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Autore: Lue    11/03/2012    3 recensioni
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole
- Terzo capitolo -



 

Quando all’inizio di novembre cominciò il corso di scrittura creativa a scuola, io mi presentai, seguita da una delle mie migliori amiche, Marinella, che da grande voleva fare la giornalista e viaggiare per il mondo su una moto verde, i capelli biondi sciolti nel vento.
Il corso era tenuto dal mio insegnante di Italiano, il prof. Ennio Boldini, un uomo magro ed elegante, sulla quarantina. Scriveva racconti per bambini, il Boldini, e ce ne leggeva uno ogni anno, l’ultimo giorno di scuola; erano racconti scritti per i suoi cinque figli e la cosa straordinaria era la perfezione e l’accuratezza che impiegava nelle singole parole, nelle frasi e nei periodi, rendendo quelle storie dei piccoli capolavori.
Al corso partecipava anche Enea, che aveva fatto del Boldini il suo modello da seguire e passava tutte le due ore del martedì pomeriggio ad appuntare minuziosamente ogni parola del professore, senza interromperlo per domandargli alcuna cosa. Io, invece, ascoltavo e mi guardavo intorno.
Vedevo Marinella scrivere su un foglio bianco con la sua calligrafia grossa e un po’ brutta, che sapeva contenere parole tanto belle; Ada che mangiucchiava una penna e ogni tanto faceva scattare la mano nell’aria per porgere domande con quel suo accento strano – che pareva si fosse mangiato i dialetti di tutta Italia – e si sistemava sulla sedia, ché era troppo bassa, e altrimenti non vedeva il prof.; Gaetano – simpatico ma pesante amico di Ada ed Enea – che seguiva sonnecchiando, la testa abbandonata contro il muro laterale dell’aula e il ciuffo biondo che gli copriva il viso.
Alla fine della lezione il Boldini si sistemò gli occhiali a mezzaluna sul naso, si schiarì la gola e alzò lo sguardo su di noi.
“Per la prossima settimana vorrei che mi portaste qualcosa scritto da voi: una poesia, un racconto, una canzone. Ognuno di voi lavorerà sul suo scritto fino alla fine del corso, taglierete, riscriverete, amplierete e poi raccoglierò i vostri lavori per formare una specie di... libro, che terremo tutti come ricordo”, sorrise, “Sono molto orgoglioso di farvi sapere che questa del libro è un’idea del mio più piccolo, che ha cinque anni”.
Soffocai una risatina davanti al suo sguardo raggiante, e cominciai a mettere via la mia roba.
Mentre mi avviavo verso l’uscita Enea mi si avvicinò.
“Ciao!”.
“Ciao”, sorrisi un po’ imbarazzata.
“Cosa pensi di portare per il lavoro del Boldini?”.
“Io...”, esitai, “Pensavo a una poesia”.
Lui mi guardò incuriosito.
“Tu a cosa pensavi?”.
“Sai, non ho mai scritto poesie, ma racconti sì, quindi immagino che gliene porterò uno... Posso leggere una delle tue poesie una volta?”, mi domandò a bruciapelo.
No, certo che non puoi.
“Va bene, se vuoi te ne posso far leggere...”.
Ragazzi!”, Ada irruppe tra di noi, interrompendo il nostro discorso; Enea mi rivolse un sorriso, come per scusarsi.
“Gaetano fa una festa a casa sua sabato prossimo! Siamo tutti invitati! Alle otto, vi farò mandare l’indirizzo! Vado a dirlo a tutti! Ah, Vera! C’è Marinella che ti aspetta giù!”.
Ada era un tornado: piccola, magra, velocissima, fumatrice accanita e confusionaria.
Io ed Enea ci scambiammo uno sguardo e scoppiammo a ridere.
“Scappo, allora, ragazzi, che quella mi uccide se la faccio aspettare ancora”.
“Verrai, non è vero?”, mi domandò svelto Enea. Le sue richieste mi coglievano sempre all’improvviso, erano lievi, imprevedibili, non riuscivo a evitare di rispondere.
“Sì, credo di sì”.
“Perfetto!”, esclamò Ada battendo le mani e scuotendo il caschetto biondo, “Allora a sabato, tesoro!”.
Uscii da scuola e trovai Marinella che mi aspettava appoggiata alla vetrina di un negozio, battendo ritmicamente il piede per terra; quando mi vide si mosse minacciosa verso di me. La fermai prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa.
“Ho fatto un sogno”, le dissi.
Lei alzò gli occhi su di me, si accese una sigaretta e mi fece un cenno.
“Racconta”.
 
Mi presentai a casa di Gaetano seguita a ruota da Marinella e Leonor, un’altra delle mie amiche. La madre di Lea era una spagnola alta e prorompente, dai folti capelli neri e un marcato accento, ma Lea aveva preso tutto dal padre irlandese: non era altissima, portava una corta capigliatura rossa e la sua pelle chiarissima era spruzzata di lentiggini.
Gli altri erano già arrivati e io mi guardai intorno per cercare gli occhi di Enea. Era seduto al tavolo della cucina ed esaminava sei bottiglie di vino rosso.
“Chi cavolo ha comprato il vino? Non basterà mai per tutti!”, il suo sguardo sorpreso si spostò su di me, e io gli feci un piccolo cenno di saluto. Prima che lui potesse rivolgermi la parola, Gaetano mi strinse in un abbraccio stritolatore.
“Ciao Vera! Ciao Lea! Marì! Venite, vi faccio vedere dove mettere le giacche...”.
Quando ci fummo tutti sistemati in salotto, Ada stappò una bottiglia e ce la offrì.
Pochi minuti dopo, un sorso dopo l’altro, il vino era circolato nelle nostre vene e le nostre guance sopportavano paonazze il peso delle nostre risate.
Quando mi sembrò che la mia mente fosse abbastanza lucida, andai in cucina per cercare qualcosa da mangiare. Enea, appoggiato al lavello, stava aprendo un’altra bottiglia di vino rosso e scoppiò in una risatina quando mi vide.
“Vuoi?”, mi fece un cenno indicando prima la bottiglia e poi una sedia.
Presi posto di fronte a lui e bevvi un sorso di vino dalla bottiglia, mentre il sapore pungente mi macchiava di rosso le labbra.
Ci guardammo negli occhi, e i suoi erano così grandi e così azzurri, e i miei così scuri e profondi.
“Allora”, mormorò avvicinandosi, “Raccontami un po’ di te”.
Scoppiai a ridere, e cominciai a parlare.

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Sono super malata e super costretta a casa, mi sembrava doveroso aggiornare :)

 

   
 
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