4
Il rifiuto dello spagnolo era stato un colpo
molto duro per Cristiano e i suoi compagni.
Erano sicuri che avrebbe accettato,
visto il temperamento ed il carattere che aveva dimostrato aiutando quella
donna, apparentemente così disponibile e generoso.
E invece, incredibile a dirsi, anche
lui aveva detto no.
La presenza di Silvano rinfrancava
molto poco il loro ottimismo.
Il gigante veneziano era senza dubbio
molto forte, e per chi non lo conosceva metteva paura solo a guardarlo, ma non
erano sicuri che avesse l’esperienza necessaria per essere di qualche aiuto; lo
provava il fatto che quella volta aveva mulinato la spada come un dilettante.
Si riempiva la bocca di belle parole,
e sembrava molto sicuro di sé, ma in realtà era assai evidente che di battaglie
vere non ne aveva sicuramente combattute molte.
Anche i tre muratori, tornando a casa
quella sera, non riuscirono a non trovare più buffo che minaccioso quella
specie di montagna. Tuttavia, forse Lorenzon non
aveva esperienza e non sapeva usare decentemente la spada, ma di forza ne aveva
quanta se ne voleva, e senza quasi nessuno sforzo scaraventò in aria il grosso
tavolone di legno al centro della stanza.
Quei tre poveretti restarono
pietrificati per la paura.
«Qualcosa da obiettare, mezzi tappi?»
disse poi minaccioso
«No, no. Per niente.» si affrettò a
rispondere il capo battendo i denti.
Cristiano, però, non aveva nessuna
voglia di vedere il bicchiere mezzo pieno, e neanche Fabio e Martino.
La verità era che la loro più grande
speranza era andata a sfaldarsi contro la crudeltà e il cinismo del fato.
Tuttavia, malgrado quello che era
successo, Cristiano sentiva di non essersi sbagliato; quell’uomo era diverso
dagli altri, e se aveva detto di no non era stato per il rischio o la paga
bassa.
Aveva detto di essere stanco di
combattere, e vista la sua età apparente di cinquant’anni o più non era neanche
da sorprendersi. Chissà quanti campi di battaglia aveva veduto, quante vite
stroncato, e quanti amici visto morire.
Fabio e i suoi compagni avevano ancora
molto da imparare su cosa volesse realmente dire la parola guerra, ma di certo
quello era il primo passo verso la comprensione.
Don Gonzalo era sicuro che Bastiano
avesse capito pienamente la lezione, e che almeno per qualche tempo quello
scherzo della natura se ne sarebbe rimasto rintanato nel suo buco a smaltire la
rabbia per l’umiliazione cocente che aveva subito.
Ma nonostante ciò, Gonzalo non aveva
alcuna intenzione di fermarsi qui.
Al contrario, si preparava per colpire
ancora.
Questo periodo di smarrimento da parte
del suo nemico gli avrebbe dato tempo e modo per riconquistare intere fette di
Milano e dei suoi dintorni, e sicuramente ai bravi che ancora giravano per la
città sarebbe bastato anche solo sentir parlare di Amarillo
per marcare visita.
Per il momento, però, Gonzalo voleva
solo godersi quel momento di vittoria.
Quella mattina, come al solito, si era
fatto servire il primo pasto della giornata nel salottino del secondo piano,
quello dove era solito trascorrere la maggior parte del suo tempo a leggere o a
discutere con questo o quell’amico che venivano a fargli visita, e lo stava
consumando sfogliando uno dei tanti libri della sua biblioteca personale.
Don Gonzalo era un buongustaio; amava
i cibi esotici, e soprattutto la frutta, faceva incetta di pesche, avocadi,
manghi e ciliegie. Amava anche il riso, quello secco e leggero che arrivava
dall’India e dall’Oriente, mentre apprezzava molto poco quello locale, che
reputava grasso e troppo corposo.
In verità non solo il cibo, ma tutto
ciò che era esotico, e specialmente orientale, lo attirava e lo affascinava.
Quando aveva solo nove anni suo padre
era rimasto coinvolto in una brutta faida con un’altra potente famiglia
spagnola, e così lui in gran segreto era stato messo sulla prima nave e portato
alle Filippine con un folto manipolo di servitori e guardie fedeli, dove
sarebbe stato al sicuro.
Era tornato in spagna solo molto tempo
dopo, alle soglie dei vent’anni, e in tutto quel tempo aveva imparato ad
apprezzare le atmosfere e le sensazioni che aveva provato nel corso dei viaggi
che aveva compiuto in quel periodo tra Cina, Giappone e India, al punto da
averle volute ricreare, per quanto possibile, ovunque andasse.
Il giardino della sua villa di Madrid
sembrava un giardino zen, e ne aveva uno ancora più grande e maestoso nella sua
residenza estiva sulle montagne fuori città.
Di quei luoghi così lontani aveva
assimilato anche la filosofia e lo stile di vita; apprezzava trascorrere il
tempo meditando di varie cose, come quei monaci che aveva visto con i suoi
occhi restare per giorni e giorni seduti a meditare davanti alle statue del
Buddha. Non che si fosse convertito, per carità. Non ci pensava neppure;
cercava piuttosto di far convivere la sua sincera devozione cattolica con gli
insegnamenti che si era fatto impartire, e forte della sua sicura posizione di
nobile con molte amicizie sia nella Chiesa, sia nella Corte di Spagna sia
nell’Impero stava addirittura cercando di buttare giù un trattato su di un
nuovo modo di intendere l’esistenza, al quale si dedicava nei momenti di ozio.
Mentre era sul punto di finire
qualcuno bussò alla porta.
«Avanti.» disse, e il Perro entrò nella stanza
«Padrone.»
«Spero sia una cosa importante.» disse
Gonzalo senza sollevare gli occhi dal libro
«Volevo dirvi che, come mi avete
ordinato, ho fatto qualche domanda in giro a proposito di quei contadini.»
«Ah, bene. E dunque?»
«A quanto si dice in giro, pare che
abbiano bisogno dei mercenari per difendere il loro villaggio da dei briganti,
o roba simile.»
«Da dove provengono?»
«Non lo hanno specificato.»
«Ed è una notizia sicura?»
«Non saprei, padrone. Di bande armate
che saccheggiano le campagne ce ne sono parecchie, di questi tempi».
Il Don parve abbozzare un sorriso,
quindi riprese a mangiare.
«Padrone.» disse il Perro «Con il tuo permesso, vorrei occuparmi di questa
storia personalmente.»
«Di che storia?» domandò don Gonzalo
evasivo
«Ma… quella
dei contadini, è ovvio.»
«Che cosa ce ne può importare di
quello che fa quella gente?»
«Padrone, questo è un atto che non può
essere ignorato. Bifolchi che assoldano mercenari.»
«Hai detto che non sono riusciti a
reclutarne nessuno degno di questo nome. Quindi, perché preoccuparsi?»
«I bifolchi devono stare al loro
posto, padrone. Quando uno di quei pezzenti alza la testa sarebbe cosa buona
tagliargliela, così da dare l’esempio. Quelli sono come le formiche, se uno fa
una cosa la fanno tutti. Che succederebbe se tutti i contadini, compresi quelli
che lavorano per la signoria vostra, decidessero di non pagare più i tributi
dovuti, o versare le decime, o sottostare alle vostre parole?»
«Tu ti fai troppi problemi, amico
mio.» rispose calmo il don «In ogni caso, non è un problema che mi riguarda. Per
il momento, almeno.»
«Però, padrone…»
«Quello che voglio fare in questo
momento è godermi un po’ di pace. Potrai tormentarmi in un altro momento. Perché
non vai a goderti questa bella giornata, invece di stare a pensare a quei
bifolchi?».
Ringhiando sottovoce, il Perro non poté fare altro che obbedire, almeno
apparentemente; lasciata la stanza infatti, si diresse verso la casamatta che
faceva da alloggio per i bravi e i loro compari che lui comandava
personalmente, troppo infimi e di basso livello per poter essere considerati al
pari delle altre guardie, quasi tutti soldati di professione che avevano scelto
di cambiare mestiere, vuoi per la paga migliore o per il minor rischio.
A lui bastava vedere un bifolco per
perdere il senno; gli faceva tornare alla mente quello che era successo alla
sua famiglia, spazzata via e ridotta in miseria dalla rivolta dei bifolchi che
comandava, e che da un momento all’altro avevano deciso di mandare tutto all’aria
perché avevano deciso che quello che avevano non gli andava più bene.
Non aveva mai disobbedito agli ordini
del suo padrone, ma la vicenda di quei contadini gli faceva salire il sangue
agli occhi; vista la volontà del don non poteva ucciderli, ma avrebbe dato a
loro, e a quel mercenario senza onore che si era venduto per poche monete, una
ripassata tale da ricacciarli nel loro buco schifoso a mangiare fango e a
elemosinare.
Passando davanti ad un finestrone
buttò casualmente l’occhio al giardino esterno incrociando Amarillo,
inginocchiato ai piedi di un albero, mani sulle ginocchia, schiena diritta e
occhi chiusi, come in meditazione.
Perro provava
un misto di rabbia e paura nei confronti di quell’uomo così misterioso, e ciò
che aveva fatto qualche giorno prima aveva spaventato anche lui; detestava la
fiducia che il padrone nutriva nei suoi confronti, ma soprattutto la sua
bravura, molto superiore a quella che lui avrebbe mai potuto sperare di
ottenere in tutta la sua vita.
Aveva sentito dire dal padrone che Amarillo era passato al suo servizio dopo essere rimasto
ferito durante una battaglia nel suo Paese, ed aver contratto un eterno debito
di riconoscenza verso colui che gli aveva salvato la vita raccogliendolo
moribondo dal campo di battaglia; ma chi poteva esistere di tanto perfetto da
riuscire a ferire un uomo simile?
Due giorni dopo aver rifiutato la proposta di ingaggio
di quei tre contadini, lo Spagnolo stava ancora girovagando senza meta per le
strade di Milano.
Aveva deciso di lasciare la città già
il giorno in cui aveva salvato quel ragazzo dai rapinatori, e invece da allora
qualcosa gli aveva impedito di farlo.
Forse era il suo animo che gli
impediva di lavarsene le mani, forse la semplice curiosità del vedere se quei
tre sarebbero riusciti nel loro intento o invece, cosa assai più probabile,
avrebbero finito per arrendersi.
Sicuramente se ne erano accorti anche
loro, ma lui lo aveva capito al primo sguardo che quella specie di montagna che
si erano procurati non doveva valere un granché, e proprio per questo aveva
voluto metterlo in guardia.
Era talmente preso dai suoi pensieri
che camminando urtò inavvertitamente qualcuno che veniva dalla direzione
opposta.
«Scusa.» si affrettò a dire.
Poi, gli bastò guardare un momento la
persona che aveva appena urtato per sentire un brivido alla schiena; anche se
la faccia non era poi così spaventosa, emanava un che di minaccioso, e nei suoi
occhi c’era qualcosa di molto poco raccomandabile.
Lo Spagnolo era sicuro di averlo visto
due giorni prima al seguito di uno dei due don che si erano battuti vicino alla
chiesa, quello vincente, ma non era il soldato con la pelle gialla che aveva
attirato in quel momento la sua attenzione.
Perro non disse
nulla, limitandosi ad un’occhiata obliqua, e riprese subito a camminare
perdendosi tra la folla, mentre al contrario lo Spagnolo esitò a lungo prima di
tornare a seguire la sua strada senza meta. Una strana inquietudine si era
impadronita di lui, e l’esperienza maturata in anni di guerre, che gli aveva
insegnato a non dubitare delle proprie sensazione, gli impediva di non
pensarci.
Qualche ora dopo, non lontano da lì,
Cristiano, Fabio e Martino, accompagnati da Silvano, erano ancora alla ricerca
di qualche altro mercenario.
Erano passati già due giorni da quando
l’Uomo in Bianco aveva detto loro di no, due giorni senza essere riusciti a
reclutare qualcun altro, qualcuno davvero capace di essere d’aiuto. Ormai tutti,
persino Cristiano, avevano il morale sotto i piedi, ed erano sempre più
convinti che non valesse più la pena di continuare a tentare.
Anche quel giorno la caccia, per così
dire, si rivelò del tutto infruttuosa, ed i quattro, con gli sguardi bassi e le
espressioni che più affrante non si poteva, erano rientrati a casa; come al
solito c’erano anche i tre operai, che nonostante fossero stati messi al loro
posto dall’esibizione di Lorenzon non mancarono,
vedendoli tornare a mani vuote, di abbozzare una risatina, che però il gigante
veneziano mise subito a tacere.
Mentre aspettavano di mangiare il
solito pasto scadente Martino fece quattro conti in tasca, e il risultato non
fu certo dei più incoraggianti.
Era passata una settimana da quando
erano arrivati a Milano, una settimana senza essere riusciti a reclutare null’altro
che un mercenario di basso livello; avevano già speso la bellezza di sessanta berlinghe, e c’era ancora da pagare metà del nolo della
casa.
«E questo che cosa sarebbe?» domandò Lorenzon vedendosi portare una piccola porzione di carne
«Scusa.» disse Cristiano «Lo so che
non è molto tutto quello che siamo riusciti a comprare.»
«Non dicevo questo. Perché a me la
carne, e a voi quella fanghiglia immangiabile?»
«Beh, fa parte dell’accordo.» rispose
Fabio «Ti ricordi? Vitto e alloggio, oltre alla paga.»
«Accordo un corno!» sbraitò il
veneziano battendo il pugno sul tavolo «E io dovrei mangiare carne mentre
guardo voi trangugiare quella specie di piscio d’asino? Non se ne parla
proprio!».
I tre restarono basiti.
«Ma, veramente…»
«Me ne infischio del contratto. Io mangio
quello che mangiate voi! Che uomo sarei se mi facessi pagare un pranzo di
classe da dei poveracci che non hanno neanche di che preparare il proprio, di
pranzo?».
All’improvviso si udì un rumore di
vetro infranto, e mentre tutti cercavano di capire che cosa fosse stato Martino
vide una bomba di una decina di centimetri di diametro rotolargli ai piedi con
la miccia innescata.
«È una bomba!» sbraitò.
I tre muratori, che erano i più
distanti, fecero in tempo a fiondarsi in cantina, mentre Lorenzon,
con la sua solita forza erculea, capottò il grosso tavolo a formare una
barriera, tirandoci dietro Martino giusto un istante prima che la miccia fosse
del tutto consumata.
Qualche secondo dopo si udì un boato
assordante, i vetri della casa andarono in pezzi e il portone, per quanto
robusto, vibrò vistosamente, restando però intatto.
La gente fuori rimase paralizzata per
la paura e molti scapparono, ma alcuni rimasero per vedere cosa fosse successo.
Proprio davanti all’ingresso stava il Perro, affiancato da cinque dei suoi uomini, e quando la
polvere si fu posata e tornò il silenzio comandò a due di loro di andare dentro
a controllare che fosse andato tutto liscio.
Quelli, armi alla mano, sfondarono il
portone con un calcio e si buttarono all’interno; seguì un breve momento di
tregua, poi si udirono strani tonfi, e subito dopo i due volarono letteralmente
fuori come se fossero stati sparati via dal una fionda gigante.
Passò qualche altro secondo, e dall’interno
uscirono Lorenzon, Cristiano e gli altri; erano coperti
di polvere, e i tre contadini erano ancora frastornati per il fragore dello
scoppio, ma stavano bene.
Perro non fu
per niente insoddisfatto nel vedere le sue vittime uscire vive dal suo primo
assalto; al contrario, sembrava quasi contento.
«In effetti, avevo il timore che non
sarebbe stato abbastanza divertente.» disse tra sé e sé
«Sei stato tu a lanciare quel fuoco d’artificio?»
domandò provocatorio Silvano
«Consideralo un piccolo omaggio da
parte mia.»
«Fai regali pericolosi, amico. Lasciatelo
dire.»
«Ritenetevi sfortunati. Morire in
quell’esplosione vi avrebbe riservato molte meno sofferenze».
Quindi, ad un suo cenno, tutti gli
uomini, anche i due che Silvano per poco non aveva spedito nel firmamento,
sfoderarono le spade circondando i quattro.
«Che cosa volete da noi?» domandò
Cristiano «Si può sapere che vi abbiamo fatto.»
«Un bifolco non ha il diritto di
sapere, né di fare domande. Tutto quello che gli è dato di fare è abbassare la
testa. E voi avete alzato la vostra anche troppo.» poi si rivolse ai suoi
«Niente morti. Basterà una bella ripassata».
A quel punto i cinque partirono all’attacco,
contrastati alla meno peggio da Silvano; anche Cristiano oppose resistenza, ma
ancora una volta il suo era solo un mulinare la spada senza capo né coda,
facilmente contrastabile da uomini abituati a menare le mani, che anzi lo
trovavano quasi divertente.
Sarebbe potuta finire davvero male per
lui e gli altri, se ancora una volta l’Uomo in Bianco, come un vero angelo
custode, non fosse intervenuto a salvare loro la vita.
Come suo solito, piombò sul campo di
battaglia apparendo come dal nulla, e prendendo subito a malmenare gli
aggressori; a differenza della prima volta, però, non sembrava avere intenzione
di uccidere, infatti si limitava a ferire gli uomini del Perro
quel tanto che bastava da costringerli all’impotenza.
Ad uno fece un profondo taglio alla
mano, per impedirgli di portare la spada, ad un altro recise i tendini, ad un
altro ancora ruppe il naso col pomo della spada.
Infuriato per quel fuori programma
anche Perro a quel punto si lanciò nella mischia,
sfoggiando tutta la sua abilità; lo Spagnolo dovette impegnarsi un po’ di più
del suo livello abituale, ma alla fine riuscì ad avere ragione anche di quel
nemico. Scavalcata la sua difesa, con un affondo preciso e letale gli tranciò
di netto l’orecchio destro, che rotolò sul terreno fangoso.
Il Perro
urlò dal dolore, cadendo in ginocchio e tenendosi la ferita con una mano; il
sangue che gli copriva la faccia rendeva la sua espressione di dolore misto a
rabbia ancor più terrificante. Lo Spagnolo lo guardava dall’alto, freddo e
impassibile, ma non sembrava intenzionato a vibrare il colpo di grazia.
Ferito ma non domato, il Perro fece per continuare la sfida, in parte consapevole
che sarebbe stata sicuramente una causa persa, ma prima che potesse muovere un
passo Amarillo comparve alle sue spalle,
frapponendosi a spada tratta tra i due contendenti.
«Che ci fai tu qui?» ringhiò Perro «Non ho bisogno del tuo aiuto».
Quello non rispose, né si volse a
guardarlo, restando invece immobile a fissare lo Spagnolo dritto negl’occhi. Era
come se in tutto l’universo ci fossero stati solo loro due, immobili l’uno
davanti all’altro, cercando di cogliere i rispettivi pensieri attraverso lo
sguardo.
Alla fine il silenzio di Amarillo risultò più eloquente di mille parole, e il Perro non ebbe altra scelta che abbandonare i suoi propositi,
anche perché tra poco sarebbero arrivate le guardie.
«Andiamo via!» ordinò, e i suoi uomini
lo seguirono, scomparendo rapidamente nei vicoli della città.
Amarillo si
trattenne un poco di più, seguitando a osservare, ricambiato, lo Spagnolo negl’occhi,
ma alla fine anche lui, rinfoderata la spada, se ne andò, calmo ed impassibile.
Passata la tempesta, i contadini si
avvicinarono al loro salvatore per ringraziarlo, e fu allora che si accorsero
che lo Spagnolo era rimasto ferito ad un braccio; in circostanze normali
avversari di quel livello non sarebbero stati neanche in grado di sfiorarlo, ma
quando si affrontava con la determinazione a non uccidere avversari che invece
ad uccidere non ci pensavano due volte cose simili potevano capitare anche ai
migliori.
«Signore, voi siete ferito.» disse
Cristiano
«Non è niente.» rispose lui.
Il ragazzo però insistette, riuscendo
infine a convincere lo Spagnolo ad entrare in casa per farsi fare una
medicazione.
All’interno i segni dell’esplosione
erano ben evidenti; il poco mobilio presente nella stanza era stato
scaraventato via, c’era polvere dappertutto e le pareti erano piene di piccole
ammaccature lasciate dalle schegge e dalle palline di ferro. Se non fosse stato
per il provvidenziale intervento di Silvano e per la robustezza del tavolo,
sicuramente per Cristiano, Martino e Fabio non ci sarebbe stato scampo.
Anche i tre operai, accertatisi che
non c’era più pericolo, uscirono allo scoperto, ma lo spavento che si erano presi
era tale che non volevano avere più niente a che fare con quei tre contadini;
raccolte le loro cose, scapparono via veloci come il vento.
Mentre lo spagnolo, seduto ad una
sedia rimasta intatta, veniva curato da Martino con delle pomate alle erbe e
delle bende che si erano portati dal villaggio, Fabio, Cristiano e Silvano
provavano a rimettere apposto.
Fabio, ad un certo punto, vincendo la
timidezza decise di porre una domanda allo Spagnolo.
«Perché ci avete detto di no?».
Lui esitò a lungo prima di rispondere.
«In vita mia ho visto più battaglie di
quante ne potrei contare. Ormai sto diventando vecchio, e comincio ad essere
stanco. La battaglia non è più qualcosa che faccia per me».
D’un tratto, Silvano ebbe un sussulto.
«Il denaro!» esclamò, ed aprì la
pesante cassapanca nell’angolo più lontano della stanza.
Per fortuna quell’ingombrante
soprammobile aveva retto, nonostante la granata gli fosse esplosa praticamente
sotto, e la borsa col denaro era intatta.
Notando l’espressione sollevata di
Cristiano, Silvano, gettata rovinosamente a terra la sedia che stava
trasportando, prese il sacchetto di mano al giovane, andò davanti allo Spagnolo
e glielo svuotò davanti.
«Guarda qua! Li vedi? Questi sono
soldi. Sono soldi che hanno messo da parte per te. Lo sai quante cose avrebbero
potuto farci con tutto questo denaro? Avrebbero potuto comprare del cibo, che
di questi tempi è un bene sempre più raro, o Dio solo sa cos’altro.
E invece, sono disposti a dartelo, se
tu li aiuterai. Per farlo su si sono privati di tutto quello che avevano. Dormono
tra gli stracci, mangiano porcherie che non si darebbero neanche ai maiali, e
si vestono di pezze.
Se sei un uomo, questo non può
lasciarti indifferente!».
Cristiano e gli altri si sentirono
pervasi da un senso di vergogna, e abbassarono gli occhi.
Dapprincipio, lo spagnolo non disse
niente, limitandosi a fissare il vuoto. Poi, si inginocchiò, raccolse una ad
una tutte le monete, prese la borsa e ce le rimise dentro.
Ora cominciava a capire perché non se
ne era andato, e perché in quei due giorni non aveva fatto altro che girovagare
attorno alla casa di quei tre contadini così testardi e determinati.
La sua mente rifiutava di impegnarsi
in un’altra battaglia, ma la sua anima al contrario gli diceva che forse quello
era un segno del cielo; forse, per la prima volta, poteva impegnarsi in una
battaglia che non avrebbe perso, ma che soprattutto non si sarebbe vergognato
di aver combattuto.
Si diresse verso Cristiano.
«Ho capito. La vostra determinazione è
da premiare e da ammirare. Avevo dimenticato quello che soffrono i contadini e
la gente comune, per colpa di uomini come quelli che vi hanno appena aggredito.»
«Allora…»
disse Cristiano con occhi che risplendevano.
Lo Spagnolo fece un cenno di assenso e
abbozzò un sorriso.
«Vi aiuterò».
La gioia che i tre provarono era così
grande da non poter essere descritta. Neanche l’ingresso al paradiso avrebbe
potuto dar loro un sollievo più grande.
Cristiano ne era sicuro. Era sicuro di
non essersi sbagliato sul conto di quell’uomo. E ora, ne aveva la certezza.
«Noi… non vi
ringraziamo infinitamente. Posso… posso chiedervi il
vostro nome?».
Quello gli restituì il sacchetto di
monete e rispose.
«Il mio nome è Kristoval.
Kristoval Santana».
Nota dell’Autore
Eccoci
qua!^_^
Ve l’avevo
detto che stavolta non ci avremmo messo tanto.
Il mio
esame di sceneggiatura è andato bene, e ho raccolto i buoni commenti del
professore circa la mia abilità nello scrivere, il che è stato ovviamente come
un’iniezione di turbo.
Per quanto
riguarda il mio amico, per ora non è ancora riuscito a contattare “quelli che
contano”, ma i commenti positivi a questa storia lo hanno reso comunque molto
felice e fiducioso.
Da questo
momento la storia prende, come si può prevedere, un nuovo corso, e da adesso in
poi cominceranno rapidamente a comparire gli altri mercenari.
Piccola
Nota. I nostri attenti lettori potranno dire che Kristoval
Santana è un nome un po’ insolito, ma si tratta pur sempre di un remake dei
Sette Samurai, e un omaggio ci è sembrato doveroso.
Studio a
parte, e per un po’ dovrei poter stare tranquillo, dovremmo poter riaggiornare tra non molto.
Grazie come
sempre a lettori e recensori.
A
presto!^_^
Carlos Olivera