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Autore: Sylphs    10/03/2012    4 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dannazione reciproca

 
 
 
 
 
 
Antoine si era preso gioco di lei. Gli aveva ceduto il suo corpo, facendosi promettere in cambio il rilascio di Erik, ed egli le aveva voltato le spalle, ignorando l’immenso sacrificio compiuto per salvare l’amato e lasciando che la corte lo condannasse a morte. Quando era stata annunciata la data dell’esecuzione, tra le grida di gioia furiosa e di soddisfazione del popolo, lei era ormai tornata alla casa di Madame Lefevre e si era preparata un bagno bollente con il quale lavar via dalla pelle la sozzura che si sentiva addosso, mista all’odore del marchesino e al fastidio che sentiva alle mani, costrette a piegarsi a umiliazioni che non avrebbe mai creduto possibili. Aveva gettato nel fuoco il logoro mantello e il modesto abito di tela grezza con il quale si era presentata da lui e si era strofinata il corpo con furia, passandosi una saponetta sulle cosce violate e sul seno e bisbigliando tra sé imprecazioni e oscenità che la aiutavano a mantenere il contatto con la realtà e a non impazzire.
Ma poi la voce della condanna si era sparsa, era serpeggiata nei vicoli, nelle piazze, sulla Senna, fino a raggiungere le sue orecchie, ed erano state così grandi la sua rabbia e la sua stupefatta sofferenza che aveva lanciato un urlo lancinante e aveva brandito, in un impeto di disperazione, le forbici con le quali la sua tutrice si limava le unghie, risoluta, sull’onda della terribile notizia, a togliersi la vita come già una volta aveva tentato di fare. Non poteva esistere in un mondo in cui Erik non c’era, avrebbe preferito essere odiata da lui fino alla fine dei tempi, piuttosto che vederlo morto, bruciato, sbeffeggiato da una folla urlante. Oh, era a conoscenza dell’opinione comune…Madame Lefevre ed Emma la condividevano…pensavano che egli fosse il figlio del Diavolo, uno stregone deforme che aveva ottenuto la sua bravura di musicista con mezzi infernali e che partecipava abitualmente alle agapi e ai sabba. Quale ridicola superstizione! Era ancor più assurda della leggenda del Fantasma dell’Opera! Non sarebbe stato assai più credibile ammettere che il condannato era soltanto un comune essere umano con una straordinaria propensione per la musica e una deformazione congenita?
No, naturalmente. Quei villici ignoranti e superstiziosi avevano bisogno di un demone da esorcizzare e avevano reso tale l’uomo che amava, condannandolo a bruciare sul rogo che, secondo loro, lo avrebbe purificato dai suoi peccati. A cosa era servito, tutto quanto? Il suo amore per lui, i dieci giorni nella Dimora sul Lago, la canzone che avevano composto insieme e che lei aveva terminato dopo la sua cattura, oscurando i fogli con lacrime di dolore, i baci, le carezze, i sogni, la voluttà? Sarebbero arsi con il suo Erik, trasformandosi in polvere, sarebbero svaniti come un sogno di cristallo rivelatosi una volgare finzione di colla e vetro? Antoine aveva infine vinto sul loro sentimento? Li aveva schiacciati e distrutti, uccidendo l’uno e violando l’altra? Sarebbe rimasta in quella stanza che le risultava così estranea, accasciata tra i guanciali del baldacchino, fino al momento in cui le grida giubilanti della folla non sarebbero penetrate attraverso le tende, terribili e assordanti, annunciandole la morte dell’amato? Non mancavano che poche ore, ormai…entro poche ore, Erik sarebbe stato condotto a Place de Grève in una carretta, schernito e disprezzato dal popolo di Parigi, lo avrebbero legato sopra una catasta di legna da ardere che era stata già preparata e avrebbero atteso con ansia famelica le sue urla, i suoi ruggiti.
E lui avrebbe urlato? Avrebbe dato ai suoi aguzzini ciò che volevano, o il suo incrollabile orgoglio, presente in ogni situazione, lo avrebbe indotto a resistere persino a fronte di una sofferenza così grande? Che cosa si provava ad avere il corpo in fiamme, a vedere la propria carne annerirsi e consumarsi, gli arti deformarsi in umidi monconi e i capelli strinarsi in una vampata rossa e accecante? A percepire l’orrendo fetore di pelle e capelli bruciati e a sapere che erano le tue stesse membra a promanarlo? Tutto quel che amava di Erik sarebbe stato vaporizzato. I suoi meravigliosi occhi azzurro scuro si sarebbero sciolti in un fluido biancastro, le morbide labbra che aveva baciato avrebbero perduto per sempre la loro forma, la chioma in cui aveva affondato le dita si sarebbe tramutata in cenere.
Non sarebbe rimasto nulla di lui…nulla su cui potesse piangere. Al mondo non v’è niente di più letale e distruttivo del fuoco. Se avesse trovato la forza di recarsi a Place de Grève dopo la fine dell’esecuzione, allorché tutti sarebbero andati via con noncuranza, pronti a dimenticare, non avrebbe rinvenuto altro che un mucchio di cenere puzzolente, con cui forse si sarebbe aspersa il corpo per tenere in vita qualche traccia di lui.
Lanciò un urlo. E poi un altro. E un altro ancora. Urlò finché il suo volto si colorò di un rossore malsano e sul suo collo si gonfiò la vena giugulare, artigliandosi con furia cieca le guance e il petto e rotolandosi tra le lenzuola sudate e impregnate della sua sozzura. Nessuno di quegli urli leniva la sua sofferenza, e probabilmente Madame Lefevre o le sue domestiche si sarebbero spaventate, ma niente aveva importanza in quel momento. Voleva che si avvedessero del suo tormento, voleva essere messa in relazione con il condannato. Sul conto del loro rapporto erano state diffuse varie chiacchiere, la maggior parte delle quali la vedeva nel ruolo di strega e complice. Ma loro non  potevano capire, non potevano comprendere. Nessuno poteva. La gente vede quel che vuol vedere. È troppo difficile provare pietà e comprensione per una faccia deturpata, infilarsi nella tragica vicenda del passato di un uomo costretto a uccidere per guadagnarsi un posto nel mondo. Egli non era come loro, e perciò lo chiamavano mostro e progenie del Diavolo. Neanche un’anima buona si era dispiaciuta per lui…lei stessa, all’inizio, aveva creduto d’avere a che fare con un semplice assassino senza morale.
Ma il vero mostro, il vero demone, era Antoine. E, ironia della sorte, nessuno se ne accorgeva! No, lo chiamavano eroe, gli battevano pacche sulle spalle, lo omaggiavano, erano pronti a baciare le sue disgustose scarpe tirate a lucido e a riconoscergli il pieno merito della soppressione del malefico stregone. I suoi lineamenti regolari, la sua chioma bionda e i suoi occhi azzurri erano talmente puri e innocenti, che mai nessuno avrebbe potuto intravedere il marciume che vi era celato. Per colpa della sua crudeltà un uomo sarebbe morto e un amore sarebbe stato spezzato, lasciando solo cenere e rimpianto.
Afferrò la bottiglia di cognac che aveva prelevato quella mattina dall’armadietto dei liquori e la stappò con tale furia da rovesciarne sul pavimento qualche schizzo. Bevve gettando indietro la testa, un sapore atroce e bruciante nella gola che si mischiava a quello salato delle lacrime di rabbia e di dolore che le rigavano le guance. Voleva stordirsi, perdere la lucidità, la consapevolezza dell’imminente esecuzione, cadere in uno stato in cui è l’istinto a comandare, e non la ragione. Il cognac le scorreva in grossi rivoli ai lati della bocca, le gocciolava sul seno malamente coperto dalla camicia da notte spessa, colava fino ai capelli, arruffati e intrisi di sudore. Dopo che ne ebbe tracannata una buona metà, scagliò la bottiglia per terra e chiuse gli occhi, sostenendosi alla struttura del letto per ritrovarsi nell’improvvisa confusione che aveva colto i suoi sensi. Aprendoli nuovamente sulla stanza oscillante, colse una fugace immagine di sé sul modesto specchio da parete sistemato dinnanzi a lei.
Aveva un aspetto impressionante. I ricci erano una massa scarmigliata e selvaggia simile alla criniera di un leone, la grezza camicia da notte bianca era macchiata di liquore e piccole vene rossastre risaltavano sotto la delicata pelle del viso, concentrandosi in particolar modo intorno agli occhi, gonfi e irritati dal pianto. Lucidi com’erano, i riflessi verdi erano ancora più in risalto, ma quel colore intenso e penetrante la rendeva ancora più malsana, più inquietante. Il suo riflesso ondeggiava, andava fuori fuoco, assumeva contorni indefiniti, forme in continuo mutamento che le ricordarono all’improvviso…
“Padre”.
Abbassò lo sguardo sulla bottiglia di liquore in terra, quindi nuovamente sulla sua immagine sfocata. E così avevano finito per condividere anche questo. Per essere trascinati nello stesso vizio, nella stessa voragine, l’unica maniera di anestetizzare il dolore, di metterlo a tacere per delle ore. Era venuta meno ad ogni suo giuramento, ad ogni sua promessa personale. Aveva giurato che avrebbe imitato soltanto il lato migliore di suo padre, che avrebbe fatto tesoro della sua tragica esperienza con l’alcol, e a fronte della sofferenza si era palesemente smentita, andandolo a cercare come solo rimedio. Si era ripromessa di non lasciar mai che un uomo si approfittasse di lei, e aveva venduto il suo corpo ad Antoine senza ottenere niente in cambio. Aveva fallito sotto ogni punto di vista, aveva calpestato la sua dignità e il suo nome.
Non era niente.
Non valeva la pena di essere niente. Non senza Erik. Non senza la sua splendida voce che accompagnava il suo sonno e il suo risveglio, non senza le sue grandi mani che le accarezzavano la pelle con delicatezza esemplare, non senza i suoi buffi cambiamenti d’umore e le sue espressioni esasperate quando era costretto ad accettare le sue bizzarrie. Aveva bisogno di lui, fisicamente e spiritualmente. Mai nella vita aveva percepito una necessità così stringente, così assoluta, nei confronti di una persona. Lui la capiva, la ascoltava come nessuno aveva fatto in passato, non la giudicava né condannava per gli errori e le mancanze che aveva commesso, ed era la stessa cosa per lei. Il sentimento che provava per Erik era così forte, così puro, che se anche avesse avuto l’intera faccia coperta di piaghe, se fosse stato un mostro nel vero senso della parola, l’avrebbe amato esattamente allo stesso modo, semplicemente perché era…lui. Sarebbe stata capace di gettarsi nel rogo purificatore e di avvinghiare le braccia al collo di ciò che rimaneva del condannato, incollando le labbra alle sue e piangendo su di lui…con lui…fino a consumarsi a sua volta.
Scivolò a terra, priva di forza, circondata da lembi della sua camicia da notte macchiata, e si strinse al petto i fogli con su scritta la loro canzone, quei fogli che lui aveva toccato, modificato, perfezionato, scritto nella sua elegante e affilata calligrafia. Il suo odore selvaggio aleggiava ancora sulla carta bagnata di lacrime e di strazio, e se chiudeva gli occhi e avvicinava al viso gli spartiti, le sembrava quasi d’averlo vicino, severo e indulgente al tempo stesso, gentile nelle correzioni e rigido nei rimproveri. Quelle note stropicciate erano tutto quel che restava di lui, del loro rapporto che aveva squarciato i veli dell’apparenza e rivelato ciò che c’era oltre le ombre. E tale era il titolo che infine aveva scelto. “Oltre le ombre”. Un nuovo inizio…un viaggio mancato…l’occasione di riscattarsi e lavarsi dai peccati…
“Erik” sussurrò con estrema fatica, serrandosi contro la canzone e dondolando su se stessa, con insensata continuità, il volto chino nascosto da una cascata di capelli arruffati: “Erik”.
“Vivian?”
Sussultò. La sua mente, vacillante e spezzata dal peso dell’umiliazione subita e della condanna ormai vicina, si distolse dai pensieri sconclusionati in cui aveva vagato finora e la spinse a levare il capo di scatto e a sbarrare gli occhi gonfi e rossi sulla figura che aveva aperto la porta senza bussare, una chiazza rossa nella penombra circostante. Un freddo glaciale penetrò nel suo animo e una bestia addormentata si destò con un soprassalto di fastidio, agitandosi nel suo stomaco.
Antoine Baptiste Rappenau.
Ogni particolare di quell’essere umano venne registrato con la precisione dell’odio e la bruciò all’interno, il piccolo naso all’insù, le labbra piene e rosse come quelle di un bambino, il viso regolare e sbarbato alla perfezione, l’oro mielato dei folti capelli, le basette curate e gli occhi, cerulei e astuti, fissi su di lei con trionfo, malevolenza e libidine. Un mantello bordeaux lo rivestiva da capo a piedi e sotto di esso si intravedevano un panciotto ornato di complicati ricami e calzoni di morbido camoscio, inguainati in costosi stivali di pelle. Si era abbigliato a festa…per celebrare la morte dell’uomo che amava.
Dal lampo di compiacimento che gli aveva attraversato le pupille rapaci, suppose che anche il giovane l’avesse esaminata con cura, e che avesse trovato il risultato estremamente gradevole. Si fece avanti nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle, e si tolse il copricapo con gesto elegante, gettandolo sul suo letto sfatto: “La tua tutrice mi ha fatto entrare. È appena uscita con la sua domestica per comperare qualcosa per la cena. Mi dispiace di sorprenderti in queste condizioni, non volevo recarti fastidio”.
Aveva un tono pieno di falsa cortesia. Con la superbia del vincitore, sicuro di averla distrutta, si mostrava comprensivo e compassionevole nei suoi riguardi e si recava da lei, trovandola in uno stato disumano, per compiacersi ancor più dei risultati ottenuti. Perché non l’aveva uccisa? Perché non aveva atteso che uscisse dal teatro dell’Opera per afferrarla, trascinarla in un vicolo, strapparle i vestiti di dosso e concludere quel che aveva iniziato nella cappella? Era lei che odiava e amava allo stesso tempo, non Erik. Perché essere sadico fino a quel punto, e privarla della sola persona a cui teneva, della sua salvezza, lasciandola priva di ogni cosa? Cosa gliene sarebbe venuto, dalla morte di Erik? Se l’era presa con lui…glielo aveva strappato…come un malevolo e schifoso serpente che attaccava a sorpresa, iniettandole nelle vene la più atroce forma di sofferenza.
La bestia acquattata nel suo petto levò un ruggito e incominciò a soffiare, irrequieta.
“Sono venuto a spiegarti” stava dicendo intanto Antoine, accomodandosi al suo tavolo da lavoro senza chiederle il permesso. La sua espressione era un mirabile esempio di sincera sollecitudine, ma gli occhi, gli occhi lo tradivano. Erano lo specchio attraverso il quale il mostro scrutava il mondo e le sue vittime, e scintillavano di un bagliore felino, inquietante: “Ho cercato di rispettare il nostro patto, ma non c’è stato niente da fare. L’imputato ha confessato ogni cosa, graziarlo avrebbe significato una rivolta in piena regola, il popolo avrebbe assaltato il Palazzo di Giustizia e l’avrebbe fatto a pezzi. Sarebbe stato sparso sangue inutilmente e non sarei comunque riuscito a salvarlo. Mi dispiace, Vivian”.
Menzogne, solo menzogne. Forse c’era una parte di verità nelle sue parole, ma non aveva mai voluto arrischiarsi a chiedere la grazia per Erik. Non ci aveva neanche provato. E lei, ingenuamente, gli aveva dato fiducia. Ma quando ogni speranza cade, quando non si ha niente a cui aggrapparsi, ci si attacca ai compromessi più orribili, ai patti più mostruosi…avrebbe voluto tapparsi le orecchie e smettere di sentire la voce fintamente gentile che la riempiva di facili bugie. Erik sarebbe morto, e tutta la colpa andava ad Antoine.
Il giovane forse avrebbe voluto avvicinarsi e metterle una mano sulla spalla, ma qualcosa nell’espressione di lei lo persuase a restare dov’era, e s’accontentò di sorriderle con atteggiamento colpevole: “Mi duole il cuore a vederti così, credimi. Ma starai meglio senza di lui. Non avresti guadagnato nulla di buono da questa relazione, e sono sicuro che quando sarà morto e cesserà di dominarti con i suoi poteri diabolici, te ne renderai conto a tua volta. Lui ti aveva stregata, Vivian, proprio come aveva stregato la sua antica amante, Christine Daaé. Non ti amava davvero, poiché il figlio del Diavolo è incapace di provare amore, come tutte le creature infernali. È scritto nella Bibbia. Voleva soltanto una compagna con la quale condividere il peso della sua solitudine e del suo marciume, un’adepta da plasmare a sua immagine e somiglianza e da iniziare alle pratiche demoniache. Lo sai che aveva ottenuto la sua abilità di musicista con un patto satanico? Si era recato in una delle grotte sotterranee in cui ama tanto girovagare e si era bagnato con gli umori di una donna gravida, pronunciando al contrario il Pater Noster! Nel giro di poco tempo avrebbe costretto anche te a fare lo stesso, ti avrebbe tramutata in una strega in combutta con le forze del male! Ma io ti ho liberato! Ti ho salvato, proprio come il visconte de Chagny salvò la sua amata sei mesi fa!”
Infervorato dalla propria dichiarazione di eroismo, il marchesino si drizzò in piedi, sfavillante nei suoi abiti scarlatti, il capo dorato alzato in atteggiamento di trionfo e gli occhi azzurri scintillanti, e s’appressò impetuosamente alla ragazza semiseduta sul pavimento, inerte, pallida, sciupata, che lo fissava con uno sguardo molto scuro e molto fisso. Le parole gli rotolavano fuori dalla bocca come un fiume in piena: “Sì, Vivian, io ti ho salvata. Ti ho steso una mano nell’abisso e ti ho tirata fuori prima che fosse troppo tardi. L’adepto del Demonio ti ha fatta sua, ma non è riuscito a renderti uguale a lui. Credevo che fossi dannata…che ti avesse cambiato. Ma quando noi…quando hai cancellato il precedente peccato congiungendoti con me, messaggero di Dio, ho compreso che non eri stata marchiata per l’eternità. Io ti amo, Vivian”.
Gli occhi muschiati della giovane si sgranarono ancora di più, le orbite venate di rosso che vagavano sulla figura tremante e appassionata di Antoine mentre il viso conservava un’espressione vacua e inespressiva, impossibile da decifrare. Egli, dal canto suo, per quanto la stesse ricoprendo di bugie con cui sperava di ammansirla, aveva lo sguardo di chi ha appena dichiarato una verità. Non la amava davvero, era convinto di amarla, e la sua imitazione di quel sentimento era verde di odio, lascivia e possesso, era un aborto mostruoso che le ricadeva addosso con le fauci spalancate e la divorava: “Sei la mia ossessione, il mio desiderio, la mia condanna e la mia salvezza allo stesso tempo. Da quando ti sei offerta a me, non ho fatto altro che rivedere nella mente il tuo corpo nudo, i tuoi capelli morbidi, il tuo seno. Rinnegherei qualsiasi cosa per averli. Avevo deciso di liberarmi di te…ma non posso. Ti amo troppo. Voglio averti al mio fianco, Vivian”.
Il volto di lei era una maschera di gesso, talmente bianco da avere un aspetto mortuario: “Che cosa?” quelle parole vennero pronunciate in un bisbiglio appena udibile. Antoine annuì vigorosamente, gli occhi sempre più sfavillanti, le gambe che divoravano la distanza che separava i loro corpi. Sembrava incapace di starle lontano: “So che mi odi. So che vorresti vedermi morto. Ma è solo l’influenza di quel demonio. Non appena ci saremo disfatti di lui, ti sarà chiara ogni cosa. Capirai che lui ti avrebbe offerto solo la dannazione eterna, mentre io sono disposto a darti tutto quel che una donna può desiderare. Vuoi splendidi vestiti di stoffe colorate e luccicanti, gioielli orientali dal valore inestimabile? Chiedili, ed io te li concederò immediatamente. Vuoi un letto di piume su cui addormentarti la sera, vuoi la considerazione e l’apprezzamento degli eletti? Posso fare in modo che l’alta società parigina si inchini al tuo passaggio, che siano costretti a discorrere con te. Sparleranno, questo è certo, ma è un rischio superfluo. Vieni con me, al mio palazzo, diventa la mia amante, e ti aprirò le porte per la vita vera”.
Tacque, ansimando un poco, e attese con trepidazione convulsa la sua reazione.  
Vivian chiuse gli occhi e s’appoggiò con tutto il peso alla struttura del letto, le movenze di chi è nell’atto di rigettare. Era così…stanca. Di tutto quanto. Di ciò che la gente voleva da lei, dei soprusi di cui era fatta oggetto, della sua incapacità di difendersi adeguatamente. Era sola in pasto al mondo e alle sue cattiverie, separata da Erik, dall’amore, dalla salvezza. Ogni cosa era andata distrutta, ogni sogno, ogni speranza, ogni progetto. Era di nuovo la figlia bastarda di una famosa cantante, mediocre sotto tutti i punti di vista e priva di ancore a cui aggrapparsi. Molte ragazze, nella sua situazione, avevano gettato la spugna, avevano preso quel che offriva la sorte, anche se era orrendo e disgustoso.
Sapeva cosa doveva fare. Le conseguenze sarebbero state fatali, ma era l’unico modo di sfuggire all’oscurità che la circondava con sempre maggior voracità.
Fissò il volto infiammato e possessivo di Antoine e pronunciò distintamente: “Verrò”.
Egli assunse un’espressione incredula. Malgrado la sua sicurezza, il suo trionfo, quella reazione tradiva che si era proposto a lei senza sperare davvero in un consenso. Anzi, conoscendo il temperamento della ragazza, aveva messo in conto di doverla minacciare, di costringerla con la forza a seguirlo, di sostenere l’ennesima lotta. Quel “verrò” che lei aveva pronunciato con tono sicuro e impassibile gli giungeva totalmente inaspettato. Batté le palpebre, fissandola con assoluto stupore, e sussurrò: “Dici…dici sul serio?”
Lei si alzò in piedi. I capelli color della notte le ricadevano sul petto e davanti al pallido viso, circondandola di un’aura di buio, e al di sotto di quelle fronde voluminose le iridi ambrate erano fisse sul marchesino, accese da un fuoco eterno che era stato sopito solo temporaneamente. Avanzò, accompagnata dal sommesso fruscio della camicia da notte, e il giovane la lasciò avvicinare con circospezione, esitando ad abbandonarsi alla speranza di aver risolto tutto nel modo migliore. Non appena la ragazza si fu fermata dinnanzi a lui, gli passò le braccia snelle intorno ai fianchi, facendo aderire i loro corpi, e disse, senza sorridere: “Non c’è bisogno di aspettare la morte del fantasma. Le tue parole mi hanno aperto gli occhi. Ti amo anch’io, Antoine”.
Lui boccheggiò: “Mi…mi ami? Davvero? Io credevo…”
“Credevi che volessi trascorrere la vita con un mostro legato a filo doppio a Lucifero?” lo interruppe lei. Il cuore mandò una fitta a quella definizione di Erik, ma lo zittì con rabbia. Era l’unico modo, l’unico: “Tu sei come un principe delle favole, mio signore. Sei bello, valoroso e ricco. Sono stata un’inetta a contrariarti, ma ti prometto che mi impegnerò a rimediare. Anche subito”.
Egli era in preda alla confusione, ma un senso di vittoria incominciava a penetrare attraverso le crepe della sua maschera stupefatta: “Non avrei mai pensato che tu fossi forte abbastanza da liberarti dal suo incantesimo prima di vederlo bruciare”.
“Non ce l’avrei mai fatta, senza il tuo aiuto. Tu mi hai liberato. E intendo mostrarti appieno la mia gratitudine, amor mio”.
Immerse le dita tra i fluenti capelli biondi del marchesino e appoggiò le labbra sulle sue, premendosi con foga contro al suo corpo magro e asciutto. Egli emise un grugnito animalesco dal profondo della gola e reagì con prontezza entusiasta, afferrandole i seni e strizzandole i capezzoli fino a farle male. Vivian, tuttavia, gli impedì di tenere le redini di quel convulso scambio di baci e di sfioramenti come era accaduto quando gli si era offerta e gli intrappolò i polsi in una stretta salda, forzandogli la bocca fino ad aprirla e insinuando la lingua tra i suoi denti. Lo baciò con furia, con rabbia, avvinghiando le mani ai suoi capelli, sottomettendolo con la sua stessa lussuria e il suo stesso stupore, sfuggendo con destrezza felina al suo tocco. I sommessi mormorii che sfuggivano al giovane testimoniavano che egli doveva gradire molto quell’assalto, e la lasciava fare senza opporsi. Le selvatiche erano le migliori, quando erano state domate.
Continuando a incontrare con frenesia la sua lingua eccitata, a girarle intorno, aggredendola poi con scatto rapace, Vivian lo spinse di peso accanto al camino dove il fuoco scoppiettava allegro, sbattendolo contro al muro. Aprì i bottoni del panciotto ricamato con tal foga da staccarli dal morbido tessuto e ritirò la bocca dalla sua, depositandogli tanti, piccoli baci sul collo, sulla fronte e sul petto messo a nudo: “Voglio farlo adesso” disse con voce rauca.
Egli aveva lo sguardo ardente di gioia e di libidine: “Non potrei essere più d’accordo”.
Lo costrinse a stendersi sul pavimento di legno, appoggiandogli entrambe le mani sul torace e facendo forza, e si mise in ginocchio sopra di lui, infilandogli nuovamente la lingua in bocca. Il marchesino chiuse gli occhi e si concentrò sul bacio, le mani che scivolavano sul grezzo tessuto della camicia da notte alla ricerca dell’allacciatura.
Mentre i corpi aderivano l’uno all’altro in una danza convulsa e animalesca, le dita di Vivian, agili come zampe di gatto, serpeggiarono fino al crepitante camino e si avvolsero intorno al manico dell’attizzatoio dalla punta incandescente, estraendolo dalle braci nerastre. Antoine, troppo preso a spogliarla, neppure se ne accorse, e fu la sua rovina.
L’arma venne levata, il bagliore rossastro della punta rovente scintillò per un attimo nella semioscurità della stanza, quindi calò con forza terribile sul volto angelico del marchesino Rappenau e descrisse una mortale parabola che terminò in un suono disgustoso e in un grido bestiale e lancinante, talmente disumano, talmente straziato, da indurre i brividi al più temerario. Vivian si ritrasse agilmente dal corpo del giovane, l’attizzatoio sempre in pugno, il davanti della camicia lordato da uno spruzzo di sangue, gli occhi scuri ardenti di mille fiamme e l’espressione stravolta dalla ferocia e dall’odio, e lasciò Antoine a contorcersi pateticamente al suolo, le mani premute sull’ammasso informe che un tempo era stata la sua faccia e la bocca che emetteva mugolii raggelanti, indefessi. Il colpo era stato vibrato con violenza e aveva distrutto per sempre la sua bellezza, mangiandogli il naso, deformandogli la bocca, accecandolo. Non riusciva neanche a parlare, ma se avesse potuto, l’avrebbe senz’altro riempita di maledizioni e di bestemmie.
Ella fissò, diritta, salda, l’essere patetico che si dimenava ai suoi piedi. La punta dell’attizzatoio gocciolava sangue fresco, sangue che pian piano colava sul pavimento e si raggruppava in una pozza umida e viscosa. Non provava orrore per quel che aveva fatto, non provava nulla. Anche Erik si era sentito così, svuotato e apatico, dopo aver ucciso lo zingaro che tanto a lungo lo aveva torturato? Anche Erik aveva agito con aggressività meccanica?
Ma intanto il marchesino si riprendeva. Nessun essere umano si è mai arreso alla morte senza lottare, ha ceduto immediatamente al volere del suo assassino. Muovendosi con scatti innaturali, da verme, con la goffaggine dei ciechi, allungò una mano nella sua direzione e le afferrò la caviglia in una presa convulsa, tentando di farla cadere.
Lei agì con fulmineità impassibile e abbatté nuovamente l’attizzatoio su di lui, vibrandoglielo sul torace con tal violenza da frantumargli almeno un paio di costole. Il suono terribile delle ossa frantumate invase l’aria stantia della camera e dalla bocca senza labbra di Antoine sfuggì un secondo grido, più esile e smorzato, una sorta di gorgoglio liquido. Sangue copioso fiottò dalla sua bocca e gli scivolò sul mento, tuttavia non cedette. Trascinandosi con la forza delle braccia, cercava di strisciare, di allontanarsi, mostro di dentro e di fuori, creatura spregevole e corrotta sconfitta, infine, dalla sua eccessiva sicurezza, dal suo stesso disprezzo per gli altri. Vivian lo guardava dall’alto, invasa da una gelida determinazione, da un odio ustionante e violento, e non provava alcuna pietà per lui, per lo stato in cui lo aveva ridotto. Aveva mandato Erik a morire senza alcun ripensamento, l’aveva umiliata, e infine si era beffato di lei, offrendole un posto al suo fianco dopo averle portato via l’amato. Non meritava altro che questo.
Per la terza e ultima volta l’attizzatoio venne sollevato, le braccia snelle che lo sorreggevano accumularono le forze necessarie al colpo di grazia e lo diressero con precisione dritto sulla fronte della creatura in preda ai contorcimenti, spaccandola, liberando una perdita di sangue e cervella, rovesciandola a terra mentre egli emetteva l’ultimo gemito, forse una preghiera a Dio, un segno di rimorso, o, più probabilmente, un grido d’odio.
Infine, ci fu silenzio. Un silenzio quieto, pacificatore. L’arma scivolò dalle dita di Vivian e cadde a terra con un tonfo sordo. L’aveva ucciso. Aveva ucciso un uomo. Il cadavere abbandonato in una posizione innaturale accanto al camino, bloccato nell’atto di strisciare e ridotto ad una poltiglia rossastra che perdeva sangue dalle ferite al volto, al petto e alla testa, era stato creato da lei. L’enormità di quanto aveva compiuto le gravò sulle spalle tutta insieme, incurvandogliele, modificando la sua postura, prima ben eretta grazie all’innocenza dell’animo, ma ancora non giunse alcun rimorso, alcun biasimo verso il suo crimine. Aveva passato il punto di non ritorno. Adesso, lei ed Erik condividevano davvero ogni cosa. Ma aveva fatto la cosa giusta. L’unica cosa giusta. E se questo agli occhi di Dio significava dannazione, bene, sarebbero stati dannati insieme. Poteva fare qualsiasi cosa, in quel momento.
Un urlo acuto e penetrante spaccò l’aria e la strappò alle sue turbinose riflessioni, inducendola a voltarsi in direzione dell’uscio.
Madame Lefevre era immobile sulla soglia, le mani premute sul viso pallidissimo, gli occhi strabuzzati in un’espressione di orrore e di paura, e fissava alternativamente il cadavere straziato e la figura curva della ragazza dalla camicia da notte macchiata di sangue e dallo sguardo vuoto e deciso. Arretrò, tremando da capo a piedi, scuotendo più volte la testa come a negare ciò che aveva visto, e seguitò a gridare con voce terrorizzata: “Strega! Strega! Assassina!”
Un sorriso amaro danzò sulle labbra di Vivian. La gente vede quel che vuol vedere. Se una ragazza dalle povere origini e dalla cattiva reputazione viene sorpresa nella sua stanza con il cadavere martoriato di un ricco e amato marchesino, è certo che chiunque penserà di avere a che fare con una crudele meretrice di Satana, con una strega malefica e folle che aveva diretto la furia dei suoi poteri infernali contro un ragazzo innocente. Nessuno si sarebbe fermato a pensare ai motivi che l’avevano spinta a quell’atto fatale, nessuno avrebbe creduto alla tortura di cui era stata fatta oggetto, esattamente come era successo quando Erik era stato scoperto ad ammazzare lo zingaro. Tutto era apparenza, tutto era superficie.
E lei ne aveva abbastanza di cercare di dimostrare il contrario. Volevano una strega? Bene, li avrebbe accontentati. Non aveva bisogno di un volto sfigurato per meritarsi una simile nomea, era una donna. Alle donne basta poco per essere odiate e aborrite.
Si chinò sul cadavere di Antoine e afferrò l’elsa tempestata di gemme del suo fioretto, sfilandolo dal fodero appeso alla cintura e brandendolo con espressione così insensata, così furiosa da indurre la sconvolta tutrice ad attaccare la schiena al muro, in un ridicolo tentativo di sfuggire al suo assalto. Stupida donna superstiziosa e sprezzante. L’aveva sempre compatita, l’aveva accolta in casa sua per dimostrare d’essere una donna buona e pietosa, detestandola in tutto ciò che faceva. Premette la punta della spada sul suo collo, strappandole un rantolo terrorizzato, e sibilò: “Non una parola di più, maledetta megera. So che possiedi un calesse. Dov’è?”
Gli occhi acquosi dell’anziana donna la fissavano con orrore bigotto: “Tu sei la sgualdrina del demonio…ho accolto in casa una…”
Vivian aumentò la pressione della lama e scalfì la tenera carne della gola, smorzando quei balbettii: “Non ti ho chiesto di insultarmi. Ho ucciso il marchesino Rappenau, lo vedi? L’ho colpito con l’attizzatoio rovente finché non è crepato, l’ho spedito all’inferno. E farò la stessa cosa con te, se non mi rispondi”.
La sua minaccia non era veritiera, non avrebbe mai potuto uccidere la debole Madame Lefevre, ma la vista del corpo martoriato e del suo sguardo incandescente dovettero persuadere la donna di avere a che fare con una completa folle, così sussurrò, bisbigliando: “Giù…nella stalla…”
Bene. Scostò l’arma dalla gola della sua tutrice, reggendola con la mano sporca di sangue, e le rivolse un’occhiata intensa e penetrante: “Non seguirmi, signora. Non avresti mai dovuto farti carico di una ragazza che disprezzavi. Addio”.
Si volse, lasciandola a singhiozzare contro il muro. Ogni cosa, finalmente, le appariva chiara, cristallina. Il pensiero di Erik, che nelle ultime ore le aveva causato unicamente dolore e rimpianto, adesso era la luce che la sorreggeva nell’oscurità, la meta da raggiungere a tutti i costi.
Sapeva cosa doveva fare. E l’avrebbe fatto.

 
  
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