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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    05/03/2012    6 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

Can you imagine a time when the truth ran free,

The birth of a song and the death of a dream?

Closer to the edge.

This never ending story, paid for with pride and fate,

We all fall short of glory

Closer to the edge.

30 Seconds To Mars - Closer To The Edge

03. I’m not an equilibrist

Edward è sempre stato un patito dell’ordine e della precisione. Ricordavo ancora il modo in cui tendeva ad organizzare ogni singola uscita, l’attenzione che dedicava ai particolari; chiariamoci, però: era preciso, ma non ossessionato; ovvero, quando capitava di non rispettare il programma stilato non dava di matto, non iniziava a sbraitare per non aver seguito i piani. Anzi, a volte era lui stesso a cambiare di punto in bianco decisione. Era una persona che gestiva ogni evento al meglio e che coglieva le occasioni al volo, si poteva dire.

Per questo non mi sorpresi di trovare il fascicolo che raccoglieva il viaggio che avevamo appena intrapreso in perfetto ordine: aveva suddiviso la strada negli otto Stati che attraversava, e per ognuno di essi aveva creato delle tabelle con le distanze in miglia, riportando le città più importanti che avremmo visitato e le loro attrazioni.

«Wow», esclamai, sfogliando il quaderno, affascinata da nomi di luoghi ancora lontani. «Hai fatto tutto questo lavoro da solo?»

Edward aveva lo sguardo puntato sulla strada davanti a noi, e scosse leggermente il capo. «Esme mi ha dato una mano. Ah, a proposito», aggrottò le sopracciglia, e infilò la mano sinistra nel portaoggetti della sua portiera, «ha preparato anche questo». Estrasse un altro quaderno rilegato a spirale, e me lo tese.

Lo presi, e sulla copertina lessi il titolo stampato: “National Parks of the United States”.

«Se vuoi possiamo fare qualche deviazione per andare a vederne qualcuno durante il viaggio, se non sono troppo distanti dalla Route», propose.

Sorrisi, e aprii il fascicolo. «Per me va bene. È una bellissima idea».

Nella prima pagina Esme aveva inserito un ricco indice per ogni Stato d’America, ognuno con i parchi che ospitava. Alcuni Stati non avevano alcun parco, e notai con dispiacere che la maggior parte di essi facevano parte di quelli che avremmo attraversato nella prima parte del viaggio.

Riposi con cura la guida dei parchi nel vano portaoggetti davanti a me, e solo in quel momento scorsi il libro nascosto sotto la coltre di cartine geografiche di cui Edward si era munito prima di partire.

Inarcai un sopracciglio, fissando confusa ed incredula la copertina del libro che avevo fra le mani. «“Sulla strada”?», lessi. «Stai scherzando?»

Edward scosse la testa, tamburellando le dita sul cruscotto, a ritmo della musica che suonava dalla radio accesa. Le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Quel libro è una Bibbia per questo genere di viaggi. Non potevo non portarlo».

Alzai gli occhi al cielo, lo riposi e al suo posto presi il mio quaderno bianco. L’avevo portato da casa con l’intenzione di usarlo come diario di viaggio, ma fino a quel momento non avevo ancora scritto nulla, nemmeno il mio nome sulla prima pagina. Incastrai il quaderno delle indicazioni stradali al mio fianco, dopo aver controllato che prima di un cambio di rotta mancavano ancora parecchie miglia, e iniziai ad appuntare i pochi avvenimenti di quella mattina.

Lasciai lo spazio per poter incollare le foto - speravo di trovare in qualche supermercato una di quelle macchinette che stampavano anche cento foto nel giro di mezz’ora - e sotto riportai una breve descrizione di ciò che avevo visto. Appuntai anche qualche informazione sullo Stato dell’Illinois, decidendo di fare lo stesso con ogni Stato che avremmo attraversato.

Edward guidava rilassato, tamburellando di tanto in tanto le dita contro il cruscotto a ritmo di musica, facendo qua e là qualche commento sulla strada danneggiata e poco curata, ma nel complesso non parlammo molto. I miei occhi seguivano il percorso della Route 66, osservando la superstrada che correva accanto a noi, trafficata e rumorosa.

L’asfalto della Strada Madre era rovinato. Le crepe erano state risanate alla bell’e meglio, e le banchine erano sdrucciolevoli, con pezzi di asfalto spezzati che si confondevano con la terra asciutta. Ogni tanto incrociavamo qualche auto, ma in totale i nostri incontri non avevano superato la decina.

Impiegammo quasi due ore per raggiungere la nostra prima tappa. Si trattava di una piccola stazione di servizio ormai in disuso, ma ristrutturata recentemente dalla cittadina di O’Dell. Era una delle vecchie Oil Station, un vero simbolo della Route 66. Non ci fermammo a lungo: giusto il tempo di scattare qualche fotografia e per Edward di sgranchirsi le gambe, poi ripartimmo alla volta di Pontiac, dove avremmo visitato uno dei più grandi musei dedicati alla Strada Madre. Sebbene vivessi in Illinois da quasi dieci anni ormai - mi ero trasferita all’età di diciotto anni per frequentare il college, e avevo lasciato mio padre nello Stato di Washington, a Forks -, non avevo mai girato più di tanto lo Stato; al di là della zona di Chicago non potevo dire di conoscere molto di quel posto, quindi per me ogni luogo era nuovo.

Raggiungere Pontiac non richiese molto tempo, e trovammo il museo lungo la strada, evidenziato dagli altri edifici per le sue mattonelle rosse in vista, e un piccolo cartello verticale con la targa della Route 66 che spiccava sui colori accesi del luogo. Era ancora mattino presto, e mi stupii nel constatare che la città sembrava deserta, così come la via che avevamo appena percorso; avevo ragione a pensare che la strada stesse davvero cadendo nel dimenticatoio, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi cittadini per riportarla all’antico splendore.

Quando varcammo le porte del museo ci accolse la musica country, che risuonava a basso volume da un vecchio juke-box in fondo alla sala, completamente arredata con vecchie pompe di benzina rosse e blu e un bancone a bandiera a scacchi. Dietro di esso c’era un signorotto sulla sessantina, dalla corporatura robusta e la barba bianca che copriva la maggior parte del suo viso. Il viso gentile si aprì in un sorriso radioso non appena ci vide avvicinare, e si alzò dalla sedia su cui si trovava per venirci incontro.

«Buongiorno, ragazzi! Siete qui per visitare il museo?», ci chiese, e in qualche modo, forse dalla sua domanda quasi priva di speranza, o dalla sua espressione che divenne ancora più radiosa appena Edward gli rispose che sì, avevamo intenzione di fermarci a visitare il posto, capii che neanche per il museo i visitatori erano molto frequenti. Mi chiesi quante volte quell’uomo dovesse sentire la gente rispondergli che non era lì per visitare il museo ma solo per farsi dare indicazioni stradali dopo essersi persi, magari per raggiungere la superstrada; probabilmente troppe.

Dopo aver pagato il nostro ingresso, Edward ed io iniziammo a girare per le sale, arredate con vecchie targhe originali, indicazioni stradali arrugginite e ormai inutili, riproduzioni di stazioni di servizio e di locali che un tempo animavano la strada e accoglievano i viaggiatori. C’era perfino la ricostruzione di una vecchia camera d’albergo ad ore, e in una stanza buia c’erano alcune vecchie insegne al neon, che proiettavano le loro luci colorate sui muri e il pavimento. Immaginai per un secondo la vecchia Route 66 nel cuore della notte, buia e non illuminata per lunghi tratti di miglia, che improvvisamente si rischiarava alla luce delle insegne di motel, locali e stazioni di servizio, e che come un arcobaleno dopo la pioggia portava sollievo nei cuori dei viaggiatori esausti e sperduti. Ero pronta a scommettere che il novanta per cento dei negozi non accendeva più l’insegna da anni, ormai, vista la decadenza della strada.

La visita terminava in una sala esposizioni in cui si trovava uno dei vecchi furgoncini della Volkswagen, circondato da mura ricoperte da fotografie - alcune in bianco e nero, altre a colori - che ritraevano volti sconosciuti, ma con un unico grande denominatore comune: la Route 66. Tutte quelle persone avevano fatto il loro viaggio lungo la strada, alcuni a bordo delle famose motociclette Harley-Davidson, altri con un modello del furgoncino lì presente, altri ancora con le loro semplici auto. La strada alle loro spalle era quella di Pontiac, davanti al museo. E, circondate da tutte queste fotografie, c’erano due cartine: una ritraeva la Route 66 da Chicago a Santa Monica, l’altra il tratto che attraversava l’Illinois.

«Secondo te quanti giorni impiegheremo ad arrivare in fondo?», chiesi ad Edward, notando che il tratto di strada compiuto fino a quel momento non era altro che un minuscolo trattino; non eravamo neanche a metà strada per arrivare nel Missouri.

«Dipende da quanto tempo ci fermeremo in altri posti… potremmo impiegarci una settimana così come potremmo arrivare a Santa Monica fra un mese, se non di più», rispose, con un sorriso divertito. Sembrava non essere minimamente interessato a tornare a Chicago, anzi.

«Scusate se mi permetto…», disse all’improvviso una voce alle nostre spalle, facendoci voltare. Era il signore che avevamo incontrato all’ingresso e ci aveva fatto i biglietti. «Mi pare di avere capito che volete fare il giro della Strada Madre».

Edward annuì, e gli sorrise. «Siamo partiti questa mattina da Chicago».

Il sorriso dell’uomo illuminò il suo viso, e per un momento sembrò più giovane di dieci anni. «Una fuga romantica, eh?»

Il mio viso si fece paonazzo, e risposi immediatamente con un piccato «No!», che fece aggrottare la fronte all’uomo di fronte a noi.

Edward si schiarì la voce. «Non esattamente», disse, con tono calmo, totalmente contrastante con quello usato poco prima da me. «Siamo amici. Abbiamo solo bisogno entrambi di cambiare aria per un po’».

Lui fece un cenno di assenso col capo, e lasciò cadere il discorso. «Posso chiedervi se vi andrebbe di fare una foto per la nostra galleria dei ricordi?», ci chiese, indicando con un cenno della mano i muri costellati di fotografie alle nostre spalle.

Alla nostra espressione confusa e indecisa, aggiunse: «Sapete, al giorno d’oggi sono pochi i viaggiatori che decidono di partire per la Route 66, e abbiamo sempre avuto la tradizione di fotografare chi decideva di partire. Sarebbe bello poter arricchire la collezione con volti nuovi e giovani».

Edward mi guardò per un istante, in attesa di un mio parere.

«Per me non c’è problema», dissi, scrollando leggermente le spalle.

Edward sorrise, e si voltò verso l’uomo, che appena capì che avevamo accettato la sua proposta sorrise apertamente, e ci condusse all’esterno del museo, armato di macchina fotografica. Fece posizionare me ed Edward con alle spalle la Route 66, affiancati da un cartello stradale, proprio come tutte le altre persone nelle fotografie della galleria.

Per un momento mi chiesi in che posa dovevamo metterci. Era una domanda stupida, perché sicuramente nessuna delle persone che conoscevo avrebbero mai visto quella foto, quindi potevo tranquillamente uscire in qualsiasi posizione. Guardai Edward, al mio fianco, che sembrava tranquillo come suo solito: aveva le braccia distese lungo i fianchi, con una mano infilata nella tasca dei jeans.

«Pronti?», ci chiese il signore, portandosi la macchina fotografica davanti al viso.

Mi immobilizzai, arrendendomi al fatto che probabilmente sarei stata ritratta rigida come un palo della luce. Poi Edward fece una cosa che non mi aspettavo: passò un braccio dietro la mia schiena e posò la mano sul mio fianco, accostandosi a me. Il tempo di realizzare la sua vicinanza e la fotografia era stata scattata. Si allontanò appena l’uomo abbassò la macchina, sorridendoci e dandoci conferma dello scatto.

Edward gli andò incontro con un sorriso, gli strinse la mano, e accettò i suoi ringraziamenti per aver acconsentito a farsi fotografare per la collezione. Mi avvicinai anch’io, accettando la sua mano e salutandolo.

Poi seguii Edward fino alla nostra jeep.

Stavo per chiedergli perché avesse cercato di avvicinarmi così all’improvviso, ma lui mi anticipò: «Riesci a resistere ancora un’ora prima di mangiare? C’è un posto di cui ho sentito parlare che mi piacerebbe provare per pranzare, ma ci vuole un po’ per raggiungerlo e ci sono un paio di cose da vedere per strada».

Guardai l’ora: era l’una del pomeriggio.

«Va bene, andiamo», tagliai corto, salendo in auto, dove venni accolta dal caldo soffocante di aria chiusa e bollente.

Appena Edward mise in moto abbassai il finestrino, lasciando che l’aria secca filtrasse dentro l’abitacolo.

«Ti ha dato fastidio che mi sia avvicinato per la foto?», mi domandò a bruciapelo appena ci lasciammo Pontiac alle spalle.

Volsi il capo fuori dal finestrino, osservando il paesaggio scorrere intorno a noi. «Sì. Saremo anche compagni di viaggio, ma questo non significa che siamo amici, né che le cose fra di noi sono a posto», risposi seccamente.

Edward rimase in silenzio per alcuni secondi, forse accusando il colpo che le mie parole gli avevano inferito. Non avrei voluto mettere in chiaro così bruscamente la relazione che condividevamo in quel momento, ma non volevo nemmeno che Edward pensasse che la situazione fosse migliore di quella che era; non eravamo amici, né amanti, né ex fidanzati in quel viaggio; eravamo solo due persone con un comune interesse: allontanarci da Chicago, e staccare la spina da passato, presente e futuro.

«Immagino di no», sussurrò Edward, con tono neutro.

Fortunatamente, il discorso finì lì.

Il resto del viaggio lo trascorremmo in silenzio, avvolti dalla musica della radio, e quando Edward parlò di nuovo eravamo giunti nelle vicinanze di una cittadina di nome Lexington. Fermò l’auto sulla banchina polverosa, ed estrasse dalla guida della Route 66 una vecchia fotografia. Il panorama era identico a quello che avevamo di fronte il quel momento, con l’eccezione che mancava l’unico edificio che sorgeva vicino alla strada.

«Questo era il Ballard Elevator. L’hanno demolito nel 2006, ma un tempo era un punto di riferimento su questa strada. Pensavo che sarebbe stato interessante avere una foto del prima e del dopo».

Annuii silenziosamente, e scattai la foto alla strada ora vuota, senza più simboli che aiutassero a capire in che punto della lunga Route ci trovavamo, e subito dopo ripartimmo.

La tappa successiva fu a Towanda, una cittadina poco distante. In quella città era conservata una parte dell’originaria Route 66, chiusa al traffico e mantenuta al suo stato iniziale. Non c’era nessuno quando arrivammo lì, e seguii Edward a piedi lungo la strada, guardando l’asfalto crepato e sbiadito; fra le fessure spuntavano ciuffi di erba talvolta verde, talvolta secca. La vernice che creava la segnaletica orizzontale era consumata, e solo la scritta Route 66 e la mappa degli States erano stati restaurati per essere ben visibili.

Mentre osservavo il paesaggio quasi deserto intorno a me, non mi accorsi che Edward si era allontanato. Lo raggiunsi con passo incerto, e quando vidi il suo viso lo trovai stranamente buio, come se pensieri brutti stessero affollando la sua mente. Sembrava l’Edward che avevo seduto accanto al bancone del bar poche sere prima.

«Ehi. Tutto okay?», gli chiesi, rinunciando al mio tentativo di rimanere in silenzio per il resto della giornata. Del resto non potevo complicare quel viaggio più di quanto già non lo fosse fin dal primo giorno.

«Stavo pensando…», mormorò, e la sua voce era così bassa che dovetti avvicinarmi per poterla sentire. «Un tempo questa strada era una leggenda vivente. Era il sogno americano per eccellenza. Chi la percorreva aveva in testa mille sogni, centinaia di idee e aspettative. Era un simbolo di speranza, in un certo senso», disse, ed io ricordai di aver letto sulla guida in auto che molta gente che negli anni Trenta decideva di imbarcarsi in un viaggio lungo la Route 66 lo faceva per arrivare in California, la cosiddetta El Dorado di quei tempi, dove poter trovare gloria e denaro. Fece una breve pausa. Il suo tono così lugubre mi metteva a disagio, e mi preoccupava. «Allora perché è caduta nel dimenticatoio così presto?»

Mi guardai intorno, osservando la desolazione del luogo, l’asfalto sciupato dal tempo e la piccola cittadina di Towanda, così piccola che nemmeno sulla mappa ufficiale della Route 66 trovava il suo posto. «Immagino che la costruzione delle superstrade abbia portato la maggior parte dei viaggiatori a cambiare strada. Del resto questa è ancora una strada statale, ci sono i limiti di velocità da rispettare, semafori, incroci… è più dispersiva per chi vuole raggiungere un’altra località il più velocemente possibile», dissi, cercando di usare un tono dolce, per non apparire troppo insensibile ai suoi occhi. Del resto questa strada rappresentava per lui qualcosa che io non riuscivo a capire ancora, ma rispettavo ciò che pensava.

Gli occhi di Edward continuavano a rimanere fissi all’orizzonte, ma lo vidi stringere le labbra. «Quindi la sua dispersività era un errore? Era uno sbaglio che avesse un tragitto più lungo e lento rispetto ad una superstrada?»

Aprii le labbra per replicare, anche se non sapevo cosa dire. Perché la mia risposta l’aveva turbato così tanto? Il suo tono era ancora freddo e distaccato, ma dalla sua postura e dal suo sguardo capii di averlo colpito più di quanto mi sarei mai immaginata.

«Per anni la gente l’ha percorsa, l’ha sfruttata, ha riposto speranze in essa. Poi, non appena sono state costruite le autostrade, l’hanno abbandonata al suo destino. Nessuno si è più curato di lei, l’hanno perfino distrutta e cancellata dalle cartine per far posto alla novità. È bastato un semplice errore perché tutti la eliminassero».

Un brivido corse lungo la mia schiena. Per qualche strano motivo ero convinta che il centro del discorso non fosse più la Strada Madre, ma qualcos’altro. Qualcosa di più privato e personale per lui. «Edward…»

Sfiorai con la punta delle dita il suo braccio, e lui sgranò gli occhi per un istante. Si voltò bruscamente, allontanandosi da me con lunghe falcate. «Andiamo», mi disse, quasi ordinò. «Voglio raggiungere Springfield per la notte e dobbiamo ancora pranzare».

Il suo improvviso cambio d’umore mi spiazzò totalmente. Cosa gli stava passando per la mente? Le sue parole erano rivolte semplicemente alla situazione della Strada Madre? No, c’era qualcosa di molto più complicato nascosto dietro al discorso di poco prima, e nonostante facessi di tutto per nasconderlo ero curiosa. Dannatamente curiosa di sapere cosa lo tormentava in quel modo ossessivo, curiosa di conoscere il motivo per cui tutto d’un tratto aveva abbandonato il lavoro per intraprendere un viaggio di chissà quante settimane da solo. E al tempo stesso sapevo che non avrei potuto chiedergli nulla riguardo ciò; il modo in cui aveva reagito quando aveva capito che stavo per fargli qualche domanda mi dava la quasi assoluta certezza che non volesse parlarne - non con me, per lo meno -, e non potevo assolutamente obbligarlo, né costringerlo a subire le mie domande, non dopo che l’avevo attaccato in quel modo in auto appena un’ora prima, dicendogli che non eravamo amici né potevamo esserlo.

Mi morsi il labbro, reprimendo le mie domande ingiustificate, e lo seguii fino alla macchina.

 

«Credi di avere ancora spazio nello stomaco per degli assaggi veloci?»

«Assaggi di cosa?», gli domandai, incuriosita.

Avevamo appena terminato di pranzare in una tavola calda molto particolare, che Edward aveva scelto appositamente come tappa; si trattava di un locale sulla strada, dove i panini venivano preparati proprio sotto gli occhi dei clienti, per mostrare che durante la preparazione non venivano aggiunti ingredienti non richiesti; io ed Edward ci eravamo accomodati al bancone, e un signore aveva preparato le nostre ordinazioni con cura mostrandoci tutti i passaggi e ciò che veniva inserito fra le fette di pane. Non sapevo esistessero locali simili, e vederne uno mi aveva lasciata a bocca aperta.

Edward sorrise. «Non hai visto qual è la nostra prossima tappa?»

Presi in mano la guida, accigliata. Effettivamente non avevo controllato le fermate e i punti di interesse quella mattina, mi ero preoccupata solo di trascrivere le cose sul mio diario di volta in volta che le vedevamo.

Quando lessi il nome di ciò che stavamo per visitare i miei occhi si illuminarono. «Dici sul serio? Ci fermiamo dove producono lo sciroppo d’acero?»

Lui annuì, e un sorrisino soddisfatto piegò le sue labbra. «Puoi anche comprarlo se vuoi».

Ricordai le sue parole di quella mattina, quando gli dissi che avrei tenuto le cartine di sciroppo d’acero avanzate dalla colazione: “Tranquilla, farò in modo che avrai sempre una scorta di sciroppo a portata di mano”.

Un sorriso spuntò sul mio viso, e per la prima volta non lo nascosi.

 

La nostra visita a Funk’s Grove, dove veniva prodotto lo sciroppo d’acero, di cui sono sempre stata una grande golosa, durò poco più di mezz’ora. Nonostante i tempi ristretti, riuscii ad assaggiarne di diverse qualità, e anche a comprarne due confezioni di boccette a forma di foglia d’acero e due bottiglie da tenere a casa. Edward mi osservò con un sopracciglio inarcato e un sorrisetto divertito mentre decidevo cosa comprare, ma non commentò nemmeno quando mi aiutò a ritirare il tutto nel bagagliaio della jeep, con i primissimi acquisti di questo viaggio.

Il suo umore era decisamente migliorato da quando ci eravamo seduti al bancone della tavola calda per pranzare, e da quel momento non c’era più stata traccia dell’Edward turbato che avevo visto in mezzo alla strada abbandonata, anche se spesso lo vedevo perdersi nei suoi pensieri mentre guidava, o quando pensava che non lo guardassi.

Ovviamente, però, lui non era l’unico che avrebbe dovuto avere pazienza mentre l’altro gli faceva visitare luoghi che magari non gli interessavano; infatti, subito dopo aver lasciato Funk’s Grove raggiungemmo nel tardo pomeriggio il museo sulle auto storiche che hanno attraversato questa strada. Come tutti gli uomini, Edward era affascinato da quelle auto lussuose e vecchie, e lo seguii pazientemente attraverso le sale d’esposizione mentre si divertiva come un bambino a osservare i vari modelli e a salirci per vedere gli interni. Gli scattai anche delle fotografie, perché la sua espressione era così fanciullesca che mi sembrava di riavere davanti il ragazzo diciannovenne che avevo conosciuto nel campus del college, quando mi ero persa uno dei primissimi giorni che mi trovavo a Chicago. Il suo entusiasmo riusciva a contagiarmi, tanto che alla fine accettai perfino di farmi fotografare con lui a bordo di alcuni dei modelli più famosi di auto.

In quei momenti di complicità era facile dimenticare come stavano le cose fra noi; mi sembrava di tornare alle nostre prime uscite insieme, quando eravamo semplici amici ma eravamo entrambi a conoscenza della forte attrazione che c’era fra di noi. Anche in quel momento ero consapevole della tensione che gravava fra di noi, del fatto che nonostante tutto ero attratta da Edward come lo ero sempre stata, e dal modo in cui mi guardava sapevo che anche lui provava quello che sentivo io; ma a differenza di nove anni fa, quando speravo che lui decidesse di fare la prima mossa, in quel momento desideravo solo che le cose restassero così: che il nostro rapporto si ingessasse in quella precaria situazione di pace, con l’uno che si godeva la compagnia dell’altro senza pensieri riguardanti il passato o il futuro, e quella tensione sessuale che ci rendeva complici.

Ma le cose non potevano restare così per sempre. Bastava un niente per capovolgere nuovamente la situazione, ed io non ero in grado di camminare sul filo come un’equilibrista senza cascare da un lato o l’altro della situazione. Infatti, non appena sentii il fiato caldo di Edward soffiare sulla mia guancia mentre si avvicinava a me per vedere il risultato di uno scatto fotografico, mi allontanai bruscamente.

«Abbiamo visto tutto?», chiesi, senza voltarmi a guardarlo e risistemando la macchina fotografica nella borsa.

Edward esitò per un istante, poi annuì.

Tornammo alla macchina nel silenzio più totale, e mi bastò un’occhiata a lui per capire che aveva capito benissimo che la situazione fra di noi non avrebbe mai potuto tornare come ai vecchi tempi. Potevamo solo cercare un nuovo equilibrio - se mai avesse potuto esistere un equilibrio nella nostra situazione - e convivere con il nostro passato.

Il sole stava lentamente compiendo la sua discesa verso l’orizzonte quando tornammo sulla Route 66. Il cielo si stava dipingendo di rosso e arancione, lasciandosi alle spalle il blu scuro della notte, che nel giro di poco avrebbe inghiottito l’Illinois. Quando raggiungemmo la nostra ultima tappa di quel giorno era già calato il buio, e le luci della città capoluogo dello Stato brillavano di luce propria fra i palazzi e le strade. Eravamo arrivati a Springfield.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giornooo! :D

Anche questa settimana sono stranamente puntuale. Bella ed Edward hanno iniziato a spostarsi, e sono arrivati fino a Springfield.

Piano piano vengono fuori alcuni dettagli sulla loro relazione, e presto si capirà cos'è davvero successo fra di loro.

Spero di riuscire a essere puntuale anche settimana prossima!

Grazie a tutti coloro che hanno recensito gli scorsi capitoli e che hanno inserito la storia fra le seguite/preferite/ricordate! Grazie anche ai lettori silenziosi!

A presto! :***

   
 
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