Ad
essere sinceri non so proprio che dirvi.
Ehm,
ringrazio chi legge e chi redensisce, grazie Homicidal Maniac <3
grazie Smollo05
*.*
Ho
una
comunicazione importantissima da farvi: è
stato deciso dalla sottoscritta che il qui presente signor Zephit non
potrà
impegnarsi in nessuna relazione sentimentale, quali fidanzamenti o
matrimoni e
simili (a meno che non venga barattato
con qualcosa u.u). Mi dispiace.
Quindi
passando alla storia devo dirvi che questo capitolo è un
po’ particolare,
contorto direi (assurdo forse) e che nella mia testa siccedevano molte
più
cose, ma naturalmente quando si scrive (nel mio caso) diventa tutto
molto più
lungo u.u nel prossimo tutta questa faccenda si svilupperà
molto di più ^^ Lo so, sto aggiornando alla cazzo... ma il
fatto è che non ne potevo più di tenermi questo
capitolo u.u
Buona
lettura!
Capitolo
10. Incontri.
“Qui
e’ dove inizia. Qui e’ dove finirà. Sta
sorgendo la luna… ancora”
[Marilyn
Manson – If i was your Vampire]
Qualcosa
di soffice e caldo sotto di lei, freddo alle mani e una spiacevole
sensazione
di vuoto.
Aprì
gli occhi e il suo sguardo appannato si soffermò sulla mano
davanti al suo
volto, era la sua ed era fasciata con bende chiare.
Mosse
le dita, mentre una lieve fitta di dolore si irradiava per il braccio.
Sbatté
le palpebre per schiarire la vista, ma c’era qualcosa che non
andava, vedeva
troppo poco.
Delle
bende le fasciavano la testa per coprire anche l’ occhio
sinistro.
Si
portò la mano fasciata più vicina all’
occhio spostando le bende, per poi
constatare con orrore che non vedeva.
Sospirò
rassegnata alzandosi a sedere. Passò più volte la
mano davanti all’ occhio
sinistro, inutilmente.
Si
guardò il corpo; l’ avambraccio destro era
fasciato, così come il suo petto e
il collo. Tutto quello che aveva addosso era una lunga gonna nera,
liscia e
setosa.
Si
guardò intorno e sentì una fitta al petto
–non di vero dolore, solo di
nostralgia-, era nella sua stanza; i muri scuri e alti erano interrotti
da
arabeschi cremisi si intrecciavano fra di loro, giocando come onde del
mare al
tramonto, era seduta sul suo ampio letto e davanti a lei c’
era uno specchio
alto, lo stesso che lei stessa tempo addietro si ostinava a rompere.
I
frammenti di vetro caddero a terra per
l’ ennesima volta.
La sua mano era macchiata di sangue, così
come i frammenti sparsi sul tappeto morbido.
“Mia signora, si è ferita?”
Un’ ancella
accorse prendendo nelle sue mani morbide quella ferita della vampira.
“Non è niente.” Rispose lei brusca
ritirando la mano che era già guarita.
“Non voglio mai più rivedere questo
specchio.” Uscì a passi svelti dalla stanza.
Detestava guardare il suo riflesso.
Odiava quegli occhi che cambiavano colore, odiava il volto niveo che
incarnava
la morte, odiava quel volto freddo, odiava quelle mani che senza alcun
risentimento si permettevano di togliere la vita.
Così, come se avesse visto un nemico, il
suo primo istinto era stato quello di colpirlo.
Ma tant’ è ogni volta che uno specchio
veniva rotto, uno nuovo veniva portato nella sua stanza.
Si
sedette pesantemente sulla sedia, tirandosi indietro i capelli argentei
mentre
sospirava.
“Ho
bisogno di bere qualcosa.” Farfugliò.
“Il
re è furioso.” Commentò sorridendo il
Generatore.
“Posso
immaginarlo, gli ha ammazzato la sua chimera preferita.”
Disse l’ elfo mentre
si rigirava fra le mani il ciondolo a forma di rosa.
“Beh,
c’ era da aspettarselo dall’ ala d’
Argento.”
Come
per magia spuntò una cameriera.
“Cosa
vi porto?” Chiese con voce squillante.
“Vada
per due birre.” Rispose con un sorriso il Generatore seduto
di fianco all’
elfo. La cameriera lo guardò con espressione dubbiosa per
qualche istante per
poi andarsene con un’ alzata di spalle.
“Non
dovresti farti vedere in questo modo.” L’ elfo lo
guardò stringendo gli occhi,
gli dava fastidio averlo accanto. Era come sedersi vicino ad un
serpente,
magari non velenoso, ma pur sempre un serpente.
Il
Generatore sospirò pesantemente.
“Di
questi tempi vedere un tizio strano nel mondo delle Creature Oscure non
è
niente di che.” In effetti aveva ragione; ultimamente
nell’ aria si sentiva
qualcosa di strano che metteva addosso a tutti una strana impazienza,
la
necessità di agire, brandire le armi e scendere in
battaglia.
Di
fronte alla guerra i Generatori non erano un gran problema, qualche
gruppo di
nomadi che si nascondeva non dava problemi, sempre che la guerra non
fosse
contro di loro.
“Sarà.”
Disse l’ elfo sospirando.
La
cameriera tornò e posò sul loro tavolo due
boccali di birra.
“Vi
porto altro?” Chiese con voce soave e muovendo un
po’ troppo i fianchi mentre
sul suo volto si stendeva un sorriso raggiante, gli elfi avevano il
loro
fascino, doveva ammetterlo.
“Va
bene così.” Disse Zephit senza neanche guardarla,
ora era la birra ad attirare
tutta la sua attenzione. Si portò il bicchiere alle labbra.
“Cerca
di non bere troppo, non voglio vederti ballare con quella cameriera sui
tavoli.” Disse il Generatore appoggiando il gomito sul tavolo
e il mento sul
palmo della mano. I suoi occhi si illuminarono di luce ambrata.
“Tranquillo,
dovrei bere questa roba per tutta la notte per riuscire ad
ubriacarmi.” Disse
l’ elfo posando sul tavolo il bicchiere
già mezzo vuoto, sbuffando. Gli sembrava che la birra avesse
perso il suo gusto
e a dire il vero non gli sembrava neanche più tanto
invitante quel boccale di
birra.
Eppure
avrebbe voluto ubriacarsi piuttosto che dover lavorare quel pomeriggio.
“Tu
piuttosto, vedi di arrivare in orario altrimenti il re se la
prenderà con me.”
Il
Generatore annuì pensieroso.
“Infatti.”
Fece un gesto eloquente con la mano alzandosi. “Sto andando
via, perché io non
arrivo mai in ritardo.” Le sue labbra si stirarono in un
lieve sorriso dandogli
l’ aspetto di un gatto.
Zephit
fissò per qualche istante i due boccali di birra, il proprio
mezzo vuoto, e il
suo ancora completamente pieno.
“Ehi
Azue! Mi lasci il conto da pagare?!” Urlò al
Generatore che si stava avviando
verso la porta.
“Sono
un’ ospite, e gli ospiti non pagano.”
Salutò lui sparendo dietro alla porta. L’
elfo rimase esterrefatto.
Il
ragionamento era giusto però.
“Quindi”
Si mise a riflettere a voce alta “Io sono ospite di questa
bettola, quindi, non
devo pagare.” Concluse lui mentre le labbra si sollevavano
leggermente.
Peccato
però, che aveva parlato a voce troppo alta.
“Mio
Signore.” Disse l’ elfo inginocchiandosi e portando
il pugno al petto, in
attesa.
Il
re stava sorseggiando del liquido cremisi da una coppa di cristallo
scuro.
“Dimmi
pure, Zephit.” Appoggiò la coppa sul bracciolo
dello scranno su cui era seduto.
Il suo tono di voce non riusciva a mascherare il nervosismo che provava.
“È
arrivato l’ ospite che attendevate.” Disse
l’ elfo con la mascella contratta, i
suoi occhi erano freddi come ghiaccio.
“Bene,
sai cosa fare.” L’ elfo chiuse gli occhi chinando
ancora di più la testa,
sconfitto.
Di
nuovo, come anni prima, tirò un pugno allo specchio
mandandolo in frantumi.
Di
nuovo la mano era ferita e sanguinava.
Chiuse
gli occhi appoggiando lievemente i polpastrelli alla palpebra
dell’ occhio
sinistro, sospirò.
Non
abbassò la mano, ma aprì l’ occhio
destro guardando i suoi piedi nudi
contornati da schegge di vetro e bianche bende.
Sollevò
lo sguardo sui frammenti di vetro che erano ancora rimasti attaccati
alla
cornice scura, si avvicinò, portando il volto a una decina
di centimetri dalla
superficie.
Era
uguale a pochi istanti prima; sulle tempie e sugli zigomi si potevano
vedere
chiaramente i segni dei morsi, cicatrici chiare e vistose rompevano la
regolarità della sua pelle, una in particolare, attraversava
in verticale il
suo occhio sinistro. Voltò un poco la testa, il padiglione
dell’ orecchio
sinistro era tagliato in verticale. Si allontanò, quel tanto
che bastava per
vedere il collo; la parte destra era impressionante, la cicatrice
partiva da
sotto l’ orecchio per poi scendere e allargarsi alla base del
collo e sulla
spalla.
Ma
che bella farfalla.
Si schernì da sola con
una smorfia di disgusto.
Si
guardò di nuovo il viso rovinato aprendo anche l’
occhio ormai cieco che aveva
assunto una tonalità color ghiaccio, quasi bianco, proprio
come quello di una
persona cieca, mentre l’ altro ora era di un semplice color
nocciola.
La
tentazione di colpire nuovamente lo specchio (quello che ne rimaneva)
era
fortissima ma sospirando si diresse verso l’ ampia finestra
fissando la luna
piena che si stagliava nel limpido cielo notturno.
Si
appoggiò al muro continuando a guardare fuori.
Non
avrebbe avuto senso provare a scappare, se si concentrava poteva
benissimo
sentire la presenza di un paio di guardie per ogni corridoio, e
comunque, se si
trovava lì c’era un motivo. O almeno era quello
che pensava.
Una
sorta di miagolio attirò la sua attenzione; fuori dalla
finestra, sul balcone
c’ era un gatto nero, con tanto di ali chiuse sulla schiena,
i suoi occhi
brillavano di una furba luce verde mentre scrutava la vampira che
apriva la
finestra per scacciarlo.
Ci
mancava solo uno Spirito della Sfortuna alla finestra.
Sbuffò
mentre guardava la creatura volare via.
Già
da un po’ camminava per i corridoi, allontanandosi e
avvicinandosi alla sua
stanza, mentre giocava nervosamente con il pendolo a forma di rosa.
Quando
ormai aveva fatto il giro del piano per tre volte una guardia lo
fermò
prendendolo per gomito.
“Ehi,
ti sei perso, orecchie a punta?” Si liberò della
sua presa con uno strattone e
lo trafisse con uno sguardo gelido.
“Taci.”
Si limitò a dire, stringendo gli occhi e riprendendo a
camminare.
In
mano teneva una bottiglia scura, gli era stato detto dal re di portarla
alla
figlia, ma non aveva idea di cosa ci fosse dentro, o meglio, non ci
teneva a
saperlo. Anche se la curiosità era parecchia.
Dicendosi
che dentro alla bottiglia c’era il miglior liquore si
costrinse a stapparla e
ad avvicinarla al naso.
Quando
sentì l’ odore forte e pungente fece una smorfia.
Avrebbe dovuto immaginarlo.
Sangue.
Stava
ancora guardando fuori dalla finestra quando sentì qualcuno
bussare alla porta
che dopo pochi istanti si aprì.
Sulla
soglia c’era un’ elfo dagli occhi color mare e dai
capelli argentei che
arrivavano alle spalle, il torace ampio e la vita stretta erano
fasciati da una
maglia nera aderente con il collo alto.
Al
collo aveva appesa una rosa rossa ad un cordino di cuoio.
Neah
strinse gli occhi, era lo stesso elfo che si trovava alla taverna
quando lei e
Rhies erano stati attaccati.
Fece
per parlare -subito dopo aver chinato la testa in segno di rispetto-,
ma non
fece in tempo perché si ritrovò una scheggia di
vetro puntata alla gola.
“Dov’è
la mia spada?” Incalzò lei.
Alzò
le mani in segno di resa, intenzionato a rispondere sinceramente quando
si
ritrovò il vetro piantato nel palmo della mano. Trattenne a
stento un urlo.
“Giuro
che se non parli subito, tutti i tuoi arti diventeranno dei moncherini
inutili.” Sibilò lei rigirando la scheggia nella
ferita.
“Adesso
l’ Ala d’ Argento appartiene al re.”
Ansimò l’ elfo. Il sangue usciva dalla
ferita colorando il pavimento della stanza e gli occhi della vampira.
“L’
Ala d’ Argento non può appartenere a
nessuno.” Ribattè lei sfilando con forza
l’ arma improvvisata dalla mano dell’ elfo, questo
se la portò al petto,
gemendo.
Le
sue labbra si stirarono in un sorriso sghembo. “Eppure lui
adesso vi ha tutte.”
Il suo drago, pietrificato proprio sopra al suo tetto, la sua spada
nascosta
chissà dove, e lei rinchiusa nella sua stessa stanza.
Sul
viso di Neah si era dipinta un’ espressione sofferente, la
gola bruciava, richiamava
il sangue versato e la libertà.