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Autore: hikarufly    13/03/2012    4 recensioni
Post "The Reichenbach Falls", Sherlock Holmes è scomparso e il dottor John Watson ha dovuto voltare pagina... eppure ci sono ancora misteri da risolvere e un nuovo capitolo della propria storia da affrontare: un incontro casuale diventa uno dei momenti più importanti della sua vita.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mary riaprì gli occhi lentamente: il sole di Parigi riempiva la stanza e il suo tepore era come una bevanda calda e rilassante. Si tirò su con lentezza, sentendo uno strano dolore simile a quando aveva la febbre, come se le sue ossa fossero indebolite. Focalizzò meglio Sherlock Holmes che la fissava imperterrito dal fondo del letto solo qualche istante dopo. Scattò a sedere, stropicciandosi il volto e arruffandosi i capelli nel tentativo di sistemarli.

«Hai già scoperto chi è stato?» chiese lei, osservandolo, seria. Ormai era una questione personale. La sua risposta fu uno sguardo offeso dal fatto che avesse pensato che la cosa fosse in dubbio.

«Ti senti meglio?» domandò lui, serio, con un tono ansioso, ma non per la salute di Mary. La ragazza se ne rese subito conto e alzò un sopracciglio.

«Se intendi se mi sento bene abbastanza per smascherare questo assassino, sì. Ma chiamerai Mycroft, prima. Non la polizia francese» precisò lei, con sguardo eloquente. Sherlock sbuffò impercettibilmente e si allontanò per lasciarla alzare e scendere dal letto.

«Dov'è? L'assassino, intendo» chiese lei, incrociando le braccia e osservandolo con un misto di paura e impazienza.

«Sarà qui tra poco» dichiarò Sherlock, mentre le porgeva un maglioncino leggero abbandonato su una poltrona accanto a lui. Si sentirono dei passi salire le scale. Mary osservò con paura la porta e poi Sherlock, aspettando, come succedeva ormai da un po', che l'adrenalina si placasse e che lui risolvesse ogni cosa, in modo da poterla lasciare in pace. Da poterla far tornare a casa.

La porta non era chiusa e da essa entrò Didier Rolland, trafelato e visibilmente pallido in viso. Sherlock si sedette in una poltroncina del salotto, in cerca di una posizione che, in presenza di un arredamento diverso da quello di Baker Strett, non avrebbe portato a farlo sentire comodo. Mary restò qualche passo distante da lui, pronta a rifugiarsi nella stanza da letto.

«Monsieur, vous devez me s'aider!» esclamò, avvicinandosi talmente in fretta da far scattare Mary indietro di qualche passo. Un'occhiata di Sherlock la fece sentire insieme più sicura eppure più spaventata. Il consulente investigativo incrociò le dita, e poi le unì in quella posizione simile alla preghiera che gli era così familiare.

«Perché dovrei, Monsieur? La vendetta non è un pretesto per essere aiutati» replicò Sherlock, gli occhi taglienti e pieni di una sorta di rancore e disgusto.

«Io la amavo, che voi ci crediate o no» rispose in un inglese furioso e pieno inflessione francese, dettato dall'emozione e la paura «ho scoperto chi siete, Monsieur Sherlock Holmes... potete tingervi i capelli o fare finta di essere morto ma la vostra natura non ve lo permette, non è così? Un mystère, et vous arrivez. I giornali non si sbagliavano»

Sherlock ebbe un piccolo fremito: non gli interessava l'opinione degli altri, almeno non quella di chiunque. Per un attimo, si chiese se John... Sherlock si voltò verso Mary. Ancora una volta era seria, decisa, e negli occhi annaspava nella paura. C'era un'altra ragione per cui era pronta a scattare, a difendersi, e non era più lui, non era più la gratitudine per ciò che aveva fatto per lei, non era più l'affetto di Mary che suo malgrado lui sapeva di avere. Era la volontà di tornare da John, di essere al fianco della persona giusta. A Sherlock erano bastati pochi attimi, come sempre: qualche nota diversa nella voce di Mary al telefono con il suo ex coinquilino, il suo gesto nervoso di tormentarsi le mani quando lei era convinta che lui non la vedesse... una piccola parte di lui ne era stato colpito, doveva ammetterlo: aveva perso un assistente. Eppure ne era quasi felice. Significava che finalmente tutto stava per cambiare.

La sua riflessione non durò più di qualche centesimo di secondo, e Sherlock si voltò di nuovo verso Rolland.

«Quale studente squattrinato di farmacia della Paris VI ha convinto a creare quella droga che ha ucciso prima i proprietari del Fountain e poi Robert Duchamp?»

«Ha importanza?» chiese Rolland, crollando sulla poltroncina di fronte a quella di Sherlock, la testa tra le mani «Quel verme di Robert Duchamp deve avermela sfilata dalla tasca, l'ultima volta che abbiamo discusso»

Mary lo osservò perplessa, non capendo perchè si riferisse solo al proprietario del 2 moulins. Sherlock intercettò la sua domanda prima che la ponesse.

«Voi amavate Brigitte Duchamp, Monsieur Rolland, su questo di certo non mi mentireste. Non ne sareste capace. In più, non ci è voluto tanto a scoprire che invece il fratello maggiore della ragazza, Robert, non era in buoni rapporti con voi e nemmeno con il sangue del suo sangue, cioè Olivier e Brigitte» spiegò, quasi annoiato dalla banalità con cui era venuto a conoscenza di questi fatti.

«Era geloso, era... bigotto. Lui non voleva che lei aprisse quel locale, e avevamo discusso perché Robert era venuto a sapere che avevo co-finanziato l'apertura. Ha avvelenato lui quei tre poveri ragazzi, su quel palco. Si è meritato di morire in quel sonno artificiale che la mia droga crea» concluse Rolland, infuriato.

Sherlock sembrava sul punto di controbattere, ma dalla porta arrivò un'altra persona: Mycroft Holmes. Dotato come sempre di ombrello e orologio da taschino appeso alla leggera catena che aveva portato suo padre, si ergeva in tutta la sua altezza poco lontano dai due interlocutori. Portava un cappotto leggero ed elegante, e come sempre sembrava annoiato ma era ovviamente guardingo e attento. Aveva con sé con un paio di agenti di scorta alle calcagna, che si avvicinarono a Mary di qualche passo, ma l'occhiata furiosa e secca di Sherlock non li fece muovere oltre.

«Monsieur Rolland, credevo di essere stato chiaro nelle mie intenzioni, ma pare che senza un traduttore facciate finta di non capire» disse, mellifluo, Mycroft, mentre il francese sbiancava «Per quanto riguarda l'omicidio di Robert Duchamp, potrete decidere come meglio credete: l'interpol verrà informata del vostro coinvolgimento solo se tenterete di nuovo di prendermi in giro. Per quanto riguarda l'identità di mio fratello, se terrete la bocca chiusa non solo non avrete nulla da temere, come già vi anticipavo, ma anche un “aiuto”» continuò il più vecchio Holmes, con il viso molto meno accondiscendete del tono e della natura delle sue parole. Uno dei due agenti prese di peso Rolland, e lo portò fuori in tutta fretta, diretto a un'uscita secondaria del condominio che neanche la più vecchia inquilina conosceva.

Mary aveva assistito al tutto senza una parola, ma con un leggero sollievo, per una volta, nel vedere il fratello di Sherlock intervenire. L'agente rimasto non si mosse, ma era decisamente in attesa di ordini. Mycroft Holmes si sedette dove prima c'era Rolland, e dopo alcuni secondi passati a scambiare una conversazione tacita e intensa con Sherlock attraverso gli occhi, annuì e il terzo uomo si mosse verso Mary. Questa si allontanò di qualche passo, ma Sherlock si voltò verso di lei.

«Ti porterà a casa nella maniera più rapida e sicura possibile» specificò, come se fosse ovvio, ma anche con un tono che le comunicava sicurezza e fermezza. L'agente annuì con fare confortante, ma Mary non si mosse e li osservò come se le avessero appena rubato dei gioielli di dosso facendo finta che fosse normale.

«E tu... che cosa farai?» chiese, titubante, confusa dalla voglia disperata di rivedere John ma inconsciamente preoccupata che senza di lei Sherlock potesse fare una sciocchezza.

«Abbiamo del lavoro da fare, fratellino» si intromise Mycroft, con un sorrisetto che Sherlock non parve gradire. Si voltò verso di lei, e intuendo che qualsiasi altra cosa l'avrebbe fatta infuriare e sentire in colpa, rispose con lentezza.

«Grazie di essere stata qui. Ma è tempo che io resti solo»

Mary abbassò la testa, quasi imbarazzata, e dopo un istante appena, seguì l'uomo che la invitava a uscire con un sorriso comprensivo, fissando i due fratelli e sentendo quasi i loro pensieri.

 

Il Nokia N97 di John Watson si esibì in un trillo che per poco non lo scaraventò a terra. Evitò la panchina che gli ostacolava il passaggio, e tirò fuori lo smartphone: un messaggio breve ma meraviglioso di Mary gli annunciava il suo imminente ritorno. Un sorriso sereno si distese sul suo volto stanco, di ritorno da un incontro rapido ma intenso con Mrs Hudson di fronte alla tomba di Sherlock. Era il terzo anniversario di quel giorno così vivido e grigio in cui il suo migliore amico si era lanciato dal tetto del St. Bart's Hospital. Si era sentito di nuovo solo, spaesato e svuotato. Aveva sognato uno dei tanti giorni che aveva trascorso al 221b di Baker Street, aveva ringraziato Mrs Hudson per un caffè da asporto ed si era deciso a passeggiare un po' lungo Park Lane, per avere uno dei polmoni verdi di Londra da un lato, e una riflessiva e rassicurante parte della città dall'altra. Dio, o forse Sherlock Holmes, solo sapeva quanto avrebbe avuto bisogno di avere qualcosa da fare, qualcosa di più...

Svoltando su una curva a gomito, ciò che vide fu, intorno a una villetta indipendente, un certo trambusto. Qualche passo ancora, e si rese conto che c'erano due auto della polizia e un furgoncino attrezzato a trasporto materiali della scientifica. Alcuni agenti in divisa si affollavano e affrettavano tutto intorno finché una terza auto, smarcata, accostò poco più in là. Uno dei bobby andò ad aprire la portiera, dalla quale emerse DCI Lestrade, la pelle bronzata e i capelli brizzolati quasi identici a quelli che John ricordava dall'ultima volta che l'aveva visto tornare da una breve vacanza all'estero. La morte di Sherlock non li aveva fatti allontanare, ed erano rimasti amici.

John Watson si avvicinò con una piccola corsa al luogo, e fu Sally Donovan, scesa dalla portiera opposta al suo capo, a vederlo e riconoscerlo. John la salutò cordialmente, e infine venne notato da Lestrade che si avvicinò a lui e gli strinse la mano.

«Non posso fermarmi, John, mi dispiace. C'è del lavoro» ammise, lanciando un'occhiata a un collega del suo stesso grado, o forse superiore. John non fu in grado di capirlo: se solo non fosse stato solo... Gregory Lestrade non lasciò andare la sua destra, e avvicinò il capo.

«Sarei ben felice di farti salire e vedere la scena del crimine... ma da quando è successo quel che è successo non posso permettermelo» spiegò, lasciando la stretta e sorridendo di frustrazione.

John Watson gli fece capire con un cenno che comprendeva, che non doveva scusarsi e che non era decisamente colpa sua. Si allontanò con la fronte aggrottata e lanciando un'ultima occhiata curiosa al piano di sopra, dove il vetro sembrava intatto ma ad un'osservazione più accurata, era stato perforato.

 

Il rumore e l'affollamento di Heathrow erano ancora a dei livelli sopportabili, e John Watson per una volta si sentì fiero di non essersi perso. Non che fosse tanto sbadato: era l'agitazione per l'imminente incontro. Mary si muoveva - ora la riusciva a scorgere! - nervosa e dimagrita, oltre che abbronzata, trascinando un voluminoso trolley. John sorpassò qualche gruppetto, sgusciando tra loro come un bambino che scappa dalle mani dei compagni di classe che lo vogliono acchiappare, e venne riconosciuto da lei quando solo pochi metri li separavano. Il viso di Mary si distese, ma lui non poté fare a meno di notare che non era serena come sempre, anche se il suo sollievo era superiore al solito e c'era anche una piccola lacrima di commozione agli angoli dei suoi occhi. Lo abbracciò stretto, mentre lui la imitava e si inebriava del profumo dei suoi capelli. Mary riaprì gli occhi solo quando ebbe sfiorato i capelli sulla nuca di John con le dita. Quando lo fece, ebbe un tuffo al cuore nel riconoscere due uomini a molti metri da loro: un ciuffo di capelli rossi sulla testa di uno, avvolto in un lungo cappotto, e un ombrello appeso al braccio dell'altro.

   
 
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