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Autore: Alkimia    14/03/2012    1 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo nono
Fantasmi


~ Napoli, 10 aprile 1871 ~

Quando Marchesi gli aveva detto che il teatro sarebbe rimasto chiuso in occasione delle festività pasquali, la reazione di Erik era stata piuttosto burrascosa. Quel suo “Come sarebbe a dire?!” lo aveva quasi urlato, tanto che il buon Guglielmo si era rannicchiato su stesso e per poco non si era infilato sotto il piano della scrivania.
L'annuncio che il San Carlo sarebbe rimasto chiuso per ben cinque giorni aveva lasciato Erik assolutamente contrariato. Avrebbe voluto replicare che l'arte non conosce feste e vacanze, ma qualcosa gli aveva suggerito che sarebbe suonato tremendamente fuori luogo. Lui non conosceva feste e vacanze, ed era un problema assolutamente suo. Come molte altre cose, del resto.
Da dietro la scrivania del suo ufficio, Erik controllava e ridimensionava con caparbia precisione i tasselli della sua nuova esistenza, di quella seconda possibilità non voluta, cercando di non prestare attenzione a tutte quelle schegge impazzite che non sapeva ancora dove collocare, alla miriade di cose che sentiva estranee e inconcepibili.
Era questo il mondo di cui aveva sempre desiderato di far parte?
L'uomo cominciava a rendersi conto che non gli importava del mondo, che non gli era mai importato. Ciò che vedeva davanti a sé, ciò che una volta gli era stato precluso, era solo una folla indistinta di occhi e orecchie tese ad ascoltare, ad ammirare il suo genio. Tutto il resto non contava, questo era il solo ossigeno di cui la sua esistenza necessitava, ma per gli altri non era così. Lui era un Fantasma, loro erano persone. Lui era poco più di un'ombra che muoveva le corde di un violino, una voce appena sussurrata che poteva prendere le voci degli altri e portarle fino allo straordinario, facendo brillare il talento altrui di luce riflessa. Al di fuori di quei piccoli grandi prodigi non c'era molto, il trucco che rimaneva nascosto quando finiva la magia era lo squallido riflesso di un nulla incolmabile.
Più ci pensava e più si rendeva conto che non c'era una vera e propria ragione dietro ai suoi gesti, né c'era un motivo valido per quel suo caparbio attaccamento alla vita, un'esistenza alla quale tante volte aveva desiderato di porre fine senza mai riuscirvi. Tutti gli altri invece avevano i loro motivi. Graziana, ad esempio aveva fame di gloria – perseguita magari con fini del tutto opinabili, ma era pur sempre una ragione che dava senso a tutto, anche alle brutture che nascondeva dietro al suo viso di fata. Lui, invece, cosa aveva? Cosa lo muoveva verso la musica?
Fu quasi con raccapriccio che Erik si accorse di non avere una risposta a questa domanda. Lui non si stava muovendo verso la musica, verso niente, lui stava solo fingendo di scappare da un buio e da un silenzio che ormai erano mischiati al suo stesso sangue, che avevano messo radici così profonde dentro di lui da far appassire qualsiasi altra cosa. Persino l'amore che gli aveva avvelenato la mente sbiadiva in mezzo a tutto quel vuoto, ingoiato da un pozzo senza fondo in cui ogni sua emozione precipitava all'infinito, muta e impotente.
La musica, il teatro, lo splendore che stava tentando di imprigionare nelle scenografie e nei costumi che aveva progettato, erano solo lustrini in mezzo alla spazzatura, un velo di vernice dorata che copriva il marciume.
Le sue notti erano costellate di immagini di sangue e fuoco che gli avevano marchiato l'anima, lasciando i segni indelebili del rammarico, del dolore. In quegli incubi Erik vedeva i suoi occhi spegnarsi piano, come quelli degli uomini a cui aveva tolto la vita.
C'era una barriera dentro di lui che arginava tutto quell'orrore, ma adesso la barriera era crollata, ridotta in frantumi dal bacio non voluto di una donna non desiderata. Una donna che aveva tremato di piacere contro il suo petto e che avrebbe tremato ancora di più se quella maschera fosse caduta, se ogni maschera fosse caduta.
Il Fantasma dell'Opera era lì, non se n'era mai andato. La sua voce faceva eco nei suoi pensieri, il suo respiro si agitava nell'eco dei suoi passi, e tutto quel fuggire non era altro che un continuare a nascondersi perché lui non poteva mostrare al mondo ciò che era, non poteva aspettarsi che qualcuno gli posasse una mano sul petto e si rendesse conto che in realtà il suo cuore non stava davvero battendo.
Il sole stava tramontando oltre la cupola della chiesa di San Francesco, gettando nel cielo terso un riverbero quasi dorato. Erik si chiese perché quel mare, che sotto quella luce assumeva lo stesso colore del sangue, non potesse semplicemente giungere fin lì e inghiottirlo, ora che tutti erano andati via, che il teatro era rimasto vuoto per le vacanze pasquali, come aveva detto Marchesi...
Qualcuno bussò alla porta facendolo sobbalzare.
«Non adesso!» ringhiò. Chi diamine era? Non c'era nessuno nel San Carlo.
Inutile, la porta si aprì lo stesso e malgrado la rabbia che rimescolava la nebbia dei suoi pensieri, lo sguardo di Erik si addolcì un po' quando vide chi era stato ad entrare.
La piccola Luisa attese sulla soglia, fissandolo con una certa apprensione. Da dove era saltata fuori? Era una strega quella bambina da avere occhi che sapevano guardare così dentro di lui?
Quando Erik pensava di non aver mai provato pena per un altro essere umano, in realtà era in errore. Aveva provato pena per quella ragazzina, alla quale era toccata quella che gli sembrava una sorte ben peggiore della sua: non avere voce, che infernale supplizio deve essere! Ed era da questa pena che era nato uno strano affetto capace di ammansire il mostro come nemmeno la sua dolce musa aveva potuto fare in quel tempo che ormai appariva lontanissimo.
«Tu... come mai sei qui?» chiese con un filo di voce, sorpreso dai suoi stessi pensieri.
La ragazzina attraversò l'ufficio e si fermò accanto a lui, lo prese per mano e lo tirò verso di sé indicandogli con l'altra mano libera la porta aperta.
«Dove vuoi che venga?» le domandò ancora l'uomo, sentendo che non avrebbe avuto la forza nemmeno di seguirla oltre la soglia.
Luisa si batté una mano sul petto.
«A casa tua? L'idea che io possa avere voglia di stare da solo non è contemplata nei tuoi progetti?».
Lei sbuffò e si strinse nelle spalle, poi sorrise.
No, l'idea non era affatto contemplata e lui avrebbe dovuto adattarsi, che gli piacesse o meno!
«Non verrò con te...».
Luisa gli tirò un buffetto leggero sul braccio e annuì con un energico cenno del capo: sì che verrai!
«PASQUA» articolarono le sue labbra, senza che ne uscisse un solo suono.
«Cosa ti fa credere che me ne importi?».
La ragazzina aggrottò le sopracciglia e lo spinse via in modo brusco. Esasperata, si avvicinò alla scrivania e afferrò un foglio.
IMPORTA A ME, scrisse.
Ah, certo... si trattava di quell'attitudine del tutto femminile di riuscire a mettere gli individui con le spalle al muro. Lo aveva fatto Graziana, letteralmente, e adesso lo stava facendo la ragazzina con un sistema un po' meno brusco. Provava della gratitudine per lei, per la costanza con la quale gli era stata vicino, sommando i propri silenzi ai suoi, senza mai chiedergli nulla, e senza che lui avesse bisogno di fare domande. Luisa sapeva trovare le risposta per entrambi con una caparbietà che lasciava Erik disarmato.  
«Ho ucciso delle persone». La frase fuggì dalle labbra dell'uomo come il primo cristallo di ghiaccio che si stacca dal fianco di una montagna e genera una valanga.
Luisa si fermò, impietrita in mezzo alla stanza, con la mano a mezz'aria che si tendeva verso la sua. Dopo qualche secondo pesante come l'eternità, si mosse, scosse il capo.
«È vero» insistette Erik cupo.
Gli occhi della giovinetta si velarono di lacrime. Qualcosa da qualche parte nella mente dell'uomo andò in frantumi. Il pozzo senza fondo succhiava anche la luce e il calore degli ultimi raggi di sole.  
Che lo vedesse, che vedesse il mostro, che ne fosse spaventata...
Luisa prese un altro foglio.
NON SEI STATO TU, È STATO IL FANTASMA.
«Sono io il Fantasma».
NON PIÙ.
«Non puoi salvarmi, piccola mia, nessuno può».
TU PUOI.

No, non posso...

*

Le prime stelle occhieggiavano pigramente dal cielo che andava scurendosi.
Il duca stava passeggiando avanti e indietro davanti al colonnato del San Carlo, in attesa che sua figlia uscisse e lui potesse scoprire se Luisa era riuscita o meno nel suo intento. Era stato un'idea della piccola invitare Erik da loro per Pasqua, quando aveva saputo che il teatro sarebbe rimasto chiuso e vuoto. Non che lui non ci avesse pensato, ma era quasi del tutto certo che il loro amico francese avrebbe detto di no.
Mariano Giusso aveva cominciato a nutrire qualche dubbio sulla riuscita del suo progetto. All'inizio gli era sembrata un'ottima idea quella di rendere a Erik il suo mondo, offrirgli la possibilità di fare ciò che aveva sempre fatto, di permettergli di mostrare il suo genio alla luce del sole. Sapeva che quell'uomo non era fatto per stare in mezzo alle persone, troppi anni di solitudine gli avevano deformato l'anima e la mente, ma all'inizio il duca era convinto che la novità avrebbe prevalso, che il sole avrebbe vinto il buio.
Adesso che guardava la sera stendersi nel cielo di Napoli, Mariano Giusso cominciava a pensare che qualsiasi sforzo si possa compiere, la notte giunge sempre. Ed Erik apparteneva alla notte.

Dov'è finita la tua fede nei miracoli?...

«Dov'è finita la tua fede nei miracoli?». Glielo aveva chiesto anche sua moglie, tanto tempo prima, quando i medici aveva già detto che non c'era più niente da fare. In effetti, anche lì la fede non aveva potuto molto... e lui aveva bisogno di un nuovo miracolo da attendere. Non c'era davvero un motivo preciso per cui aveva sperato che il miracolo in questione fosse la salvezza di Erik, quando lo aveva trovato sulla sua strada lo aveva interpretato come un segno. Ma nelle sue visite al San Carlo, quando era andato a trovare il Maestro francese – Dio, il titolo doveva compiacerlo non poco!  – si  era reso conto che era ancora l'angelo con le ali spezzate, che i suoi tentativi di spiccare il volo erano maldestri e destinati a fallire.
Oh, Erik era ammirato da tutti in quel teatro, era ammirato per le sue competenze e per il suo talento ma non bastava, perché lui prendeva questa ammirazione e la sommergeva con tutto il dolore che non era ancora riuscito ad affrontare.
E Giusso era certo che fosse accaduto qualcosa in quegli ultimi giorni, qualcosa che aveva definitivamente tarpato le ali a quell'angelo caduto, qualcosa che lo aveva sconvolto. Gli occhi di Erik erano tornati distanti, velati da quello sguardo che il duca aveva temuto, quello sguardo che spazzava via la possibilità di ogni miracolo.
«Oh, Signore... aiutalo» aveva pensato Giusso qualche giorno prima. «Aiuta lui o dovrai aiutare noi tutti».
Ripeté quella preghiera a fior di labbra, ricordando i racconti di madame Giry a proposito dell'uomo che era stato – che forse ancora era – il Fantasma dell'Opera.
Il battente del portone del teatro si aprì cigolando.
Luisa fece capolino oltre la soglia. Erik le teneva la mano.
Il duca sorrise. Forse c'era ancora qualche speranza.  

*******
 
~ Parigi, 06 maggio 1892 ~

Che Dio maledica lui e tutti i De Chagny!
Fu il primo pensiero che formulò Luois uscendo dal portone della palazzina, quando si trovò davanti Gustave, in piedi sulla panca di un calesse al quale era attaccato un cavallo bianco che sembrava uscito da un libro di favole. Accanto al ragazzo biondo c'era quello che avrebbe dovuto essere il conducente, probabilmente un galoppino di suo padre, ma era il giovane figlio del visconte a tenere in mano le redini, sorridendo come un bambino davanti a un nuovo giocattolo.
Aveva davvero intenzione di attraversare Parigi in calesse?
«Una magnifica giornata, non trovi?» esclamò Gustave entusiasta, rigirandosi tra le mani le redini di cuoio.
«Sì, o almeno lo era fino a un attimo fa» borbottò Louis, chiedendosi perché si era fidato di quel ragazzo folle con i capelli a salice piangente. Gli aveva detto che avrebbe preso una carrozza per raggiungere la tenuta della sua famiglia, ma lui aveva insistito che non avrebbe mai permesso a un suo caro amico di affrontare quel viaggio da solo. Come se dovesse arrivare in Portogallo!
La tenuta dei De Chagny era appena fuori Parigi, tutti la conoscevano e Louis sarebbe stato perfettamente in grado di arrivarci da solo, ma Gustave aveva voluto essere premuroso e ora avrebbero dovuto andarsene in giro come turisti esagitati, in una giornata soleggiata ma parecchio ventosa, tra l'altro.
«Perché un calesse?» chiese Louis salendo sul sedile, con il vento che gli scompigliava i capelli.
In quei giorni, a Napoli, i primi temerari cominciavano a tuffarsi in mare. Lì a Parigi sembrava che il sole fosse lontanissimo, molto più in alto di dove si trovava di solito.
Era lì da circa tre settimane e ora gli toccava ammettere che cominciava a sentire la nostalgia di casa, la nostalgia della sua città e di sua madre. Chissà come se la stava cavando lei da sola...
Ma Louis non avrebbe lasciato la Francia prima di aver concluso la lettura del diario e di aver capito perché sua madre l'aveva spedito fin lì per lasciare che lui leggesse.
Intanto, il vento gli seccava le labbra e gli inumidiva gli occhi, mentre Gustave lanciava il cavallo al galoppo per le strade di Parigi.
Il viaggio non fu per niente piacevole. Ogni volta che le ruote finivano per urtare un rialzo o incontrare una buca nel terreno, il calesse riceveva uno scossone che Louis sentiva vibrare attraverso ognuna delle sue vertebre. Per un attimo pensò che gli si sarebbe spappolato il cervello a forza di urti e strattoni. Attorno a lui la gente si voltava a guardare incuriosita, quel mezzo di trasporto doveva apparire così sorpassato...
Poi finalmente si lasciarono la città alle spalle. Il centro di Parigi sembrava una foresta che si andava diradando verso il deserto, le costruzioni si facevano più piccole e più distanti le une dalle altre, man mano che ci si avvicinava alla campagna.
Percorsero un'ampia strada sterrata, con il vento che soffiava addosso a Louis polvere e foglie morte, poi la tenuta della famiglia De Chagny comparve all'orizzonte come un miraggio.
Era una bella palazzina dalla facciata neoclassica, preceduta da un viale alberato con ai margini un prato che sembrava un tappeto soffice di seta color smeraldo.
Louis si chiese cosa se ne facesse una famiglia di tre persone di una casa così grande e di tutto quello spazio, e tra sé e sé si sentì grato di essere sempre vissuto in un attico di una palazzina che affacciava sul lungomare.
Gustave frenò bruscamente, facendo quasi cadere il passeggero dal sedile sul quale era scomodamente appollaiato.
«Benvenuto!» esclamò balzando a terra.
Louis fu certo che la schiena gli si sarebbe spezzata nel momento in cui avrebbe tentato di tornare in posizione eretta, ad ogni modo cercò di darsi un'aria disinvolta e scese dal calesse, quasi inciampando sulla ghiaia che scricchiolò sotto le sue scarpe.
Appena varcarono la soglia, un domestico andò loro incontro e gli prese le giacche. Louis cominciava già a sentirsi a disagio ed era certo che se avesse parlato la sua voce avrebbe fatto eco tra quelle pareti. Quando Gustave chiese a un maggiordomo di informare usa madre del loro arrivo, il ragazzo si sentì quasi angosciato. Era già stato in case di nobili, aveva frequentato tanta gente dell'alta società, ma tutto quello sfarzo e tutta quella formalità cominciavano a metterlo a disagio.
Era più che certo che la madre di Gustave si sarebbe rivelata una donnina del tutto insipida e odiosa e che nel giro di cinque minuti lui si sarebbe pentito di aver accettato l'invito dell'amico per quel tè.
«Madame può ricevervi» annunciò il maggiordomo con un sorriso reverenziale.
Louis seguì Gustave in un salottino piccolo e accogliente, inondato dal sole che in quelle ore della giornata doveva battere proprio in direzione di quell'ala del palazzo. Seduta su un sofà al centro della camera c'era un donna che si alzò appena li vide entrare.
«Buon pomeriggio, maman» mormorò Gustave. «Lasciate che vi presenti Louis».
Il giovane cercò di celare l'espressione stupita che stava per affiorargli in viso, mentre la viscontessa De Chagny muoveva un passo verso di lui.
Era una donna ancora giovane, di corporatura minuta, con un bellissimo viso dai grandi occhi castani. Portava i capelli, ricci e ribelli come quelli di suo figlio, legati in una semplice coda alla quale sfuggiva qualche ricciolo che le ricadeva impertinente sulla fronte di porcellana. C'era una dolcezza nello sguardo e nell'espressione di madame De Chagny che rimandò alle mente di Louis l'immagine di sua madre, soffiando un velo di malinconica e tenera nostalgia nei suoi pensieri.
Il giovane prese la mano della donna e vi impresse un lieve bacio.
«Sono lieto di conoscervi, madame» mormorò in tono formale.
«Christine» lo ammonì dolcemente la donna. «Vi prego, solo Christine». Il sorriso le disegnava sottili solchi agli angoli della bocca, ma Louis la trovò comunque bellissima, più di quanto Gustave gli aveva raccontato.
La padrona di casa fece cenno al suo ospite di accomodarsi. Quando si furono seduti, madame De Chagny chiamò una domestica e chiese di preparare il tè.
«Gustave mi ha parlato così tanto di voi» esordì Christine spiando con interesse il viso del giovane. «Che mi sembra di conoscervi già, anche il vostro viso ha un'aria familiare, sapete. Mi dice che siete un eccellente musicista, tra l'altro».
Louis sorrise imbarazzato,
«Non avete insegnato a vostro figlio a non dire bugie?» scherzò. «Mi piace la musica, tutto qui».
«Adesso fai il modesto, amico mio. Sapete maman, ha un violino che suo padre ha fatto costruire appositamente per lui. Dovreste sentirlo suonare... non sono riuscito a convincerlo a portare il violino con sé» trillò Gustave.
Il giovane avrebbe voluto zittire il ragazzo biondo con un calcio. Era davvero un bravo musicista, forse persino eccellente... ma adesso era troppo in imbarazzo per pensare di suonare. E non capiva per quale ragione si sentiva così scioccamente un pesce fuor d'acqua seduto su quella poltrona, sotto lo sguardo di quella donna che lo guardava come a cercare di ricordarsi dove lo avesse visto.
«Avete fatto molto male a non portare con voi il vostro violino» lo riprese in tono bonario Christine. «Ma voglio sperare che questo non sia il nostro ultimo incontro».
«Non sarà di sicuro così, madame... ehm, Christine»
«Bene. Amo molto la musica, sapete. E temo di avere già parecchio a cuore voi, per tutto quello che mi ha raccontato mio figlio».
In quel momento la porta del salottino si aprì. Louis si aspettava di vedere entrare la cameriera con il vassoio del tè invece entrò un uomo sulla quarantina. Doveva trattarsi certamente del visconte De Chagny. Era un bell'uomo, dal portamento elegante, i capelli biondi dello stesso colore dorato di quelli di suoi figlio cominciavano ad essere striati da rari fili d'argento, ma il viso conservava ancora dei tratti giovanili e gentili, resi un po' più seriosi da un paio di baffi dello stesso colore del grano maturo. Aveva gli occhi di una bellissima tinta di azzurro, sereni come un cielo primaverile.
Louis si alzò rispettosamente in piedi, appena l'uomo mosse i primi passi nella stanza.
«Monsieur visconte, è un onore potervi incontrare» disse cortese.
L'uomo gli rivolse un sorriso squisito e gli strinse la mano.
«Voi dovete essere Louis, il musicista italiano. L'onore è mio».
Louis avrebbe giurato che c'era stata una nota rigida di gravità nel modo in cui l'uomo aveva pronunciato la parola musicista. Dall'idea che si era fatto di lui, attraverso i racconti di Gustave, il giovane era convinto che il visconte fosse un uomo decisamente poco amante dell'arte, e lo aveva immaginato un dispotico vecchio brontoloso. Ma l'uomo che aveva davanti non corrispondeva neppure lontanamente all'immagine che il ragazzo aveva avuto in testa in quei giorni.  
«Stavamo giusto dicendo a Louis quanto male ha fatto a non portare con sé il suo violino» dichiarò Christine.
Il visconte ebbe una specie di sussulto, poi agitò la mano come a sottolineare qualcosa di scarsa importanza e si andò a sedere accanto a sua moglie.
«Mia cara, tu sarai molto più competente di me in materia, ma io preferisco conoscere le persone da come parlano e non da come suonano. Dico bene, Louis?» fece con tono allegro.
«Dipende, visconte, dipende».
L'uomo si lisciò i baffi. Era diffidenza quella che ora gli si leggeva nello sguardo?
La cameriera entrò a servire il tè.
Gustave prese a raccontare di come aveva conosciuto Louis a quella mostra di pittura, omettendo l'episodio relativo al pennello perduto che era andato a recuperare nella mansarda. Poi la conversazione si spostò sull'Italia e sulla città di origine dell'ospite dei De Chagny.
Il visconte sembrava molto informato in materia di politica estera e Louis trovò piacevole commentare alcuni recenti fatti di cronaca, confrontandosi con lui su diverse idee nelle quali erano in disaccordo. Tuttavia, se non si parlava di musica o di pittura, Raoul De Chagny sembrava la persona più aperta e disponibile del mondo.
A Louis cominciava a piacere davvero la compagnia di quella famiglia, non erano affatto i nobili pesanti e bigotti che aveva immaginato.
«Perdonate la curiosità, ma come mai avete un nome francese, caro?» chiese il visconte, al termine di una discussione sulla scomodità dei viaggi in treno.
Il ragazzo bevve l'ultimo sorso di tè ormai freddo,
«Mi chiamo Luigi, in realtà. Mio padre era francese e usava chiamarmi Louis» spiegò.
«Oh, è vero, Gustave ce l'aveva detto» gli fece eco Christine.
«E tuo padre cosa fa?» chiese ancora Raoul.
«È venuto a mancare due anni fa, monsieur»
«Oh, mi dispiace...»
«Ad ogni modo, era anche lui un musicista e lui sì che era eccellente. È stato il direttore del San Carlo per molti anni, fino a quando non ci ha lasciati».
Louis notò il volto di madame De Chagny illuminarsi,
«Ah, allora la musica è una tra dizione di famiglia» esclamò con entusiasmo.
«Così sembrerebbe. Ma mi diceva Gustave che anche voi avete avuto un passato d'artista, Christine».
Il giovane vide il visconte irrigidirsi; per un attimo il bel viso gentile dell'uomo sembrò quello di un'anima smarrita. Gustave lanciò uno sguardo allarmato ai suoi genitori e la donna impiegò qualche secondo a rispondere, come se stesse cercando le parole più adatte a esprimere qualcosa di molto complesso.
«Sì, è vero, un tempo ho accarezzato il sogno di diventare una cantante di successo» ammise con un impercettibile sospiro che sembrava stanco, il rumore esatto di un petalo che cade da un fiore appassito. «Ma la musica mi ha tolto molto più di quanto mi ha dato».
Louis sentì che stava arrossendo e non era una circostanza che si verificava spesso.
«Perdonate... non volevo ridestare ricordi tristi o essere invadente» mormorò.
Christine cancellò le ombre dal suo viso con un sorriso che diventò un po' più sereno nell'istante in cui sollevò lo sguardo su suo marito e suo figlio.
«È stato tantissimi anni fa, e vi giuro che il tempo mi ha restituito ogni cosa, e molto di più» concluse. Louis ebbe l'impressione che quell'ultima frase fosse stata detta a solo beneficio del visconte.
«Bene... sì... ehm, volete fermarvi a cena con noi, Louis?» propose Raoul, battendo le mani come a smuovere l'aria, disperdendo le ultime nubi che sembravano essersi addensate nella stanza.
Gli sarebbe piaciuto, ma aveva appuntamento con Magdelaine, però...
«Padre» fece Gustave in tono soave e innocente, «Louis ha impegni assai più dolci dell'anatra all'arancia preparata dal nostro cuoco...».
Louis avrebbe voluto ucciderlo seduta stante.
«Gustave!» lo rimproverò sua madre tirandogli un buffo affettuoso sul braccio.
Il visconte De Chagny rise di gusto e batté una mano sulla spalla del suo ospite,
«Ma certo, capisco! Ma vi lasciamo andare solo se ci fate la promessa di tornare» gli disse.
«Tornerò quando avrete diseredato vostro figlio, monsieur...» borbottò il ragazzo lanciando occhiate di fuoco al suo amico. Gustave ricambiò quegli sguardi accigliati scrollando le spalle e curiosamente, Louis ebbe come la sensazione di essere a casa.

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Here, I have a note...

Gaaah! I De Chagny al completo... non credevo ce l'avrei mai fatta a scrivere questa reclame della Mulino Bianco, non riesco a immaginarmeli in nessun altro modo però. Ci sarebbe stata bene una scena alla Conte di Montecristo, con Christine che vede Louis e le viene un colpo... ma è troppo presto!
Capitolozzo breve e di passaggio, ma per il prossimo ho in mente qualcosa di particolare che si è inserito da solo nella storia all'ultimo momento... quindi, ci leggiamo mercoledì prossimo!
Quanto prima prometto che rispondo anche alle recensioni ^^"

I remain, gentlemen, your obidient servant.

   
 
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