Capitolo 9
Nero
Oh, the pictures have
All been washed in black
Tattooed everything…
Black –
Pearl Jam
Dopo pochi giorni Sofia partì in gita
scolastica. La sua classe sarebbe andata per cinque giorni a Parigi, mentre noi
saremmo andati a Londra qualche settimana più tardi.
Se devo dire qualcosa di quei cinque
giorni, sono sicuro che non mi soffermerei troppo sulla mancanza di Sofia,
perché non la sentii molto. Furono cinque giorni all’insegna di verifiche,
studio, musica, e… Elena.
Quasi tutte le volte mi avviavo verso
la sua classe durante le ricreazioni perché volevo vederla, scambiarci due
chiacchiere, a proposito di qualsiasi cosa. Era un riflesso incondizionato che
non sapevo contrastare, le mie gambe mi portavano verso di lei senza che io
potessi fare nulla per impedirlo. La cosa assurda è che, quando mi trovavo a
pochi metri dalla sua aula, improvvisamente cominciavo a sentirmi stupido e
ritornavo in classe mia, senza vederla. Stando ai pensieri di Giacomo ero
preoccupante.
Proprio l’ultimo giorno di gita di
Sofia, il venerdì, successe probabilmente una delle cose più belle che mi
potessero accadere. Ero arrivato ormai di fronte alla porta dell’aula di Elena,
e come al solito stavo già cominciando a retrocedere, quando lei uscì e mi
vide. La sua voce mi raggiunse le orecchie con il suono della musica più dolce
che conoscessi.
« Riccardo! »
Mi voltai a guardarla, sperando di
non essere arrossito, e le sorrisi lievemente. « Ehm, ciao ».
« Cosa ci fai qui? » Si avvicinò a me
e non potei fare a meno di notare quanto belli e grandi fossero i suoi occhi.
« Io… Qui…
Ti cercavo » ammisi, senza riuscire a trovare una scusa migliore da dirgli.
« Oh » si sorprese, « e perché?
Qualche problema? » Sembrava quasi preoccupata. L’idea che Elena si
preoccupasse per me mi fece diventare all’improvviso più contento e sicuro di
me.
« No, nessun problema » mormorai. Non sapevo
che dirle: perché l’avevo cercata? Perché in quei giorni sembrava che volessi
solo lei di fianco a me? La risposta era chiara dentro la mia mente: per parlare un po’. Perché mi mancava la
sua voce, perché volevo assicurarmi che stesse bene. Ma di certo non potevo
dirle niente del genere; quei pensieri dovevano rimanere oscuri a tutti se non
a me. Li sentivo sbagliati.
Elena continuava a osservarmi
attendendo una risposta, e cominciai a perdere anche quella poca sicurezza che
ero riuscito a conquistarmi negli ultimi secondi. « Mi chiedevo se… Cioè, oggi tu rimani a pranzare a scuola? »
Si irrigidì un momento. « Sì ».
« E poi resti qui per tutto il pomeriggio?
»
« Solo un paio di ore ».
Mi cominciai a guardare le dita delle
mani, nervoso. Non sapevo da dove mi stavano uscendo quelle parole – di sicuro
non dal cervello – né di quanta stupidità fossi in possesso in quel momento per
pronunciarle. « Mi domandavo se magari ti andava di venire a mangiare da me
invece di restare qui. Poi potresti fare i compiti a casa mia, magari parliamo
un po’ e se serve ti riporto a casa io… » Abbassai notevolmente il tono della
voce. « Se puoi e se vuoi… »
« Oh ». Elena rimase in silenzio per
qualche secondo e temetti di aver fatto l’ennesima figura da idiota. « Non lo
so, non voglio disturbare. E poi dopo devo andare a casa, oggi mio padre ha
detto che dobbiamo lavorare, sai… » arrossì
violentemente fino a diventare dello stesso colore della maglia bordeaux che
indossava.
« E se venissi con te? »
Sgranò gli occhi, e nello stesso
istante li sgranai anch’io rendendomi conto di cosa avessi appena detto. «
Cosa? »
« Potrei provare a venire a darti una
mano » spiegai, incerto. « A lavorare sulla casa. Sempre se tuo padre è d’accordo.
E tu chiaramente. Se vuoi. Mi piacerebbe poterti aiutare ». Mi sembrava di aver
perso la capacità di fare un discorso logico compiuto e finito mentre parlavo –
probabilmente era davvero così.
« Nessuno mi ha mai…
chiesto una cosa simile » rispose, quasi come se fosse senza fiato. Azzardai
alzare gli occhi e guardarla, sembrava stupefatta e senza parole. « Mi… Mi farebbe piacere, sì » ammise. « Ma non voglio che tu
venga se non te la senti, non è un bello spettacolo, e poi penso che mio padre
non sarebbe gentile con te solo perché non sei suo figlio. Ti farebbe sgobbare
come me senza ritegno e comincerebbe a dirti un sacco di parole per ogni cosa
che non gli va bene, quindi io ti consiglierei di pensarci bene prima, perché
potresti detestarlo e non voglio rovinarti la giornata ». Parlò tutto d’un
fiato e sembrava non voler accennare a smettere. Evidentemente non ero l’unico
a provare imbarazzo in quel momento.
« Tranquilla » annuii debolmente,
senza capacitarmi di ciò che stava succedendo. « Sono abituato ai rimproveri e
poi lo faccio volentieri se è per aiutare te ».
Rimanemmo in silenzio per un po’ a
guardarci, entrambi senza saper cosa dire. Però sentivo che, mentre le volte
precedenti il Silenzio ci aveva fatto visita distruggendoci e caricandoci di un
peso troppo grande, ora sembrava volerci solo far compagnia. Elena sorrise.
« Grazie, Riccardo. Non so perché lo
fai, ma… grazie ».
Avrei voluto dirle che nemmeno io
sapevo perché lo stavo facendo, ma mi limitai a ricambiare il sorriso
mormorando: « Di nulla ».
La campanella, poi, ci salvò. Quasi
sussultai sentendola e cominciai ad arretrare – probabilmente anche in maniera
molto buffa e goffa.
« Allora io torno in classe, ci
vediamo dopo, va bene? »
« A dopo » salutò Elena. Mi voltai e
tornai nei miei passi.
Era la cosa più assurda e insensata
che io avessi mai programmato di fare da quel che potessi ricordare. Lavorare da
qualcun altro? Ma se non facevo nulla nemmeno a casa mia!
Eppure ogni cosa sembrava trovare una
risposta quando pensavo ad Elena: non era tanto lei in sé che mi faceva
diventare matto, ma quello che rappresentava ai miei occhi. La sua sofferenza,
cercata di reprimere in fondo al cuore come meglio poteva, la sua passione per
la musica stroncata da un così violento episodio, la perdita di una persona
così importante come poteva essere la figura di suo fratello. Mi sentivo quasi
in dovere di aiutarla, di dimostrarle che potevo essere lì a darle quella mano
che nessuno le aveva mai offerto prima. Mio padre lo diceva sempre: “Quando accade un incidente a qualcuno,
subito tutti si offrono di aiutarlo, ma già dal giorno dopo ognuno ritorna a
pensare solo a se stesso.” Io non volevo essere una di quelle persone. Non
per Elena.
Non raccontai a Giacomo ciò che avevo
intenzione di fare. Avevo come l’impressione che mi avrebbe rimproverato e
avrebbe nominato Sofia… ma dopotutto, chi era Sofia?
Il pranzo insieme a Elena fu molto
piacevole. Parlammo solo di scuola, è vero, però gli aneddoti che raccontava
erano divertenti e quindi riuscimmo ad essere quasi contenti, pur ben sapendo a
che cosa saremmo andati incontro dopo qualche ora. (Non è completamente esatto:
lei lo sapeva, io lo potevo solo immaginare, e neanche così bene.)
La osservai fare i compiti di
matematica con cura, e analizzai ogni suo movimento: come si spostava indietro
una ciocca di capelli, come si stringeva forte tra le dita la collana ogni
volta che non le veniva un esercizio, come sbuffava quando qualcuno nei tavolini
di fianco a noi parlava troppo forte per i suoi gusti. Non la interruppi
nemmeno per un momento: continuai a osservarla in silenzio e sembrava che
apprezzasse la mia discrezione. Forse anche lei, come me, pensava a quello che
avremo trovato di lì a poco. Forse cercava un modo per nascondermi qualche
particolare, quando si mordicchiava il labbro e mi guardava con la coda dell’occhio
– convinta che io non lo notassi. Io, da canto mio, avevo solo tanta, tanta
paura. E non per me, ma per lei. Avevo paura di scoprire quanto dolore
potessero contenere delle mura avvolte da fiamme.
Mentre andavamo con l’autobus a casa
sua, non spiaccicò parola. Continuava a guardare fuori dal finestrino. Io
facevo lo stesso.
Arrivammo a casa sua persino troppo
presto per i miei gusti. Da fuori non sembrava esserci un granché: l’abitazione
era bianca, grande, spaziosa ed elegante. Solo qualche alone nero qui e lì
facevano intuire che fosse successo qualcosa, ma da lontano nemmeno ce se ne
accorgeva.
Elena si avvicinò all’entrata e io la
seguii. Aveva la mano sulla maniglia quando si voltò verso di me e quasi mi
implorò tacitamente con il suo semplice sguardo.
« Sei sicuro di volerlo fare? »
« Sicurissimo ».
Ormai era la millesima volta che
glielo dicevo.
« Ok… Non
c’è molto ordine, anzi » mi avvisò imbarazzata, mentre apriva la porta.
Dire che non c’era ordine era un
eufemismo. Il caos assoluto si stagliava nella stanza davanti a me. Divani,
vestiti, televisione, mobili, forno, pentole, sedie, tavoli…
Praticamente tutto quello che poteva esserci in una casa era ammucchiato lì. Ma
non era semplicemente il caos più totale che mi aveva lasciato senza parole;
bensì il nero.
Il nero si stagliava in ogni oggetto.
Il fumo aveva avvolto tutto ed il suo colore era rimasto per testimoniarlo.
Tra tutte le immagini che mi ero
fatto per prepararmi alla vista, la peggiore non si avvicinava neanche
lontanamente.
Soffermai lo sguardo sui muri e poi
sul soffitto, sentendomi mancare il pavimento da sotto i piedi. Le crepe
profonde non lasciavano spazio all’immaginazione. Le pareti, che una volta
erano state gialle, ora erano colorate del nero più scuro che avessi mai visto,
di quelli che non trovi neanche negli incubi più spaventosi; ma non fu neanche
quello che catturò maggiormente la mia attenzione.
Nel soffitto l’oscurità continuava,
ma era attraversata da molti piccoli cerchi bianchi in sequenza.
« Sono segni del getto d’acqua che
hanno buttato i pompieri » mi spiegò Elena, vedendo che mi ero incantato ad
osservarli. Subito nella mia mente si affiorò l’immagine di un uomo vestito di
rosso che con una pompa spegneva l’incendio che si stava propagando in quei
muri. L’odore di fumo aiutava a dare più concretezza alla scena. Orribile.
Guardai Elena, aspettando che magari
dicesse qualcosa per rompere il silenzio, ma lei non aprì bocca. Eppure sentivo
che niente era così loquace come il suo silenzio.
{ Spazio HarryJo.
Sono passati millenni, vero? Mi dispiace molto, è stato un periodo scioccante.
Avevo deciso di abbandonare EFP, quindi anche questa storia, ma come potete
vedere, ora sono qui.
Spero che a qualcuno interessi ancora
questa storia, perché io sono arrivata al punto che volevo descrivere: una casa
dopo aver subito un incendio. Ah, so che qualcuno cercava il link dell’articolo
di giornale del mio incendio. Eccolo
qui: http://ricerca.gelocal.it/tribunatreviso/archivio/tribunatreviso/2010/06/15/TCBPO_TCB01.html?ref=search
Au revoir,
fatemi sapere che pensate di questo capitoletto,
Erica