti erano ancora più belli di come li ricordava. La linea decisa della mascella, il naso dritto e ben delineato, le labbra morbide e sensuali. Lui voltò la testa di scatto, quasi avvertendo la sua presenza e Alice tremò alla vista di quelle iridi rosse.
La prima volta che lo aveva visto era stato il giorno stesso in cui era stata portata nel manicomio. Aveva sospettato subito che fosse troppo bello e perfetto per essere vero e i suoi timori erano stati confermati nelle visioni successive: saltava troppo in alto, correva troppo veloce, era troppo forte e aggraziato per  un comune essere umano. Aveva pensato che fosse un angelo, magari il suo angelo custode, e che quella visione preannunciasse la sua morte.
Nella visione successiva l’aveva visto lottare con un’altra creatura di una bellezza sopraffina e si era dovuta ricredere. Il suo corpo si muoveva con movenze feline e ipnotiche ma quella che danzava era una danza di morte e sangue. Quando aveva staccato di netto la testa dell’altra creatura, Alice si era accorta con il cuore a pezzi che il suo angelo era un demone dai canini affilati.
Lo aveva osservato molte altre volte da allora. A volte era cupo e riflessivo come quella sera, altre  era circondato da membri della sua specie e impartiva ordini con fredda decisione. A volte uccideva e per quanto ciò la riempisse di sgomento Alice non distoglieva lo sguardo perché avvertiva il suo bisogno feroce di sangue e la sua amarezza per quella vita di cui non reggeva i fili. A volte amava altre donne, di una sensualità e attraenza per lei irraggiungibili, e lei si risvegliava in lacrime, senza capire il motivo.
La strada intorno a lei turbinò e il suo volto si fece tremolante, fino a dissolversi. Alice allungò istintivamente una mano, nella sciocca speranza di trattenerlo.
Il tempo di un battito di ciglia e si ritrovò in un luogo completamente diverso. Il cielo era plumbeo, come se stesse per piovere da un momento all’altro, e il colore preponderante era il verde. Il verde degli alberi rigogliosi che la circondavano, il verde del muschio che si espandeva rigoglioso con quella umidità. Aveva davanti agli occhi una piccola cittadina di pochi abitanti, una di quelle cittadine semplici e alla mano che a volte si vedono nei cataloghi.
Lui era ancora lì, ma per una volta non fu la sua presenza a toglierle il fiato. Fu il fatto che lei fosse al suo fianco. Si stropicciò gli occhi, incredula. Un moto di delusione le serrò la bocca dello stomaco quando si accorse che non era lei ma solo una sconosciuta che le assomigliava. Le labbra le si incurvarono in una smorfia amara: quella ragazza era molto più bella, snella ed aggraziata come una ninfa, con un taglio sbarazzino che le sarebbe piaciuto portare. Più pallida, più etera, più tutto.
Si avvicinò scrutandone perplessa i lineamenti. Erano affilati e la pelle sembrava quasi risplendere di luce propria, eppure la forma delle labbra… la curva della mascella… e quel neo, proprio all’altezza del polso…
Il dubbio tornò lento e strisciante perché le somiglianze erano davvero troppe perché fosse solo un caso.
<<  È stata davvero un’ottima idea unirci ai Cullen, Alice. Sono sicuro che ci troveremo bene a Forks. >> mormorò lui, girandosi ad osservare la ragazza.
Un sorriso luminoso e aperto gli illuminò il viso e Alice si ritrovò a sorridere a sua volta, come una stupida. Realizzò con un secondo di ritardo che aveva chiamato la sconosciuta con il suo nome e un piacevole calore le si diffuse nel ventre. Speranza. Doveva essere quella che la scaldava così.  
La sconosciuta, o forse avrebbe dovuto dire la sé del futuro, rise e fu una risata briosa e squillante, fresca come acqua sorgiva. Solo allora Alice si accorse di un dettaglio che le era sfuggito: le iridi di lui non erano più di quel rosso che le metteva i brividi, ma di un tranquillo ocra screziato. I suoi occhi rimasero l’unico punto fisso mentre tutto il resto si disfaceva in cerchi concentrici.
Quando si risvegliò sul lettino della sala, con gli inservienti che rimettevano a posto gli strumenti e la liberavano dai lacci, Alice pensò che dopotutto esisteva ancora qualcosa per cui valeva la pena di lottare.
 

 
Entrò in quella tavola calda di Philadelphia con titubanza, restio a mescolarsi  con esseri umani il cui odore era una droga di cui non poteva fare a meno. Aveva cercato di nutrirsi di topi e altri piccoli animali, ma inevitabilmente ricadeva in quella spirale di morte e violenza che lo teneva avvinto.
Jasper varcò l’uscio tenendo gli occhi bassi e la prima cosa che vide quando sollevò lo sguardo fu una visione che gli fece ribollire il sangue.
Era una ragazzina minuta, con un taglio corto e arruffato, una grazia che la faceva assomigliare a un folletto. Gli bastò un istante per sentirsene inspiegabilmente attratto.  
Lei lo fissava con gli occhi sgrananti, come se avesse atteso per tutta la sera il suo arrivo. Si alzò con un movimento fluido e gli andò incontro a passo deciso, intrecciando gli occhi ai suoi. Istintivamente Jasper si irrigidì, perché già una volta era stato irretito da una vampira dalla bellezza travolgente e pagava ancora il fio di quell’errore.
Gli si parò di fronte in modo sfrontato, sorridendogli come se lo conoscesse da sempre.
<< Jasper? >> gli chiese con un sussurro dolce come il miele.
Gli porse una mano in un chiaro invito, senza nemmeno attendere una risposta. Si ritrovò a stringerla senza neanche capire come e per la prima volta il suo cervello immortale lo tradì, andando in blackout. Il contatto con la sua pelle delicata gli trasmise un brivido potente, un calore  che non aveva mai provato prima  e che, paradossalmente, credeva di aver aspettato da sempre.
Lei si girò e fece per trascinarlo verso un tavolo, ma lui oppose delicatamente resistenza, costringendola a voltarsi.
<< Mi scusi, signorina, ma non credo di essere la persona che stavate cercando… >> esordì con un sorriso di scusa.
Il dispiacere non lo dovette fingere, perché era davvero rattristato dal fatto di non essere il vampiro che lei desiderava.
Il sorriso sul suo volto  si allargò e un brillio di malizia le attraversò le iridi.
<< Certo che sei la persona che cercavo. Non sai quanto a lungo ho dovuto attendere… >>
L’ultima frase un sussurro a malapena udibile, venata da una traccia di tristezza.
Jasper sciolse la mano dalla sua presa, sentendosi un verme.
<< Vi sbagliate. >> affermò, senza il coraggio di guardarla negli occhi. << Non potete avere atteso uno come me… >>
Forse era assurdo ma non voleva profanarla con le sue mani sporche di sangue. Era una creatura così pura e perfetta che anche solo il fatto di starle vicino la contaminava.
<< Io non sbaglio mai, sergente. >> lo derise, posando la mano sulla sua guancia e guardandolo con uno sguardo carico di promesse.
Avrebbe voluto tacere, ma non riuscì a zittire la sua coscienza che prese il controllo della  bocca.
<< Ho fatto delle cose orribili, signorina, non credo che…>>
<< Shhh! >> lo interruppe lei, posandogli l’indice sulle labbra.
Normalmente non avrebbe mai consentito a una vampira sconosciuta di avvicinarsi così tanto a lui. Eppure il suo istinto, quello che lo aveva aiutato in così tante battaglie, gli suggeriva che lei non era come le altre e che non aveva niente da temere.
Rilassò le spalle e si abbandonò al suo tocco, sperando che non si allontanasse.
<< Siete proprio come nei miei sogni. >> gli mormorò Alice e si avvicinò ancora di più, come esaudendo la sua preghiera.
<< Voi… mi conoscete? >> le chiese con voce rauca.
La ragazza annuì appena.
<< Vi conosco molto bene, Jasper. Voi non lo ignorate, ma siete stato la mia salvezza. >>
 
 


 
 
Ciao a tutti!
Allora per descrivere il passato di Alice mi sono basata su quanto era scritto su Wikipedia. Non so quanto fosse attendibile (credo che la Meyer nei libri non si sia mai dilungata più di tanto sulla sua vita, anche perché lei non la ricorda); comunque sia a prescindere dalla sua veridicità mi era piaciuta molto come storia e quindi ve l’ho riproposta u.u
Come avrete intuito il “ragazzo pallido” che spinge Alice verso l’elettroshock altro non è che James, che l’ha puntata come sua preda.
 Dai libri della Meyer sembra che sia stata Alice a salvare Jasper, spingendolo verso una vita pacifica e vegetariana. Ho voluto dunque rovesciare i ruoli e far vedere che anche per lei Jasper è stato fondamentale, anche se non se lo ricorda.
Il prossimo capitolo dovrebbe essere una Edward/Tanya ma non sono sicura, potrei inserire una coppia diversa… Volevo aggiungere che i pairing della presentazione sono solo una traccia, non sono definitivi, per cui se c’è una coppia che vi sta particolarmente a cuore e vi piacerebbe leggere qualcosa su di loro, provate a dirmelo, ci sta che mi convinciate! ; )
Come sempre i miei ringraziamenti a tutti, in particolare a chi ha lasciato una recensione!
Un bacio
Ely
 
 
 
 
 
 
 

  

 

  
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