A Sara.
Anche se in ritardo, tanti auguri, meraviglia.
Capitolo 4: And if life doesn't wait?
Then your heart can't take this
Have you heard the news that you're dead?»
(Dead! – My Chemical Romance)
I lampi luminosi e colorati degli incantesimi illuminavano Diagon Alley in
tutta la sua devastazione: le vetrine della maggior parte dei negozi erano
state frantumate e ridotte a piccole schegge di vetro sparse sulla strada, le
finestre dei piani superiori erano barricate, così come le porte, in modo da
non far entrare nessuno sconosciuto.
Nessuno, tra le persone con il cappuccio scuro calato sulla maschera
scheletrica, badava minimamente a chi colpiva con una maledizione:
l’importante, dopotutto, era uccidere più oppositori possibili. Così aveva
detto loro il Signore Oscuro. E quel che dice il Signore Oscuro è legge, chi lo
contrasta può star certo di non uscirne vivo.
«Dorea, scappa!».
Una donna dai capelli scuri si girò verso il proprio marito, che la guardava a
sua volta, negli occhi una muta supplica. L’uomo aveva i capelli leggermente
più scuri dei suoi, capelli che in quel momento si erano appiccicati al suo
viso sudato e sporco.
La donna scosse la testa.
«Solo se vieni con me, Charlus» disse piano, con voce rotta.
Erano lì da tanto, troppo tempo ormai, ma non si vedeva ancora nessuna squadra
di soccorso. Per quanto sarebbe andata avanti quella battaglia?
«Non posso lo sai».
Intorno a loro, qualche Mangiamorte lanciò degli incantesimi verso una casa
poco lontana, facendola esplodere. Le persone cedevano, vittime degli
incantesimi, come burattini cui vengono tagliati i fili.
«Ti prego» supplicò la donna, con gli occhi socchiusi e la voce stanca.
«Te l’ho detto, non pos—Dorea, attenta!».
Avendo gli occhi semichiusi, la donna non si era accorta di una figura
incappucciata ed ammantata in un mantello nero che si stava avvicinando
rapidamente, la bacchetta stretta in pugno e puntata dritta verso di loro.
Il braccio destro della figura si alzò e sferzò l’aria fredda di quella sera di
novembre, e solo Charlus, che era a poco più di un metro dalla donna, capì cosa
stava per succedere. Si buttò sulla moglie nello stesso momento in cui le
labbra del Mangiamorte pronunciavano l’incantesimo: «Avada Kedavra!».
La Maledizione lo colpì in pieno, poco sotto le costole. Prima di perdersi per
sempre, il volto di suo figlio e della moglie gli balenarono sotto le palpebre,
come impresse a fuoco. Poi il nulla: era morto.
Dorea urlò, mentre tutto, per lei, sembra essersi fermato. Tutto il resto le
sembrava un eco lontano mille miglia, ma non si rese conto che era il suo grido
a rimbombare vanamente tra i maghi che duellavano.
«Crucio!» gridò ancora la figura, e
un dolore lancinante costrinse le ginocchia di Dorea a cedere.
La sofferenza dovuta all’incantesimo finì e il Mangiamorte si girò, correndo
via assieme ai suoi compagni. Da dietro i suoi occhi lucidi, vide Albus Silente
farsi largo tra i rimasti.
Dorea riuscì a vedere una folta, riccia chioma scura, quando un soffio di vento
fece cadere il cappuccio al suo aggressore, prima che esso sparisse.
Si girò a pancia in su, e l’ultima cosa che vide fu un riverbero verde acido
illuminare il cielo.
Dopo gli attacchi ai danni degli studenti, le ronde dei Prefetti si erano
intensificate: ormai era difficile non vederne almeno uno controllare i
corridoi con la bacchetta stretta in pugno sotto il mantello. Le giornate
passavano lentamente, e molti erano già sotto stress.
«Prongs, cosa stai facendo?» chiese Sirius, affacciandosi da dietro la spalla
dell’amico per vedere cosa aveva di tanto importante la pergamena su cui era
piegato da tempo. L’unica cosa che riuscì a leggere fu un “È successo
qualcosa?” scritto evidentemente di fretta, prima che James rigirasse il foglio.
«Niente, niente» disse il ragazzo con gli occhiali, reprimendo malamente un
sospiro.
«Niente?» chiese Sirius, confuso. «Niente? È da due giorni che stai così. Non
ci sei con la testa, sei assente. Che hai?».
«Sono solo preoccupato per i miei: avevo scritto una lettera più di una
settimana fa, ma non mi ancora risposto nessuno. Poi papà con il lavoro di
Auror è ancora più a rischio. Probabilmente mi sto preoccupando per nulla».
Negli occhi di James, nonostante le sue parole, si poteva leggere facilmente la
preoccupazione che vi alloggiava. Sirius non l’aveva mai visto così, nemmeno
quando riceveva un ‘no’ dalla Evans.
«Magari hanno avuto da fare, non preoccuparti in questo modo. Conosci Dorea,
spesso si dimentica alcune cose» sorrise Sirius, cercando di risollevare
l’umore del migliore amico, che quel giorno sembrava essersi rifugiato sotto
terra.
«Sì, hai ragione. A volte penso proprio di essere troppo… apprensivo, forse. Tu
che ne pensi?» rise James; ma non era una risata come le altre, aveva un non so
che di cupo, di forzato. Le iridi castane erano ancora velate da una leggera
patina opaca. Sirius non volle indagare oltre nel dolore del compagno.
Lo guardò alzarsi dalla sedia e legare la lettera ad uno dei gufi della scuola,
che spiccò poi il volo, venendo così inghiottito dal buio di novembre.
Il giorno dopo, a colazione, tutta la Sala Grande poté vedere James Potter
uscire di corsa dal grande portone di quercia, una mano premuta a nascondere il
volto da occhi indiscreti.
Sirius lo guardò sparire e prese rapidamente il giornale che l’amico aveva
abbandonato sul tavolo. Lesse il primo paragrafo e un senso di inquietudine
s’impossessò di lui; solo al secondo punto scattò in piedi per seguire
l’esempio di James.
“Durante una perlustrazione a Diagon Alley,
una squadra di qualificatissimi Auror è stata attaccata da persone non ancora
bene identificate che hanno distrutto parte della via (vedi pag. 8). Dalle
nostre fonti sembra essere in pericolo di vita Edgar Bones, impiegato
ministeriale.
L’attacco ha coinvolto sedici persone, stando a quanto abbiamo scoperto.
All’arrivo della squadra di soccorso, sono stati ritrovati i corpi esamini di
Charlus Potter, noto Auror, Samuel Lewd e, poco lontano, un ragazzo sulla
ventina di cui non sappiamo ancora nulla.
«Non è nostro compito informare la stampa sullo
stato di salute dei nostri pazienti» dice la Caporeparto del San Mungo alle
nostre domande sulla moglie del signor Potter, ricoverata d’urgenza da ieri
sera. «Oltretutto, la nostra posizione ci obbliga a non dare spiegazioni a
nessuno, se non ai parenti del ricoverato in questione».
Il panico cresce nel nostro mondo, cosa dobbiamo aspettarci ancora? Attacchi
alla celebre scuola di Hogwarts?”.
In poco tempo la notizia aveva fatto il giro della scuola: Charlus Potter, uno
dei più grandi Auror del Mondo Magico, era morto.
James Potter era entrato in lutto, lo si poteva vedere dal comportamento.
Girava a testa bassa e il sorriso che di solito gli illuminava il viso non era
più presente, mancava all’appello. La felicità che quegli occhi castani
solitamente emanavano era svanita nel nulla, lasciando il posto alla –
ultimamente sempre presente – amarezza.
Anche gli altri Malandrini sembravano piuttosto distrutti dalla devastante
novità, specialmente Sirius: tutti sapevano che, da un anno a quella parte, era
solito passare le vacanze interscolastiche dai Potter; Charlus doveva essere
stato come un padre adottivo, per lui.
E poi c’era Remus, che soffriva assieme agli altri: dopotutto Charlus aveva
sempre saputo della sua licantropia, ma l’aveva sempre difeso, nonostante le
dicerie che giravano riguardo ai lupi mannari; lo aveva protetto quando altri
non l’avrebbero fatto. Era stato una specie di idolo, per Remus, e la sua morte
l’aveva sconvolto.
Anche Peter era molto abbattuto. I signori Potter erano sempre stati gentili
con lui, che spesso veniva dimenticato dai propri genitori. La perdita di
Charlus l’aveva toccato molto. Gli ultimi giorni d’estate, di solito, si
ritrovavano a casa di James per passarli assieme, e il padre dell’amico lo
aveva sempre trattato bene e con gentilezza.
In molti avevano rivolto le proprie condoglianze al giovane Potter, compresa
Lily, che aveva riposto da parte l’ascia di guerra e le divergenze – per quel
momento.
«Lils, che hai?» chiese Mary alla compagna di
banco, che stranamente aveva lo sguardo perso nel nero pece della lavagna. La
rossa alzò la testa di scatto e si girò velocemente verso l’amica, riservandole
uno sguardo confuso.
«Che cosa?».
«Che hai, Lily? È da qualche giorno che sei strana» sospirò Mary, mordendo la
fine della sua piuma.
«Strana? No, non mi pare» borbottò Lily, che poi poggiò la testa sul braccio
che teneva sul banco. «Oggi Potter non c’è, hai notato?».
Mary si girò verso gli ultimi banchi e stimò che, effettivamente, James Potter
era assente anche quel giorno. Dopo l’articolo, però, era anche relativamente
normale. Nemmeno Remus, solitamente attento ad ogni lezione, aveva gli occhi
rivolti verso il professore, perciò.
«Be’, ma scusa: dopo la morte del padre mi sarebbe sembrato più strano che
venisse a lezione. Non credi?» contestò appunto la bruna, con le sopracciglia
inarcate, arricciandosi una ciocca di capelli con un dito.
Quando si comportava così, Lily era decisamente criptica. Parlava in modo
strano, le frasi erano spesso lasciate incomplete, come se dovessero essere
completate da qualcun altro. Quel giorno, poi, continuava a muoversi
nervosamente sulla sedia, e Mary non poteva che guardarla, basita.
«Vero» mormorò appena Lily, cercando invano di concentrarsi sulla lezione di
Difesa Contro le Arti Oscure. La ragazza dai capelli rossi sospirò stancamente:
non riusciva a concentrarsi, era un dato di fatto. E dire che Difesa era una
delle sue materie preferite.
«Io continuo a credere che tu sia strana in questi giorni. Precisamente da
quando Potter ha iniziato ad isolarsi» disse Mary, abbozzando un sorriso
tirato, mentre Lily roteava gli occhi con aria un po’ scocciata.
«Che vorresti insinuare?».
«Non è che ti piace Potter?» chiese di getto, osservando con attenzione la
reazione dell’amica: le guance di Lily assunsero un’accesa tonalità di rosso,
mentre cercava di nasconderla con i capelli girandosi da un’altra parte.
«Mary, ma ti pare?» sbottò Lily, una volta ripresasi dallo shock. Insomma, a
lei non poteva piacere Potter, proprio no. Sarebbe stato strano, insano,
improbabile, impensabile, impossibile! Era un ragazzo arrogante e pieno di sé,
solo questo: non aveva altre capacità particolare – a parte il Quidditch e il
poter prendere bei voti anche senza studiare poi molto.
«Era solo una domanda, Lily. Calmati!» rise a bassa voce Mary, irritando così
il professore.
«Silenzio là infondo!».
Sicura che non ti piaccia Potter?
«Signora, come si sente?» la voce di
un’infermiera risuonò e riempì il vuoto della stanza del San Mungo dov’era
tenuta in osservazione la signora Potter.
La donna sdraiata su letto si mosse sotto le lenzuola candide, mentre un dolore
lancinante la scuoteva da capo a piedi. Fremé mormorando appena un: «Mi fa male
tutto… Che succede?». Aprì gli occhi e le apparve davanti il soffitto bianco
della stanza. La testa le scoppiava e ricordava poco o niente dell’accaduto.
L’unica cosa che, se si concentrava, riusciva a rivedere era un lampo di luce
verde ed uno rosso. Nient’altro.
«C’è stato un attacco a Diagon Alley, non si ricorda?» chiese l’infermiera,
cercando di apparire sorpresa o compassionevole e trattenendo uno sbuffo. Aveva
dei capelli biondi raccolti in una cosa bassa e dei grandi occhi castani.
Dorea scosse la testa, reprimendo un gemito per il dolore provocatole dal
movimento.
«No, niente. Dov’è mio marito?» domandò con voce roca, mentre un brivido le
percorse la spina dorsale, facendola trasalire. Non seppe perché lo fece, ma
trattenne il respiro nei polmoni finché l’infermiera non parlò.
«Mi dispiace molto, signora Potter, ma suo marito non c’è più».
Dorea spalancò gli occhi di scatto, perdendosi a contemplare il soffitto.
Charlus non c’era. Probabilmente voleva dire che era già stato dimesso e in
quel momento non c’era, che se n’era andato da poco. Sì, probabilmente voleva
dire ciò.
O almeno, così sperava la donna.
«Oh. Quando riaprono gli orari delle visite?» chiese ancora, con il respiro
mozzo.
«Domani mattina, ma suo marito non verrà: è morto» disse la bionda, abbozzando
un sorrisino che Dorea trovò decisamente fuori luogo. Quella donna le sembrava
parecchio apatica nei confronti del proprio lavoro, non c’era passione in quel
che faceva, le parole che uscivano da quelle labbra sottili non erano mai
sinceramente dispiaciute, ma sembravano dette forzatamente. Non capiva, Dorea,
perché facesse un lavoro che non le piaceva.
Lo sguardo le cadde sulla targhetta che brillava appuntata al petto
dell’infermiera e che catturava la luce che le lampade alle pareti emanavano.
Mentre archiviava il nome “Caridee Jackson”, il suo cervello realizzò solo in
quel momento che Charlus era morto, che non sarebbe andato a prenderla per
riportarla a casa, che l’avrebbe più abbracciata stretta mormorandole parole
dolci all’orecchio, che non le avrebbe mai sorriso un’altra volta.
«C-come morto?» sussurrò, stringendo convulsamente il bordo del lenzuolo che la
copriva, con gli occhi lucidi. Sembrava sul punto di piangere, e la cosa era
sorprendente, in un certo senso: era difficile vederla piangere, perché lei non
piangeva quasi mai.
«Durante l’attacco è stato colpito da un Anatema.
Non ci sono speranze» aggiunse Caridee, scuotendo impercettibilmente la testa,
mentre dei capelli biondi le sfuggivano alla coda e le ricadevano lungo il
collo chiaro.
«Non è possibile».
«Mi dispiace per lei, signora, so cosa si prova. Il mio fidanzato è… è malato,
e ho sempre paura che si possa sentire male e non farcela. Ora mi scusi, ma
devo proprio andare» così dicendo, fece per uscire, ma si girò ancora una volta
verso la paziente e disse: «Ah, ha ricevuto della lettere. Se se la sente, sul
comodino ci sono carta e penna».
Una volta sola, tra le ciglia della signora Potter si fecero largo grosse
lacrime, mentre allungava le mani verso il comodino per afferrare le buste di
carta che la donna le aveva indicato.
1 novembre 1977.
Mamma,
che è successo? Sono giorni che aspetto
una vostra risposta, ma non arriva niente. Mi sto preoccupando per voi, anche
se probabilmente Sirius ha ragione quando dice che sto facendo di un arrosto un
incendio. Però è strano non ricevere lettere da parte tua. Di solito mi
infastidisce ricevere una sgridata da te, ma ora ne sento addirittura la
mancanza.
Okay, ora vado, credo di stare impazzendo completamente.
Rispondimi in fretta, mamma, per favore.
Con affetto,
James.
Dorea strinse la lettera tra le mani per un po’, stropicciandola tutta, prima
di prendere carta e penna ed iniziare a scrivere, nonostante la stanchezza.
Dopotutto suo figlio aveva il diritto di sapere la verità.
Ma lei non sapeva che suo figlio era venuto a conoscenza della morte di Charlus
prima di lei.
«James! James, aspettami, ti devo parlare!» lo richiamò una voce femminile alle
sue spalle, costringendolo a fermarsi. Sospirò, aspettando che Mary lo
raggiungesse.
«Che c’è?».
«Lily mi ha… mi ha detto di chiederti una cosa, visto che lei aveva da fare»
disse velocemente la ragazza, con il fiato corto per colpa della corsa.
James le riservò uno guardo confuso: la Evans doveva chiedergli qualcosa?
«Lei ha un impegno venerdì» iniziò la ragazza, mordendosi il labbro inferiore:
era imbarazzante chiedergli una cosa del genere dopo così poco tempo da una
perdita talmente importante, «voleva sapere che potessi fare a cambio con lei.
Per le ronde, dico».
James sembrò turbato e si mosse nervosamente sul posto. «No, non posso, mi
dispiace». Nella sua voce non c’era rancore o altro, ma era palpabile una
leggera nota di sforzo: probabilmente per pronunciare quel ‘mi dispiace’ aveva
dovuto tirare fuori tutta la sua forza interiore. Giovedì sarebbe partito con
Sirius per Godric’s Hollow, per assistere al funerale di suo padre: ancora non
riusciva a crederci. Non aveva anche il tempo di pensare alle ronde, in quel
momento.
«James, mi dispiace molto» mormorò appena, «Insomma, per tuo padre. Non so cosa
si prova, ma non deve essere facile, né tantomeno bello».
James sorrise aspramente: no che non era facile, anzi. La mente era affollata
da ricordi che premevano per proiettarsi nei suoi occhi castani: la sua prima
volta sulla scopa; il suo primo giorno ad Hogwarts; il suo dodicesimo
compleanno, quando suo padre gli aveva regalato il Mantello dell’Invisibilità;
il giorno in cui aveva detto tutta la verità su Remus e il suo “piccolo
problema peloso”; il sabato in cui Sirius li aveva raggiunti a casa, dopo essere
scappato dalla casa d’origine. Tutti i ricordi gli perforavano la mente. Gli
occhi gli divennero lucidi, ma ricacciò indietro le lacrime.
«James, non fare così» tentennò la ragazza, e il ragazzo posò lo sguardo su di
lei. «Non devi ridurti così, no. Tu puoi superarlo e lo sai. Non abbatterti,
vai avanti a testa alta, non mostrarti fragile: sarebbe come un suicidio, di
questi tempi».
James azzardò un sorriso sbilenco e rispose, sistemandosi gli occhiali che
rischiavano di scivolargli dal naso: «Grazie, Mary».
«Ma ti pare? Comunque sai, forse dovresti parlarne anche con i tuoi amici: non
fa per niente bene tenersi tutto dentro, te lo assicuro» disse, stringendosi
nelle spalle e tornando a camminare verso la Sala Comune a passo spedito.
«Non mi tengo tutto dentro» ribatté James, che, dopo un attimo di stordimento,
aveva incrementato la velocità del passo così da far diminuire la distanza tra
loro.
«Davvero?» chiese, scettica. «io non credo che una persona – specialmente un
ragazzo – abbia molta voglia di parlare di quello che prova o della morte di un
genitore. Ma probabilmente mi sbaglio, vero?».
«No, non sbagli» ammise lui, dopo una pausa eloquente.
«Appunto. Ma vedi, sfogarsi a volte fa bene. Perché se ti tieni tutto dentro,
nel tuo cuore e nella tua testa si formerà un groviglio indistinto di pensieri
ed emozioni. E poi che succede? Semplice: a forza di fare così, ad un certo
punto, bum!, esplodi» spiegò la
ragazza, sistemandosi la tracolla piena di libri sulla spalla e guardandosi
distrattamente attorno. Il corridoio era semideserto: dopo gli ultimi
avvenimenti era raro vedere persone girare da sole per la scuola dopo le sette.
«Mh. Forse hai ragione. Dopotutto sono i miei migliori amici, non ha senso
tenergli nascosto tutto questo…».
«Lasciatelo dire: non sembri tu» ridacchiò la ragazza, sorridendo.
«Ah, no? E chi sembro?, Mocciosus, forse?».
«Ha un nome, James. Si chiama Severus» s’impuntò lei, che, sebbene non lo
sopportasse più di tanto, sapeva quanto ancora stesse a cuore a Lily: era
questo quel che più la urtava, il sapere che anche solo il soprannome
“Mocciosus” poteva farla soffrire. E lei non voleva che succedesse, perché le
voleva davvero troppo bene.
James roteò gli occhi e ribatté: «Lui è Mocciosus, un insopportabile
Serpeverde».
«Non tutti i Serpeverde sono malvagi» esclamò, sentendosi chiamata in causa:
parecchi dei suoi parenti erano stati degli studenti di quella Casa.
«No, cioè, non capisco. Dopo quel che ha fatto Mulciber, li difendi anche?»
domandò James, alzando involontariamente la voce.
Con la coda dell’occhio vide la ragazza fermarsi di colpo ed irrigidirsi. Mary
sbiancò notevolmente e spalancò gli occhi azzurri; boccheggiò, presa in
contropiede, prima di rispondere con voce tremante: «Sta’ zitto».
«Scusa – non deve essere bello, ehm, ricordare quell’episodio» farfugliò il
ragazzo, che si era dimenticato quando lei fosse sensibile all’argomento.
Mulciber era un Serpeverde del loro stesso anno, che tre anni prima le aveva
teso un agguato in biblioteca. Se non l’avesse trovata James, chissà c0sa
sarebbe potuto accadere.
«Non parlarne e basta».
«Come mai la Evans vuole fare scambio di turni, comunque?» domandò allora lui,
cercando di spostare il discorso su qualcosa di più gestibile.
«Mah. Non ho capito bene, mi pare c’entri qualcosa con Lumacorno e le sue feste
private. Io le odio» sospirò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio destro. «Ogni volta che ce n’è una cerco sempre di avere
qualcos’altro da fare».
«Lumacone e le sue feste… Io non ci sono mai andato, come sono?».
«Orribili: ci sono andata qualche volta e mi sono annoiata sempre».
Sirius stava salendo la rampa di scale che l’avrebbe fatto arrivare al settimo
piano in compagnia di Peter. Le loro borse erano cariche di schifezze di vario
genere e di bottiglie di cui si avvertiva il ripetuto tintinnio.
«Pensi che gli piacerà?» domandò ad un certo punto Peter, un po’ intimorito.
Sirius lo guardò di sottecchi e capì che la vera domanda era: «Non è che stiamo sbagliando in pieno,
vero?», ma finse di non esserci ancora arrivato e gli sorrise
incoraggiante.
«Credo di sì. E poi James adora la Burrobirra» disse, alludendo al liquido
dorato che alloggiava in alcune delle bottiglie.
Peter annuì, titubante, e Sirius lo rassicurò: «Andrà tutto bene. E ora
andiamo, che dobbiamo arrivare prima di James».
«Ce l’abbiamo fatta» esalò Peter, entrando nel dormitorio fortunatamente vuoto.
Posò la borsa sui bauli e si passò una mano sulla fronte leggermente sudata;
ringraziò Merlino che gli altri non fossero ancora rientrati, perché sennò
sarebbe stata una fatica sprecata.
Sirius sospirò, soddisfatto. «Controlli sulla Mappa dov’è James?» chiese,
buttandosi sul letto ancora sfatto.
«Okay» annuì, aprendo il cassetto del comodino di James. Ne tirò fuori la Mappa
del Malandrino e l’aprì, scrutando poi con attenzione i cartigli e cercando il
nome del loro amico.
«È al sesto piano con Mary» lo informò e gli porse la pergamena incantata.
«E che ci fa con lei?» domandò Sirius, sorpreso.
«Ah, boh. Staranno tornando in Sala Comune assieme, dopotutto vanno d’accordo»
rispose Wormtail, stringendosi nelle spalle.
Sirius annuì, pensieroso, con le labbra corrucciate.
«Cos’è tutta questa roba?» chiese Frank, entrando in stanza insieme a Remus,
che scosse la testa, rassegnato, come se già sapesse dove volevano andare a
parare gli altri due.
«È per Prongs, così magari riusciamo anche a tirargli un po’ su il morale!»
esclamò Sirius, mettendosi a sedere.
I due nuovo arrivati si guardarono un attimo, interdetti, prima di abbozzare un
sorrisetto.
«Mi sembra una buona idea» disse piano Frank.
«Ma forse è un po’ presto…» mormorò Remus, confuso. Come avrebbe reagito James?
Lo conoscevano da sette anni, ma in quegli ultimi giorni era diventato sempre
più scostante e lontano.
Peter ebbe un tremito e Sirius, per quanto volle nasconderlo anche a se stesso,
sentì il respiro mozzarsi in gola: era proprio di quello che avevano paura.
James avrebbe potuto benissimo sbottare loro contro ed uscire dalla stanza di
corsa, incurante dei richiami che sarebbero sicuramente usciti dalle labbra
degli altri.
Sirius nascose ogni paura e rispose: «Non credo… E poi cosa c’è, non ti fidi
più di noi?».
«Ma che dici, certo che mi fido!» ribatté Remus, perplesso, sciogliendosi il
nodo della cravatta e posando quest’ultima sul comodino.
«Non è che mi tradisci, vero, Sirius?» domandò James entrando in camera con
passo quasi strascicato; aveva un tono stanco e spossato e gli altri non sanno
cosa fare. Perché James, sotto sotto, era sensibile, e per quanto volesse
nasconderlo rimaneva tale.
«Ma cosa dici! Non potrei mai!».
«Okay, abbiamo finito con questa storia?» chiese Frank, che poi indicò la
scorta di Sirius e Peter.
James puntò lo sguardo dove puntava il dito l’amico e piegò le labbra in un
pigro e laconico sorriso stiracchiato. «Ragazzi, grazie, ma…».
«Niente ma, Prongs, o ti mordo» lo avvisò Sirius, facendo ridacchiare Peter e
Remus.
James gli sorrise, grato, ma rimase ancora fermo. Poi Frank prese in mano una
bottiglia di Burrobirra e gliela passò; Potter lo guardò, titubante, per poi
aprirla con un ‘top’ che risuonò per la camera. La avvicinò alle labbra e
iniziò a bere, prima piano e poi più velocemente – voleva solo dimenticare
almeno per una notte, non chiedeva di più. Smetterla di bagnare il cuscino di
notte, nascosto dietro le tirate tende scarlatte che usava per coprirsi agli
occhi dei compagni; voleva solo passare una
notte senza pensare a niente.
Qualcosa continuava a battere contro il vetro della finestra chiusa e dalle
cortine ancora aperte, che lasciavano perciò filtrare pallidi raggi di un sole
di inizio novembre. Peter strizzò un occhio, perplesso, cercando di mettere a
fuoco l’animale dietro la finestra. Si alzò dal letto e si mosse, a piedi
scalzi, verso di essa; la aprì e corrugò la fronte quando si trovò di fronte ad
un gufo piccolo e tutto arruffato.
«E tu chi sei?» chiese con voce assonnata, ancora troppo stanco per ricordarsi
che quello era un gufo e che non poteva né capirlo né rispondergli.
«Worm, ma con chi diavolo stai parlando?» borbottò la voce di James, attutita
dal cuscino in cui aveva tuffato il viso. I capelli neri erano sparsi su tutto
il guanciale, come un’aureola scusa su un qualcosa di candido; gli occhi aperti
a fatica, perché il tessuto del cuscino li infastidivano tremendamente.
Peter si strinse nelle spalle, ma, guardando finalmente la grafia – tremante –
sulla busta capì subito di chi si trattava: Dorea aveva finalmente risposto a
James, che in quel momento lo guardava con la faccia assonnata ma gli occhi
ancora cerchiati da profonde occhiaie. Dentro di sé, Peter volle solo trovare
un modo per aiutarlo, per non farlo stare così male, per non farlo soffrire,
per farlo sorridere e fargli capire che lui ci sarebbe stato, che sarebbe
sempre rimasto.
«James, è tua madre…» rispose appena, non sapendo bene cos’altro aggiungere.
Guardò le labbra rosse di James che si assottigliavano in una linea dritta e
che faceva male. Faceva male solo a guardarlo in viso, perché il dolore e la
preoccupazioni erano ben visibili negli occhi scuri ed era orribile sentirsi
tanto impotenti davanti a qualcosa di tanto grande.
E noi non siamo grandi, noi siamo
piccoli. Siamo piccole pedine in una scacchiera che risulterà sempre troppo
grande, anche vista da sopra un aereo – pensò confusamente Peter, che porse
la lettera a James, mentre la testa di Frank faceva capolino dalle coperte
vermiglie di uno dei letti.
«Che succede?».
«Che giorno è?» domandò James, impallidendo visibilmente.
Non può essere già il quattro novembre.
No, no – continuava a ripetersi in testa, scuotendo di tanto in tanto la
testa. Ieri che giorno era? Oh, cazzo. Il
tre… No, no.
James corse verso il letto di Sirius e strattonò con forza le coperte,
scoprendo un Sirius Black sdraiato a pancia in sotto, la testa sul cuscino, un
braccio penzoloni e un’espressione beata in viso. Espressione che,
naturalmente, venne prontamente sostituita da una smorfia per il freddo e la
scocciatura.
«Ma che…?» chiese, borbottando. «Lasciatemi dormire, villici» continuò e
nascose il viso con il cuscino.
«Merlino, alzati, Sirius!» sbottò James, che sembrava aver riacquistato
vitalità, finalmente, dopo quasi una settimana. «Mamma ci aspetta per l’ora di
pranzo e noi non abbiamo nemmeno messo le cose in una borsa! Per Morgana,
alzati o ti calpesto».
«Pf» bofonchiò Sirius, mentre Peter sorrideva appena e si sedeva per sbaglio
sulla mano destra di Remus, facendo sobbalzare quest’ultimo. «Va bene, ma dimmi
che ore sono, plebeo».
James piegò appena le labbra nel principio di un pigro sorriso: perché Sirius
non aveva tatto, ma in certi momenti, forse, era l’unica cosa di cui James
aveva bisogno. E Sirius faceva bene, perché non pensava mai tanto a quello che
faceva, ma lo faceva e basta, e finiva con il far ridere la gente e far
dimenticare i problemi.
«Sono le dieci e mezza passate, mia regina» gli rispose per le rime James,
frattanto che Jack si alzava e ruzzolava a terra per mancanza di equilibrio.
Poi prese uno zaino da sotto il letto – era sempre stato un mago piuttosto
disordinato – e iniziò a ficcarvi dentro le cose che pensava gli sarebbero
tornate utili.
«Merda…» si lamentò Sirius, alzandosi di malavoglia e seguendo l’esempio
dell’amico. Remus, individuando un paio di boxer blu dell’amico sulla lampada,
li prese, li appallottolò e poi glieli lanciò, beccandolo sulla guancia. «Moony!
Non mettertici pure tu!» sbottò, ma in realtà rideva come un bambino
sinceramente divertito. E lo era – Sirius era, in fondo, un bambino troppo
cresciuto: con quel sorriso allegro e quel carattere lunatico che tendeva
facilmente al capriccioso.
«Avete ancora due ore, state calmi» ricordò Peter, buttandosi di nuovo sul
letto a peso morto. Sirius si sedette sul letto e annuì, e fece per stendersi,
quando James urlò:
«Ma che stai facendo? Non abbiamo tempo! Muoviti!».
«Certo, certo… Un momento: come sai che dobbiamo andare da Dorea?». James uscì
rapidamente dal bagno, dov’era entrato poco prima per afferrare dello shampoo
d’emergenza, e gli indicò il comodino: c’erano due lettere, probabilmente una
era quella appena arrivata.
Sirius ne prese una a caso.
San
Mungo, 3 novembre 1977.
Jamie,
io sto bene, ma non posso dire lo
stesso di tuo padre. Mi fa male dirtelo così, preferirei farlo faccia a faccia,
ma purtroppo dovrò accontentarmi: tuo padre è morto, James. Lo so che sarà uno
shock, lo è stato anche per me, ma dobbiamo restare forti lo stesso. È quello
che vorrebbe.
Domani ti manderanno a casa. Mi farebbe piacere che tu e Sirius veniste a
trovarmi. Ho già chiesto a Silente, ed ha acconsentito. Mi mancate.
Vi aspetto per mezzogiorno,
La vostra mamma.
Si era firmata la vostra mamma.
Lo faceva spesso, ma per Sirius era sempre importante leggerlo. I signori
Potter lo avevano accolto a casa subito, quando era scappato da Grimmauld Place
numero 12, lo avevano trattato come un figlio senza mai chiedere niente in
cambio. Non avevano fatto domande, quando avevano visto la fine di un taglio
che s’intravedeva dalla manica della maglietta che indossava quel giorno
d’estate, sebbene Sirius ricordava di aver visto le labbra di Charlus tremare
forte. I signori Potter erano stati i genitori che non aveva mai avuto, non
poteva lasciare da solo la mamma.
Quando bussarono alla porta del suo ufficio, la McGranitt si alzò dalla sedia
con la solita compostezza ed andò ad aprire. Davanti a lei, fuori dalla porta,
James e Sirius si tenevano la pancia. Avevano il fiato corto – non ci volle
molto a capire che avevano corso per evitare il ritardo.
Minerva sorrise e disse: «Bene, venite», e si avviò di nuovo verso la
scrivania, mentre uno dei due ragazzi si chiudeva la porta alle spalle. Aprì un
cassetto e ne tirò fuori un barattolo pieno di polvere. Lo scoperchiò e fece
scivolare un po’ di polvere nei palmi aperti di entrambi i ragazzi, che poi si
avvicinarono al camino di pietra liscia.
«Grazie» sorrise appena James, guardando il camino: tra poco sarebbe tornato a
casa, ma sarebbe mancato un abbraccio, sarebbe mancato qualcuno, sarebbe
mancata una parte di lui. Sentì una stretta alla bocca dello stomaco e subito
dopo il bisogno di sbattere le palpebre.
«Non mi ringrazi, signor Potter. In queste circostanze non potevo negarvelo»
disse, seria, mentre Sirius faceva cenno a James di entrare nel camino.
«Casa Potter, Godric’s Hollow!» esclamò, buttando la polvere a terra, subito
prima di scomparire in un turbinio di fiamme verdi smeraldo che si spensero
solo dopo un po’, quando, ormai, all’interno del camino non v’era più nessuno.
Sirius imitò l’amico e poco dopo la professoressa si lasciò cadere sulla sedia
davanti alla scrivania, esausta. Quei ragazzi, così giovani, stavano già
soffrendo per la guerra.
La signora Potter era seduta sul divano del soggiorno del numero 64 di Godric’s
Hollow. Aspettava i due ragazzi, i suoi due figli. Quello stesso giorno era
stata dimessa dal San Mungo ed era tornata a casa, rifiutando l’aiuto offertole
dalla cara Batildha e preferendo far tornare James e Sirius anche solo per
sentirli lì, sentirli vicini, durante il funerale di Charlus.
E mentre sospirava con una mano tra i capelli scuri e lanciava occhiate all’orologio,
delle fiamme verdi illuminarono parte della stanza e dal camino uscì un ragazzo
dai capelli scuri quanto quelli della donna solo che ricoperti di fuliggine e
gli occhiali storti sul naso. Subito dopo, comparve un secondo ragazzo, con i
capelli forse un po’ troppo lunghi ed un sorriso storto volto a Dorea.
«Mamma!» esclamò James, non appena la vide. Dorea fece per aprire la bocca, ma
le braccia del figlio l’avevano già circondata e se ne stette in silenzio con
gli occhi lucidi – ha i tuoi occhi,
Charlus. «Mamma, come stai?».
«Male» rispose sinceramente lei, quando il figlio si allontanò. «Perché stai
lì, Sirius? Vieni qui immediatamente, sei parte della famiglia» aggiunse poi,
sforzandosi di apparire perentoria e allegra come al solito, ma invano, all’altro
ragazzo. Questo la guardò mestamente, prima di sorriderle appena e avvicinarsi
per abbracciarla.
«Salve, signora Potter» sussurrò piano. «Mi dispiace molto».
Lei lo guardò storto, prima di accennare un sorriso: «Quante volte dovrò dirti
ancora che mi devi chiamare Dorea?».
«Non lo so, signora Potter» rispose, forse solo per farla sorridere davvero. James,
in quel momento, lo amò davvero.
«Mmh…» la donna lo guardò storto, mentre il figlio si scambiava uno sguardo con
l’amico. «Per questa volta passi… Ora andate a posare le borse nelle vostre
camere, su! E riposatevi, è stato un viaggio lungo».
«In realtà ci abbiamo messo tre secondi» disse James, perplesso e sorridendo
davvero. Ad uno sguardo della madre, aggiunse: «Ma vabbe’. Andiamo».
Sirius annuì e lo seguì per le scale, lo zaino sulla spalla destra. Sulla
parete erano appese delle foto e anche due quadri grandi, forse per occupare un
po’ lo spazio. Sirius, mentre saliva anche l’ultimo scalino, pensò per la
milionesima volta a quanto quella casa fosse piena – di vita, d’amore, d’affetto, di famiglia –, e a quanto il
numero dodici di Grimmauld Place fosse diverso da essa.
«Ci vediamo tra poco, Pad» lo salutò James, continuando a camminare fino all’ultima
stanza del corridoio, mentre l’amico si fermava di fronte alla seconda.
«D’accordo» annuì Sirius, sorridendogli ed entrando poi nella camera degli
ospiti – ormai denominata da Dorea ‘la camera di Sirius’.
Non era una stanza molto grande: c’era un letto dalle lenzuola azzurre proprio
sotto la finestra che dava sulla strada babbana, un comodino di mogano con
sopra un lume spento ed un orologio, il solito cassettone vicino alla porta con
un vaso sopra, la scrivania piena di fogli ordinati in pile e, su una parete,
uno stendardo di Grifondoro.
Tirò fuori dal vecchio zaino nero e malandato i vestiti che aveva portato da
Hogwarts e spostò il vaso sul cassettone, così da far posto ai propri effetti
personali – sarebbe stato lì due giorni, non gli andava di mettere tutto a
posto. In fondo non aveva nemmeno portato tante cose: l’abito da cerimonia per
il funerale, tre paia di boxer – tra cui quello con i Boccini ricamati sopra
che gli aveva regalato Charlus l’anno prima – ed il cambio.
Si avvicinò alla finestra e si sedette sul letto per guardare fuori dalla
finestra – c’era un gruppo di Babbani che giocavano a palla e delle ragazze che
ridevano e li indicavano con malizia.
Beati loro, che non sanno niente.
Si stese sulle coperte, i capelli che si spargevano sul guanciale morbido, e
rimase così, a guardare il soffitto, finché la porta non si aprì di nuovo per
far passare James.
«Io ho finito di sistemarmi, e tu?»
domandò, guardando con un sopracciglio inarcato i vestiti abbandonati sulla
mobilia.
«Idem» rispose Sirius, ignorando bellamente l’occhiata di James molto simile ad
un “questo ti sembra mettere a posto?”. «Scendiamo?»
«Sì, è ora di pranzo e scommetto che la mamma ha cucinato tutta la mattinata
per… sai… non pensare» rispose, passandosi una mano sul viso e poi – perché era
una cosa naturale, e ormai nemmeno si accorgeva di farlo – tra i capelli neri.
L’amico lo guardò mestamente prima di annuire ancora e uscire dalla porta con
James dietro.
In salotto, la signora Potter ingannava il tempo – ed i suoi pensieri –
leggendo il giornale del giorno. Le labbra erano stese in una smorfia, ma
quando i due ragazzi entrarono si sforzò di sorride sul serio.
«Vi siete già sistemati?»
«Non avevamo così da tanto da sistemare, mamma…» le ricordò il figlio, con più
tatto possibile. «Non restiamo tanto, lo sai: rimaniamo solo per il weekend».
«Oh, sì, giusto. Giusto» sorrise ancora lei, e sia a James che a Sirius si
strinse il cuore. «Scusate, ma ultimamente mi scordo le cose… Vabbe’. Andiamo
in cucina? »
Mentre andavano in cucina, Sirius afferrò La
Gazzetta che stava leggendo Dorea poco prima e lanciò uno sguardo di
sfuggita alla copertina, per poi posare il giornale sul tavolo già
apparecchiato.
«C’è scritto qualcosa?» chiese James, sospettoso, mentre si sedevano.
«Ovvio che c’è scritto qualcosa, Prongs» ghignò Sirius, aprendo ad una pagina a
caso, mentre Dorea gli metteva nel piatto della carne.
James lo guardò storto. «Che gran battuta, Paddy»
lo riprese, usando uno dei tanti vezzeggiativi odiati da Sirius. «Comunque
intendevo…»
«Capito» ringhiò l’altro, infastidito dal nomignolo. «Aspetta… Mmh… No,
stranamente niente attacchi tra ieri ed oggi».
«Mary?» la chiamò Lily, intenta a sfogliare una delle tante riviste di Miriam.
«Sì?»
«Stai bene?» le domandò ancora, con fare apprensivo.
Mary sospirò e si distese sul letto, i piedi sul cuscino e la testa dall’altra
parte, passandosi una mano tra i capelli castani. «E tu?» le chiese di rimando.
Lily lanciò uno sguardo al calendario appeso vicino alla porta e non rispose.
4 novembre – funerale.
Il funerale era stato celebrato nella piccola chiesa del paese, e furono molte
le persone che vi assistirono – molti di loro, infatti, James non li aveva mai
nemmeno visti, infatti era d’accordo sulla madre sul fatto che sarebbero potuti
essere benissimo dei colleghi di suo padre. Avevano tutti rivolto le loro
condoglianze alla famiglia, prima di andare via, mentre in pochi restarono con
loro fino alla fine, assistendo così anche alla sepoltura.
Dorea aveva pianto, stretta tra le braccia del figlio, e Sirius, lì accanto,
non si era sentito fuori posto come invece aveva immaginato sarebbe successo.
Era venuto anche Alastor Moody, e, con grande sorpresa dei ragazzi, era rimasto
anche dopo. La signora Potter aveva spiegato loro che avevano frequentato
Hogwarts insieme, che erano amici di vecchia data, ma che poi, con il lavoro e
tutto il resto, avevano perso un po’ i contatti.
«Grazie della birra, Dorea» disse Malocchio, mentre camminava nell’atrio di
casa Potter per tornare alla propria.
«Figurati, Alastor» sorrise la donna, accompagnandolo. «E’ stato un piacere. È stato
bello passare del tempo con un amico, vienimi a trovare più spesso, se vuoi».
«Volentieri, ma ora devo andare: Barty mi ha convocato per non so cosa, e
sappiamo entrambi quando gli diano fastidio i ritardi» disse con voce roca,
appoggiandosi al bastone di legno e roteando gli occhi chiari.
«Ah, il vecchio Crouch… Ha un figlio, vero?».
«Già. Quel povero Cristo dovrebbe avere uno o due anni in meno di tuo figlio,
Dor».
«In effetti a scuola c’è uno che fa di cognome Crouch!» s’intromise James, non
capendo cosa c’entrasse il ragazzino biondo e lentigginoso di Hogwarts con il
discorso dei due adulti.
«Ecco. Be’,» sospirò, mentre Dorea gli apriva la porta di casa, «mi dispiace,
ma devo proprio andare. Ci vediamo, Dor. Spero di vedervi ai corsi per Auror
del prossimo anno, allora, ragazzi».
«Non sapevo conoscessi Malocchio, mamma» commentò James, quando la porta si
chiuse alle spalle dell’uomo. «Come mai non me ne avete mai parlato – né tu, né
papà?».
«Eh? Oh, te l’ho detto: eravamo compagni di scuola ad Hogwarts. Anche Alphard,
tuo zio, Sirius, era a scuola con noi».
«Mio zio?» chiese Sirius, aggrottando le sopracciglia, sorpreso e confuso allo
stesso tempo.
«Già» gli sorrise. «Non lo sapevi? Dopotutto siamo parenti».
«Sì, solo che non avevo mai fatto il collegamento… E non sapevo che fossi una
Black, non mi pare di aver mai visto il su-tuo nome sull’arazzo» disse Sirius,
evitando di ricevere un’altra ramanzina sul fatto che doveva darle del tu e non
del lei.
«Forse mi hanno cancellata» rifletté Dorea, concentrandosi. «Sapete, io mi
sarei dovuta sposare con Theodor Burke, era tutto combinato, ma poi ad Hogwarts
conobbi Charlus e successivamente mandai a monte tutto. La cosa non era poi
tanto importante, inizialmente: dopotutto Charlus era un Purosangue, il che
voleva dire che il sangue sarebbe rimasto puro. Ma poi, con i primi contrasti
contro i Babbani, è cambiato tutto. I Potter si schierarono dalla parte opposta
a quella dei Black, e i miei lo presero come uno smacco alla Casata. Ma è
accaduto tutto prima della nascita di James… qualche anno, mi pare».
«Insomma, racconta lentamente le storie, Dorea!» scherzò Sirius, alludendo alla
velocità e la poca cura dei dettagli con cui la donna aveva raccontato la
propria storia.
La signora Potter storse un po’ il naso: «Non mi piace parlare del mio passato.
E poi è tardi, voi dovete andare a dormire» liquidò il discorso con un tono che
non ammetteva repliche, sorridendo subito dopo solo per tranquillizzarli di non
sapeva neanche lei cosa.
«D’accordo, d’accordo» borbottò James, dando un bacio sulla guancia della madre
e fermarsi davanti alle scale per aspettare che l’amico lo raggiungesse.
«Buonanotte, ragazzi».
«Notte!»
E mentre guardava i ragazzi salire, Dorea pensò al sorriso di Charlus e al suo
probabile «Giorno!» detto solo per farla ridere.i
Uccidiamo l’autrice, yeeeeee. No, serio, vi prego, risparmiatemi! Ho anche il
capitolo cinque già pronto, non potete uccidermi così… u_u
Comunque. Che ve ne pare? A me qualche scena non fa impazzire – e mi dispiace
da morire per Charlus ç_ç –, ma il capitolo era nato così e doveva finire così.
Diciamo che è stato un passaggio un po’ obbligatorio: niente morte di Charlus,
niente Lily/James. Giààà. Tranquilli che al dodicesimo capitolo avremo tutto
più chiaro – si spera!
Ora, ho qualche appunto **
*Malocchio, ora come ora, ha ancora
tutti e due gli occhi. Non è molto rilevante, ma vabbeeee’.
*La scritta “4 novembre – funerale” credo si sia capita: si riferisce al
funerale di Charlus *Capitan Ovvio è in città*. Fate che Mary o Lily ne abbiano
parlato con Remus. u_u
Il prossimo capitolo lo posterò il 15 marzo.
E ora… TANTI AUGURI, SARA. ♥
*Scappa e torna a studiare*