Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Marguerite Tyreen    17/02/2012    2 recensioni
[Missing Moments de "La Canzone di Temaru"]
Dalla pioggia di Limerick alla nebbia di Liverpool, dai fasti della Corte Spagnola alle affollate strade Parigine, una raccolta di ispirazioni varie sui nostri protagonisti quando erano bambini.
Un'occasione per conoscere e scoprire la loro infanzia, al tempo in cui l'Arcadia e Tahiti erano molto, molto lontane...
Genere: Fluff, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'La Canzone di Temaru'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Mie carissime!

No, non ho idea di cosa sia questa cosa che mi è saltata fuori. Di solito non mi viene da raccontare di queste infanzie alla Dickens: sarà che non è nelle mie corde o che Dickens me l'hanno fatto odiare al liceo ;) Ma questa volta, diamo la colpa alla febbre, ne è saltato fuori qualcosa di veramente, orrendamente melodrammatico xD

Abbiate pietà. Non era mia intenzione riabilitare o giustificare Ralph Morgan ai vostri occhi, né sbandierare l'idea che dietro al cattivo dei romanzi deve per forza esserci un passato tragico e senza amore... Se gli facessi fare un discorso di mezz'ora mentre minaccia di morte Temaru sarei caduta nel clichè che più clichè non si può. Ma anche qui ci sono andata vicino xD
Se dovesse risultare veramente uno schifo, fatevi due risate con me e perdonate xD

E niente, l'idea generale – a dire il vero, solo l'idea della sorella e del cane! - è dovuta alla poesia citata un paio di righe più sotto. Non chiedetevi come passo il mio tempo quando non dormo e soprattutto non chiedetevi cosa mi riduco a leggere... questo spiega il fatto che sia completamente fuori di testa, anche quando non ho la febbre.
Come sempre, un enorme grazie. E un bacione grande.
Vostra

Marg.


 

A L.
Che, da grande, vuole fare lo scrittore.
E che, per il momento, tira fuori dalla mia testolina le trame più astruse ^^

 

 

My sister had a dog
named Reggie
she loved Reggie
she said she loved me too
she kissed and patted Reggie
she never kissed and patted me

(R. Harris – My sister had a dog, 1939)

 

 

My sister has a dog

(Ralph)

 

 

Londra, 1743

 

Di sotto c'era un gran andirivieni per la festa: camerieri che trasportavano pile fragilissime di calici, governanti che lucidavano l'argenteria, maggiordomi che rassettavano il salone al millimetro.
Dall'alto della grande scala di marmo a doppia rampa, Ralph poteva vederli affannati e affaccendati come un nugolo di formiche frenetiche.
Aveva un paio d'ore di libertà, ancora, prima che si ricordassero che i Morgan avevano dato ordine tassativo di mettere a letto i bambini alle diciannove precise, non un minuto di più.
I grandi banchetti di Lord Robert Morgan erano sempre ricordati, per le tre settimane successive, in tutti i salotti buoni di Londra. Non c'era dama che non invidiasse gli splendidi abiti della moglie Helen, che da soli decoravano la sua persona più di quanto non facesse il colier di diamanti e la stanza meglio degli arazzi. E non c'era gentiluomo che non avrebbe pagato oro per essere circondato, una sola sera, dall'aura austera e potente del suo consorte.
Morgan non ballava mai, né una quadriglia né un minuetto e non perchè non sapesse fare. Si limitava a prendere posto in uno degli angoli più favorevoli, uno di quelli che gli consentissero il controllo e la visuale assoluta dei partecipanti e fumava in silenzio, rivolgendo agli invitati le uniche parole che gli erano imposte dal galateo sociale.
La giovane Helen, un calice in mano e un sorriso di circostanza sulla bella bocca sottile, sedeva preferibilmente lontano dal marito, ma non accettava nessun cavaliere sul carnet tranne quelli che, in qualche modo, avrebbero segnato la prosperità degli affari del casato. Per il resto non aveva ricevuto alcuna autorizzazione a smantellare il muro di inavvicinabilità che li contraddistingueva. E, bisognava ammetterlo, non pareva nemmeno interessata.
Almeno questo era ciò che Ralph sentiva dire da sua sorella Jacqueline - sedici anni e tutta l'aria di chi aveva capito perfettamente come girava il mondo - e da suo fratello Peter - un ciuffo biondo su un volto virilmente deciso da primogenito e promettente degno erede.
Loro le avevano viste, quelle feste: Jacqueline perchè era stata prontamente promessa a un conte di non ricordava più quale città, Peter perchè era stato portato in trionfo da suo padre al cospetto di soci e gentiluomini vari. Le avevano viste ma non ne erano tornati entusiasti, così anche Ralph si era convinto che non dovessero essere nulla di speciale. Da allora aveva smesso di rimpiangere, assieme ai piccoli Benedict e Annie, la sua condizione di escluso e anche la pesante porta di mogano che lo separava dal mondo dei grandi aveva cominciato a sembrare meno opprimente.
Ma quella sera doveva trattarsi di qualcosa d'importante, se nemmeno Jacqueline era stata ammessa.

 

-Poco male! - aveva fatto lei, alzando le spalle – In mezzo a tutte quelle mummie non è che si stia poi così bene. E le scarpe mi fanno male a ballare.
-Ma non vorresti ballare con il tuo fidanzato? - Ralph l'aveva guardata storto. Non ci capiva molto di quella cosa che la gente chiamava amore, ma supponeva che venisse voglia di stare assieme, quando si era fidanzati, e non di fuggire il prima possibile.
-Per quello che mi importa! Non lo conosco neppure.
-Non lo conosci? E come fai a sapere se ti piace?
Lei aveva continuato a pettinarsi i capelli biondi, guardandosi riflessa nello specchio.
Anche Ralph si rifletteva nello specchio, eppure lei sembrava non vederlo, concentrata sulla sua acconciatura.
-Non mi deve piacere. - gli rispose con ovvietà, continuando a tenere gli occhi puntati sulla forcina – Lo devo sposare, ma non mi deve piacere.
-Ma lo devi sposare, Jackie. E vivere insieme a lui per tutta la vita.
-Me ne farò una ragione. Per il momento ho visto Lord Davis, suo padre, ed è molto ricco. Talmente ricco che Paul, al momento, è in giro per il mondo. È per questo che non l'ho ancora conosciuto.
-E come fai a sapere se è bello? Se è simpatico?
-E che me ne importa? - cercò di agganciarsi il giro di perle al collo, senza riuscirvi – Ralph, me lo allacci?
Aveva un profumo buono, Jacqueline, più di quello di sua madre. Anche se, in verità, quello di sua madre non lo ricordava neanche se si sedeva in un angolo, chiudeva gli occhi e si concentrava forte forte. Era troppo tempo che non lo abbracciava, lei. Anzi, nemmeno era sicuro che lo avesse mai fatto.
-Posso abbracciarti, Jackie? - le chiese all'improvviso.
-Mi sgualcisci il vestito.
-Ma se non devi andare da nessuna parte!
-E a te che ti importa? Metti che incrocio qualche ospite nel corridoio?
Lui si avvolse un boccolo biondo della sorella attorno alle dita: - Per favore...
-Lascia! Mi spettini, dopo tanta fatica che ho fatto!
Un rumore continuo, come di qualcosa che tentasse di scavare una tana nel pavimento, li interruppe.
Jacqueline battè le mani: -Blackie! Blackie! Vieni, amore della mammina!
Uno spaniel dal pelo nerastro e riccio aprì la porta con una spinta delle zampe anteriori e trotterellò verso di lei, festante.
-Amore! Piccino! Batuffolino! - si gettò ginocchioni sul pavimento, incurante della falsa piega che assumeva la sua gonna color corallo – Come sta il bimbo pelosetto di mamma Jackie? Ti hanno dato la pappa? - gli affondò le dita rosee nel pelo folto, scompigliandolo.
Afferrò il muso del cane e gli stampò un bacio sulla testa, prima di tornare alla toeletta e rimettersi la cipria sul naso che si era levata.
-Vogliamo andare, amorino mio? Su, andiamo in biblioteca. Ralph, tu esci subito dalla mia stanza: sai che non puoi restarci, quando io non ci sono.
Blackie gli rivolse un'occhiataccia. O, almeno, quella che a lui parve un'occhiataccia, dietro quei due carboni umidi. Di sicuro, aveva scoperto i denti bianchi e aguzzi.
-E io dove vado?
-E che ne so? In giardino, dove ti pare, basta che non dai fastidio a me. - fece ondeggiare la chioma bionda, sparendo dietro la porta della biblioteca.

 

Così si era seduto sulla grande scalinata di marmo, con le gambe a penzoloni infilate nei fori decorativi della ringhiera.
I frenetici preparativi non accennavano a placarsi. Solo per un istante tutto tacque, come se il palazzo fosse precipitato sotto un incantesimo, quando i passi degli stivali di Robert Morgan avevano risuonato sul marmo lustro ed erano stati accolti con un susseguirsi di inchini e saluti deferenti.
Si era diretto verso la scala, senza degnare nessuno di uno sguardo e scavalcando il figlio con disappunto.
-Ralph! Un Lord non si siede in terra come un pezzente. Alzati subito. - non gridava mai, Robert Morgan, ma la sua voce distaccata assumeva un'incrinatura gelida e tagliente, come il vetro.
Si infilò nella stanza di sua madre, al primo piano: Ralph ne poteva sentire le voci, piuttosto nitidamente.

 

-No, non quel vestito, Helen. Quello rosso. Devi avere tutti gli occhi puntati su di te, stasera.
I Conti Willenby non devono avere dubbi circa lo stato delle nostre finanze. Circa la superiorità delle nostre finanze. E metti le perle, quelle che arrivano dal Catai.
-Queste maledette feste, Robert. Non ne posso più. Non ne posso più né di te né di essere la tua puttana. Il tuo ricco e giovane gioiello da far ammirare ai tuoi amici e ai tuoi soci.
-Non pensare che io mi diverta. Ma ricordati che, senza di me, saresti solo una nobile decaduta senza null'altro che il titolo. Che ti piaccia o no fare la puttana come dici, abbiamo sempre dimostrato quello che ci contraddistingue: il potere, il denaro. - battè il pugno sul cassettone, facendo tremare le boccette di vetro dei cosmetici e le suppellettili in alabastro – E' tutto quello che conta. Tutto quello di cui dovrebbe importarti.
-Tu e il tuo dannato denaro! Del resto non ti è mai importato nulla. Né che io stia languendo a trentacinque anni come una carcassa senza più vita, accanto a un vecchio come te. Né dei tuoi figli. I tuoi figli e la tua dinastia che doveva continuare, ecco cosa ti premeva! Te ne ho dati cinque, cos'altro vuoi da me? Cinque figli e non sei riuscito ad amarne nemmeno uno.
La trattenne per un braccio: - Pensi di essere migliore di me? A parte averli partoriti, nemmeno tu li hai mai amati.
-Non ci riesco. Ogni volta che guardo i loro occhi, mi ricordano che sono nati da un essere arido e senza scrupoli quale sei tu.
-Aggiustati il trucco, prima di scendere. - fece schioccare il frustino da equitazione che portava al fianco, prima di dileguarsi nella sua stanza.
Helen sbattè la porta. Scansò Ralph, in piedi nel corridoio, asciugandosi furtivamente una lacrima e non notando quella che rigava la guancia del figlio.

 

-Jackie? - Ralph aprì piano la porta della biblioteca – Posso entrare?
Lei era raggomitolata in poltrona, con Blackie sdraiato in grembo, che sonnecchiava. La bestiola aprì un occhio, quando lo sentì arrivare. E ringhiò.
-Jackie, tu pensi che anche la mamma abbia sposato papà perchè doveva e non perchè lo amava?
-Oh, Ralph! Sì, sono cose che succedono. Ci si deve sposare e si devono fare dei bambini. È la regola.
-E l'amore? Quello che si legge nelle storie raccontate dai libri.
-Lo si trova da un'altra parte.
-E i soldi? Servono davvero così tanto?
-Come pensi che potresti avere tutto questo, sennò?
-E il potere, cos'è il potere, Jackie?
-Il potere è... ma insomma, sto leggendo. Vuoi smetterla con tutte queste domande?
La guardò per qualche istante in silenzio, prima di aggiungere: - Anch'io da grande dovrò sposare una ragazza a cui non vorrò bene?
-E' probabile... - si inumidì il dito, prima di voltare pagina.
-E quelle a cui vorrò bene davvero? Non le potrò sposare?
-No. Le potrai avere lo stesso. Te lo assicuro. Sarai ricco abbastanza, allora.
-D'accordo. Mi vuoi bene, tu, Jackie?
-E' naturale, sei mio fratello.
-Sono contento che almeno tu me ne voglia. - sollevò di peso lo spaniel e lo mise sul pavimento, togliendolo dalle ginocchia della sorella.
-Ma no, che fai? Scendi subito, Ralph. Hai otto anni, non posso tenerti in braccio! - lo disarcionò con malagrazia.
-Ma Blackie di anni ne ha nove e lo tieni lo stesso.
-Oddio, sei insopportabile! Esci, dai, vattene a letto. - battè una mano sulla gamba, in un gesto che faceva sempre immediatamente correre il cane verso il nido caldo di cui si era appropriato.
-E tirati dietro la porta!

 

Le sei e cinquanta. Ancora dieci minuti e Mary, la bambinaia, sarebbe arrivata per portarlo nella sua stanza. Non sapeva che farsene di quei dieci minuti e vi si avviò da solo.
Prese un foglio assieme ad una matita dallo scrittoio e si sdraiò sul tappeto, di pancia.
Riflettè un lungo istante eppoi scrisse.

Mia sorella ha un cane, di nome Blackie.
Jackie dice di voler bene a Blackie. Lo bacia e lo accarezza.
Jackie dice di voler bene anche a me. Ma a me non bacia né accarezza mai...



 

Fine

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Marguerite Tyreen