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Autore: raganellabyebye    24/02/2012    1 recensioni
Niente risate stavolta (ammettendo che ne abbiate fatte prima...)! Romulus (giorni nostri, quindi con un nome diverso, perché Romulus non lo potevo prorpio usare!) riscopre una vecchia foto e...
Giallo per stare dalla parte dei bottoni!
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Antica Roma
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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 Uhuuu! Pauraaaaa! Stavolta s’inizia subito!
 
Avvertenze:
a)Hetalia mio? Presentatemi il cretino che lo pensa solo perché non l’ho scritto fra le note all’inizio! Anzi, no, mio caro decerebrato, leggilo direttamente qui:
HETALIA NON E’ MIO!
b)Questa è la seconda parte, quindi il punto “b” basta andare a rileggerselo
c)Lasciate da parte il libro di storia e prendete i fazzoletti (se siete di lacrima facile), o usate direttamente le pagine al posto dei kle*nex (non sia mai che faccia pubblicità occulta... ah, fermi! Il mio non era un invito al vandalismo o alla distruzione del nostro patrimonio culturale! Era solo, tipo una battuta! Fate leggere anche questo al prof, prima di incolparmi!)
d)A causa dell’incomprensione linguistica derivata dall’incommensurabilità dei paradigmi, non abbiamo una lingua comune in cui possa esplicarvi questo punto “d”, sappiate solo che è quello che credete io mi sia dimenticata.
 
 
La mia regina
Parte seconda
 
Alzai leggermente la foto sbiadita, riguardandola per non più di un attimo. La curva dolce e fragile del collo, i polsi sottili uno sopra l’altro, mentre incrociava le mani intrecciando le dita. Non erano lunghe o affusolate, né particolarmente morbide. Patrizia aveva sempre lavorato con la madre, quando tornava da scuola. Usava un ditale di ferro un po’ ammaccato, e sulle prime tre dita della mano destra c’erano dei piccoli calletti in corrispondenza di dove impugnava l’ago. Anche poco dopo il polso, sopra l’attaccatura del pollice, la pelle era leggermente rovinata, dove il supporto di legno per il ricamo e il tessuto le sfregavano la pelle. Per lenire l’irritazione metteva una crema che faceva sua madre: aveva un odore particolare, quell’unguento: a volte credevo di riuscire addirittura a seguirne l’odore; i miei amici dicevano che era una cretinata, perché loro non sentivano niente, eppure l’odore di camomilla c’era, ed era... pregnante. Leggero, lieve, ma bastava un tocco perché rimanesse a lungo.
Era inverno, e per evitare che la pelle si arrossasse ancora di più, metteva la crema più volte al giorno. Così una domenica – a novembre credo... si novembre, era il giorno dei morti – lasciai che il vento facesse volare la mia sciarpa appena fuori dall’entrata in chiesa: ero uscito dalla funzione un quarto d’ora prima, dicendo che dovevo andare in bagno. In verità mi ero appostato fuori dall’entrata, per studiare una qualche maniera per far arrivare la mia sciarpa fino lì. Quando vidi uscire sua madre, la lasciai andare, e la mia sciarpa si fermò esattamente ai piedi di Patrizia. Un po’ scocciata, la guardò male, poi la raccolse e si guardò intorno per cercare di capire chi fosse l’idiota che con un freddo del genere era stato abbastanza scemo da far volar via la propria sciarpa. Mi avvicinai trafelato, come se avessi corso per tutta la piazzetta alla ricerca di quello sgorbietto di lana – non mi costò molta fatica: fermo lì fuori ero diventato quasi cianotico, e il cuore mi batteva così forte per l’emozione che minacciava di saltar fuori dal petto, e lei lo scambiò per lo sforzo che avevo messo nel tentativo di recupero –; lei mi lanciò dapprima un’occhiata di rimprovero, poi arrossì. Cercando di tenere l’imbarazzo sotto controllo, borbottò qualcosa circa il fatto che fossi una zucca vuota e me la spinse fra le braccia, quasi a voler allontanare anche me. Ma io non feci caso ai commenti – che conoscendola, non avrei afferrato comunque – né al gesto un po’ sgarbato – era una sua prerogativa trattare i seccatori a quel modo – perché ero totalmente concentrato sul suo viso: non credo di aver mai visto qualcosa di così rosso in vita mia. Quando si accorse cosa aveva attirato la mia attenzione, mi fece una linguaccia e se ne andò con passo veloce e furibondo. Mi riavvolsi la sciarpa attorno al collo e sentii subito l’odore di camomilla: vi rimase attaccato per giorni.
Quando, anni dopo, le svelai la vera ragione per cui si era dovuta fermare all’ingresso della chiesa, mi diede un buffetto sulla guancia e mi rivolse uno dei suoi strani sguardi fra l’intenerito e l’imbarazzato. Rimanemmo abbracciati sul divano così a lungo, quella sera, che ci addormentammo lì.
Muovendo un dito, sentii un’irregolarità sul retro della carta, dove Patrizia aveva scritto la data. Ridacchiai piano, ricordandola mentre scriveva: si piegava sul tavolo, con il viso vicinissimo al foglio e la testa inclinata di lato, mentre storceva leggermente le labbra e corrugava le sopracciglia, concentrata. Era mancina, e forse per questo teneva la penna in un modo un po’ strano, tanto che il medio della mano sinistra era leggermente deformato vicino alla punta, dove premeva contro lo stilo. Si lamentava spesso di quel piccolo difetto: diceva che sembrava un principio d’artrite. Ridevo tutte le volte, poi le passavo le mie mani, girandole, perché potesse vedere le cicatrici sulle nocche e i calli sui polpastrelli, dati da inverni nel laboratorio dell’ebanista e da estati da bracciante per tirare su qualche soldo. Anche a quasi quarant’anni di distanza, i segni erano ancora tutti lì.
Con gli occhi della mente, diedi colore alla foto: il vestito rosso purpureo, il suo preferito, che le piaceva ma la imbarazzava allo stesso tempo, perché diceva che era troppo vistoso. Era seduta dritta come un fuso, su quella vecchia poltrona di cuoio, con il mento alzato e lo sguardo serio. Mi sembra ieri che scattammo quella foto; odiava le fotografie, la mettevano a disagio, e non sapeva mai che faccia fare. Così si sedeva composta, mettendo su l’espressione più neutra che potesse. Quando le andai di fianco, mi allungai per un attimo, facendo finta di sussurrarle qualcosa all’orecchio, anche se in realtà le diedi un piccolo bacetto sul lobo. Sarà per questo che le sue sopracciglia hanno quella piccola rughetta nella foto, come se cercasse di trattenere qualcosa. Appena uscimmo, mi diede un calcio nello stinco, poi mi prese il braccio e camminammo a braccetto, con la sua testa contro la mia spalla, fino a casa. Per tutto il tragitto, le sue labbra piene furono incurvate in un sorriso che cercava invano di nascondere in quella famosa sciarpa che “era caduta ai suoi piedi e di cui si era perdutamente innamorata”.
Adoravo, adoravo, adoravo il suo sorriso. Molti pensavano che sorridesse raramente, anche se invece lo faceva spesso, ma solo quando nessuno guardava. Io ero il solo a cui ne regalasse qualcuno, anche se io preferivo rubarli. Non scatenarli o crearli involontariamente, ma rubarli. A volte tornavo in camera di soppiatto solo per questo; aspettavo di sentire l’anta dell’armadio che si chiudeva, poi il leggero rumore dello sgabello che veniva spostato. A quel punto mi avvicinavo lentamente alla porta, spiandola attraverso la fessura mentre si pettinava i capelli, prima di andare a dormire. Era un rito che svolgeva ogni sera, prima di coricarsi: si sedeva su quel piccolo sgabello con una gamba un po’ più corta, che lo faceva dondolare, e raccoglieva i pensieri della giornata appena trascorsa. Io guardavo quel sorriso contenuto e dolcissimo che appariva sul suo viso a un pensiero allegro – probabilmente qualcosa che aveva fatto Claudio - riflesso nello specchio della sua piccola toletta, troppo piccola per tutto ciò c’era nei cassetti e sul ripiano, troppo piccola in confronto alla camera, ai soffitti, persino ai comodini, ma a lei piaceva. Era uno dei pochi mobili che avevamo comprato per la nostra prima casa, un minuscolo appartamento in affitto stipato di roba, ancor più pieno dopo l’arrivo di Claudio. Quel povero mobile che già allora era di terza mano, con la vernice un po’ scrostata e lo sgabello abbinato, che il venditore ci regalò quando gli dicemmo che ci eravamo appena sposati.
E la mattina, quando le sue labbra s’incurvavano inconsciamente alla vista del cielo terso e del sole splendente che illuminava la cucina e le scaldava la pelle; in quei momenti non sembrava neanche reale, tanto era bella.
Ma ciò che preferivo era la sera tardi, dopo che ci trasferimmo in quell’ampio appartamento nel centro di Roma. Tornavo a notte inoltrata - forse verso le   due -, sfinito dopo un viaggio in treno o in aereo o in macchina o varie combinazioni fra i tre, dopo ore di riunioni logoranti in città sempre troppo lontane. Questo fu uno dei motivi che mi spinse a mettermi in proprio, quando si decise di smembrare la compagnia. Che azzardo. Ma il solo buttarmi assieme a quegli altri due idioti in quell’avventura assurda era stata una follia. Eppure lei era sempre lì, al mio fianco, quando non sapevamo cosa ne sarebbe stato dell’azienda da lì a tre settimane, quando sembravamo sull’orlo del baratro e quando i registri si sdoppiavano davanti ai miei occhi.
Non volendola svegliare, mi lasciavo semplicemente cadere sul divano. La mattina dopo mi svegliavo sotto una coperta, senza giacca, cravatta e scarpe.
Una notte, nel dormiveglia, udii il rumore leggero delle sue ciabatte sul pavimento di legno, che si avvicinavano al sofà dove mi ero accasciato. Sentii le sue dita muoversi vicino ai polsini, togliendomi i gemelli, per poi risalire verso le spalle, sfilandomi la giacca così lentamente, con tale accortezza che quasi non me ne accorsi. Sciolse il nodo della cravatta, poi quelli delle scarpe. La guardai di soppiatto, attraverso le ciglia che nascondevano i miei occhi appena socchiusi, illuminata dall’unico raggio di luna sfuggito alle nuvole e a quelle tende leggere che avevamo montato la settimana prima, per fare entrare un po’ d’aria durante quella primavera davvero troppo calda.
Quando si voltò e vidi il suo viso, qualcosa mi si spaccò nel petto. Davanti a me c’era un’ombra fragile, sfuggente come un sogno quando ci si sveglia al mattino. Il suo sorriso era così tenero, così dolce e puro, così pieno d’amore che dovetti serrare gli occhi per trattenere le lacrime. Non li riaprii nemmeno quando se ne andò, dopo avermi coperto con una trapunta leggera.
Poteva esistere una creatura del genere al di fuori del regno di Morfeo? Anche all’interno dei suoi confini sarebbe stata qualcosa di eccezionale. Pensai addirittura che la mi mente mi avesse ingannato.
Fu così che ogni notte che arrivavo tardi, sdraiato sul divano, segretamente sveglio, aspettavo che tornasse, per catturare ancora una volta l’immagine di quel sorriso così dolce da farmi piangere.
Mia moglie, la mia Patrizia, la mia splendida, splendida regina.
 
 
 
Schiamazzi fuori dalla porta. Mi tiro su, mettendomi a sedere a gambe incrociate sul letto e allungandomi verso il comodino per infilare la foto in un cassetto. Qualcuno sta correndo lungo il corridoio. Un attimo dopo, due piccole teste brune atterrano sul letto come massi scagliati da una catapulta. Lavinia e Luca sono nel pieno di uno dei loro soliti litigi.
“Dannato! Ma perché devi sempre fare così!”
“Taci, donna! E’ colpa tua!”
“Mia!?! Razza di... bastardo!”
“Siamo gemelli, ragazza! Te lo sei dimenticato?”
Capelli marrone scuro, con riflessi color caramello, scompigliati dall’inseguimento. Gli occhi verdi di Luca mandano scintille ambrate, mentre urla scuotendo il capo. La prima volta che lo vidi, quando ancora si chiamava Lovino, credetti che Claudio fosse tornato: stesso naso, stessi lineamenti, stessa pelle; solo gli occhi avevano cambiato colore.
Lavinia, davanti a lui, affatto intimorita, cerca di incenerirlo con lo sguardo. I capelli ondulati hanno perso la piega, e privati del cerchietto, vanno da tutte le parti. Le guance si sono imporporate per la rabbia, speculari all’espressione del fratello.  Patrizia, guardala: è esattamente il tuo ritratto. Le sue sopracciglia si corrugano ulteriormente, e gli occhi brillano come gemme. Però gli occhi sono miei.
“Ohi, vecchio! Falla smettere!”
Prendo Lavinia per il colletto, allontanandola di peso dal fratello, prima che lo scanni. Parla poco e picchia molto, la piccoletta. Adesso c’e solo da capire perché sta cercando di sfigurarlo, questa volta.
“Allora, Luca, cosa ne dici di spiegarmi perché la nostra piccola regina vuole cavarti gli occhi?”
“Non è colpa mia! Stamattina...”
 
 
Fine di “la mia regina”! Spero che questo racconto abbia “riabilitato l’immagine di Romulus/Cesare!
Devo averlo già scritto da qualche parte, ma lo ripeto: che sia raccontato nel mondo di Hatalia o in questo AU, le storie corrono in parallelo. Ciò significa che, a parte modifiche ovvie (es: Romulus ha costruito un impero partendo da un villaggetto vicino al Tevere, rischiando ma, alla fine vincendo sempre; nonostante fosse sempre via a combattere, Tarquinia lo aspettava a casa, fedele; Cesare a costruito una grande compagnia – non so ancora di cosa, ma è comunque una grande compagnia – partendo dal niente, rischiando il tutto per tutto più e più volte; nonostante passasse molto tempo via, Patrizia gli è sempre stata accanto), i legami affettivi saranno gli stessi (non quelli parentali, però: non posso far uscire Lovino con suo zio, nel AU!) e capiterà che di alcune coppie ci sia una storiella a parte di come si sono conosciuti in solo uno dei due mondi!
A proposito delle coppie... Dal momento che sono mentalmente instabile, ho il piccolo problema di non sentirmi in pace con me stessa se faccio stare uno dei protagonisti con più di una persona, quindi rassegnatevi: nei miei racconti, non cambieranno. Avviso che alcune saranno davvero assurde, ma non sono fatte a casaccio. Ad esempio, nella storia in due - tre capitoli che sto scrivendo in questo periodo: “Vassilissa e il principe che non si chiama Ivan”. Non credo che nessuno li abbia mai messi insieme...
Aspettatevi davvero di tutto, soprattutto ora che ho a disposizione la bellezza di quattro italie...
  
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