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Autore: _joy    18/03/2012    2 recensioni
E – diciamocelo – cosa sarà mai una mail importante nell’ordine delle priorità dell’universo?
Ordine che ha fatto sì che oggi Ben Barnes – BEN BARNES – sia seduto a pochi metri da me?
Gin/Ben
[Serie "Forever" - Capitolo I]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forever'
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Non ci posso credere.
NON. CI. POSSO. CREDERE.
Mi guardo attorno scoraggiata, attraverso il vetro della porta. E vedo gente, tantissima gente. Una folla arrabbiata che preme verso il tavolo dietro il quale sta la mia collega Francesca, con un’aria semi-terrorizzata.
Ok, fatti coraggio Gin.
Prendo fiato, apro la porta quel tanto che basta a sgusciare al di là e raggiungo Francesca. Vengo subito assalita da voci rabbiose.
«Insomma, questa le sembra una giustificazione? Non ha più pass? Se li procuri! È qui a far questo, no?»
Ma tu guarda questo ciccione maleducato.
«Mi scusi» dico. Il tizio lancia un’ultima occhiata sprezzante a Francesca e poi si volta verso di me.
«Ragazzina, come dicevo alla tua amica qui, non ho tempo da perdere. Lavori anche tu qui? Bene. Trovami un pass. Adesso
Stringo gli occhi, arrabbiata. Bel modo di cominciare la giornata.
«Buongiorno a lei» rispondo, con il mio tono più gelido. «Come sicuramente la mia collega (rimarco bene la parola, giusto per ricacciargli indietro il “ragazzina” di prima) le avrà detto, non ci sono più pass. E non ce ne sono, perché gli accrediti sono stati chiusi tre giorni fa. Il sito della manifestazione indica chiaramente la data di chiusura per gli accrediti. Mi vuole dire che ci ha contattai nei tempi?»
Lo guardo trionfante, perché so di avere ragione.
Io lavoro in un ufficio stampa che si occupa di manifestazioni culturali: letteratura, teatro, musica. Ci occupiamo dei giornalisti, siamo quelli che fanno uscire i pezzi sui giornali, in televisione, in radio e su internet.
Questa manifestazione, che si tiene in un piccolo paesino della Toscana, ogni anno vede un afflusso sempre maggiore di stampa. Il che è una soddisfazione, da un certo punto di vista, perché significa che è ormai conosciuta e apprezzata, e questo significa che noi abbiamo lavorato bene. L’altra faccia della medaglia è che abbiamo un numero limitato di accessi per la stampa e per il pubblico: la kermesse si tiene in un piccolo centro e, tra logistica e sicurezza, gli ingressi sono quelli e c’è poco da fare. Anno dopo anno, la questione giornalisti diventa sempre più problematica. Vogliono venire tutti. Ma mentre ci sono le persone corrette che ti contattano per tempo, si registrano e si presentano a ritirare il loro pass come concordato, è pur vero che piombano qui anche esemplari assolutamente scortesi e maleducati che, solo per il fatto di essere giornalisti, si credono Dio in terra e pensano di essere al di sopra di qualsiasi regola.
E quando mi trovo davanti esemplari umani come il cafone che mi squadra sprezzante ora, penso che vorrei licenziarmi e correre al mare a godere queste ultime giornate estive.
Non fraintendetemi, amo il mio lavoro… ma a volte mi sembra di essere più una babysitter che un addetto stampa.
«Ragazzina, io sono molto impegnato. Lo capisci? Non ho tempo di andare a leggermi stupide regole su stupidi siti. Sono qui per lavorare. Ora fammi entrare, o spiega al mio direttore perché non gli porto il servizio che mi ha chiesto.»
«Il motivo per cui non lo porta, signore, è perché non ha seguito le regole. Se mettiamo un limite per la richiesta, è perché non ci sono pass per tutti. Lei non ha rispettato la scadenza e ora io il pass da darle non ce l’ho. Mi spiace.»
Sembra ragionevole, no? E invece, come se avessi parlato turco. Il ciccione e altri come lui ci premono addosso, alzano la voce, lanciano persino minacce. Francesca sembra terrorizzata, io invece mi sto davvero incavolando. Ma insomma. Ripeto per la centesima volta che non si può più accedere perché i posti sono completi e ci sono problemi di sicurezza se non si rispettano le regole. Interverrebbero i pompieri e non è giusto per le persone che hanno pagato il biglietto e per i colleghi giornalisti che stanno già dentro a lavorare, giusto?
E invece no. Manco per sogno. E più passa il tempo e meno si placano gli animi.
Allora faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare. Se mi vedesse il mio capo, mi licenzierebbe in tronco. E io per prima, resterei scandalizzata a vedere qualcun altro che fa una cosa così poco professionale. Ma sono così stanca di tutte queste grida che salgo in piedi sul tavolo e batto le mani per richiamare l’attenzione di tutti.
«Scusate! SCUSATE!»
Ora c’è silenzio, mi guardano tutti. Francesca, probabilmente, è svenuta. Me ne preoccuperò dopo.
«Chiedo scusa, ma devo precisare una cosa. Non ci sono più pass stampa. Chi non si è accreditato per tempo, non avrà il pass oggi. Perché non ce ne sono più. Non li abbiamo proprio, quindi è inutile insistere. Quelli che abbiamo sono per i giornalisti che hanno fatto richiesta nei tempi e sono nominali (scandisco, guardandomi attorno). Ora vi prego, si avvicini chi si è accreditato e gli altri, per cortesia, si allontanino. Non vi possiamo davvero aiutare. Mi spiace, per favore, siate collaborativi.»
Il silenzio dura ancora mezzo secondo e poi, come se non avessi aperto bocca, riprendono le proteste. Pian piano, con infinita lentezza, la coda si assottiglia. I giornalisti che hanno il pass entrano, quasi spaventati anche loro dai colleghi che li guardano in cagnesco. Che gente. Alla faccia della professionalità. Come in tutti i settori, anche nella stampa ci sono persone valide e capaci e ce ne sono altre che sono a dir poco incommentabili.
Consegno l’ennesima cartella stampa e mi guardo attorno. Sono rimaste poche persone che si guardano attorno, sfogliano i ritagli di giornale che esponiamo per mostrare gli articoli già usciti, oppure telefonano, parlano tra loro, chiedono al pubblico di ritardatari che sta entrando di vendere loro un biglietto (aiuto! Sono sicura che non sia possibile, che faccio? Intervengo? Meno male che il pubblico tira dritto, penseranno che i giornalisti sono pazzi… bè, qualcuno lo è pure).
Mi chino un attimo verso la mia borsa e la bottiglietta d’acqua che mi porto sempre dietro e, quando mi alzo, mi trovo davanti il ciccione di prima. È vicinissimo e, d’istinto, faccio un passo indietro.
Ma lui si avvicina ancora e mi alita addosso.
«Ragazzina. Non mi interessa niente delle tue stupide regole. Io devo entrare. Ho chiamato il mio direttore e quello s’è incavolato. Ora cosa dovrei dirgli? Che una ragazzetta non mi fa passare?»
Sgrano gli occhi e gli dico:
«Per favore, non mi venga addosso. Non posso fare nulla, davvero…»
Ma quello mi si avvicina ancora. Ok, lo ammetto, un po’ è inquietante. Mi guardo attorno cercando Francesca, ma lei sta parlando con due signori che chiedono informazioni. Ho una mezza idea di urlare, ma mentre decido se è il caso di farlo oppure no, sento una voce.
«Excuse me. La signorina dice di spostarsi.»
Il ciccione si volta.
«E tu chi sei? Il suo amichetto? Sono finito all’asilo?»
Stupido ciccione! Per fortuna, vedo il mio capo entrare nella sala e dare un’occhiata intorno. Mi ha vista. Bene. Vai Gin, professionale e decisa, tanto se fa qualcosa c’è il capo testimone che l’ho aggredito per legittima difesa.
«Mi scusi, glielo dico ancora. Si allontani. I pass sono finiti e non possiamo fare niente per lei.»
Una vena pulsa minacciosa sul collo del ciccione, ma il mio capo ha capito il problema e viene deciso verso di noi.
«Ginevra, problemi?»
«Sì. Ho spiegato al signore che non ci sono più pass, ma non mi crede.»
Dico decisa, tutta d’un fiato. Il mio capo fa un sorriso gelido.
«Capisco. Come lei certamente saprà, le regole sono regole. Mi dispiace, è spiacevole anche per noi, ma deve capire che le mie ragazze non possono fare nulla se non attenersi alle regole. Ora, le offro un caffè, così mi spiega per che testata lavora e vediamo di capire se posso magari farle intervistare qualcuno a fine incontro. Questo è un suo collega?»
Il ciccione grugnisce e io mi ricordo del mio salvatore. Che a quanto pare è ancora qui.
«Oh, no» dico «Il signore mi è venuto in aiuto…»
«Signore?» Dice una voce divertita. «That means… mister? Ti sembro vecchio? Oh, “dammi del tu”, mi sembra che dite così, vero?»
Ma cosa fa, mi prende in giro? Con la mattinata che ho avuto, non è proprio il caso.
Mi volto con uno sguardo fiammeggiante. Il capo e il ciccione si stanno allontanando, con il ciccione che cerca ancora di farsi valere. Patetico.
E io mi trovo di fronte a un ragazzo giovane, della mia età credo. Porta i jeans, una t-shirt a mezza manica grigia, scarpe da tennis, un cappelloe i Rayban e mi guarda con un mezzo sorriso.
Io invece di sorridere non ho proprio voglia. Quasi nemmeno lo guardo in faccia, pensando già alle cose che devo fare adesso. Oh, ho un’intervista che mi preoccupa molto, stamattina. Una giornalista pretenziosa e antipatica che si occupa di teatro per un’importante radio nazionale. Di bene in meglio.
«Ok, sì. Grazie. Sei stato gentile.»
«È un piacere. Ginevra, come la regina, vero? Molto meglio di “ragazzina”»
Sorrido stancamente.
«Sì. Grazie ancora. Buona giornata, ciao»
E lo mollo lì. Mi sento un po’ in colpa, perché è stato gentile a preoccuparsi per me, ma io ho da fare. Mi avvicino a Francesca per dirle che mi sposto nella zona interviste e la vedo fare tanto d’occhi.
«Ma che carino quel tipo! Lo conosci?»
«Cosa? Chi?»
«Il tipo con cui stavi parlando. È carino. Ci sono così pochi ragazzi della nostra età qui…come fai a non averlo visto?»
«Ma che ne so Fra. Il ciccione mi stava aggredendo! È arrivato il capo! C’è quell’intervista radio stamattina…oddio! E poi è moro…a me piacciono i biondi, no? Guarda, vado»
La mia collega mi guarda, delusa e incredula, ma io non le presto attenzione. Non ho tempo. E poi, dopo Fabio, non ho nemmeno voglia. Il mio ex ragazzo ha lasciato il segno. Cioè, ex ragazzo. Diciamo che molta parte della nostra storia era nella mia mente. Io credevo di aver trovato il grande amore e lui, a quanto pare, voleva solo divertirsi. Questo il riassunto della mia grande storia d’amore. Patetico? Sì, eccome. Se si pensa che ho 27 anni, è patetico eccome.
 
Due ore dopo sto seguendo l’intervista per la radio. È peggio di quello che pensavo. La giornalista è isterica e pretenziosa e mi ha pure spedita due volte al bar, a prenderle un caffè e poi l’acqua frizzante. Ma che, ora faccio pure la cameriera?
Calma Gin, calma, devi solo arrivare a stasera. Me lo ripeto come un mantra, cercando di non pensare che domani sarà una giornata identica a oggi, se non peggio.
«Carina, scusa» è la giornalista. Oddio, no. Cosa vuole? «Ho il sole in faccia. Gira l’ombrellone, per favore»
Cosa?? Pure??
Inghiotto la rabbia e mi avvicino.
Ma come si fa? Io non lo so fare. Annaspo e cerco di essere il più silenziosa possibile, per non disturbare l’intervista. Regola d’oro del buon addetto stampa: mai, mai intromettersi nel binomio giornalista-intervistato, mai disturbare il loro legame.
Peccato che l’ombrellone mi si schianti improvvisamente sul tavolo. Io finisco lunga distesa per terra e la giornalista urla come una pazza.
Mi metto seduta, frastornata e mortificata, e mi vedo davanti non solo ospite e giornalista, ma anche Francesca (incredula, sono sicura che sta cercando di non scoppiare a ridere, ma le trema il labbro) e il tipo di prima, che mi ha aiutata con il ciccione. Lui non ha il riguardo della mia collega e scoppia in una fragorosa risata.
Divertente davvero. Cerco di alzarmi, e scopro che il mio vestito bianco si è impigliato all’ombrellone. Francesca cerca di aiutarmi, ma in due facciamo peggio e sento lo strappo della stoffa al mio ennesimo movimento brusco. No, no!!! Il mio vestito preferito!
Il tizio sta ancora ridendo. La giornalista gracida cose che sembrano vagamente insulti e io non so più dove guardare. E quel tizio ride ancora!
«Coglione!!» urlo così forte che Francesca si spaventa e la giornalista si zittisce. E pure quella maledetta risata si spegne, finalmente. Non mi sono mai sentita così umiliata e arrabbiata.
Mi alzo in piedi, raccolgo parte della gonna lacerata e lancio un’occhiataccia al tipo.
Che, tutto tranquillo, si sfila gli occhiali da sole e dice:
«Sorry. Non ho capito. Co…cog..? Cosa hai detto?»
Ma io non rispondo, perché sto cercando le parole per scusarmi con l’ospite e per recuperare la situazione. Chi glielo dice, al mio capo? Oddio, oddio. Ma la giornalista, che un attimo prima era inviperita, ora sembra stranamente senza parole. Sta guardando il tipo.
«Sei inglese, ma…sembri…possibile che…»
Perché farfuglia? E poi all’improvviso fa un sorriso da scolaretta timida e batte le ciglia (hugh! Che orrore!)
E si lancia in un discorso in inglese di cui colgo solo poche parole, un po’ per il mio inglese non meraviglioso e un po’ perché ho voglia di tutto tranne che di concentrarmi su un pensiero che non sia emigrare all’altro capo del mondo. Il tizio annuisce, ma sembra un po’ contrariato. Lei gli si avvicina entusiasta e gli chiede, sempre in inglese, di andare al bar a prendere un caffè. Ma lui rivolge di nuovo gli occhi a me. La giornalista se ne accorge e mi guarda sprezzante.
«Bene. Che fortunato diversivo. Visto che questa intervista è rovinata, almeno non perdo la mattinata»
«No, la prego.» Sussurro terrorizzata. «Sia gentile. Possiamo sederci a un altro tavolo e…» ma lei mi guarda come se fissasse una macchia di fango sui suoi stivali nuovi e io, anche se mi vergogno ad ammetterlo, scoppio a piangere. Io, che non piango mai. E invece singhiozzo, lasciando tutti basiti dal mio scoppio, e sfogo la rabbia, la stanchezza e l’umiliazione. Che figura. E che mostro. Ci sono ragazze che quando piangono sono seducenti e romantiche, ma io sembro blob. Faccio le smorfie e mi cola il mascara. Aiuto. Ma non riesco a fermarmi. Francesca si avvicina e cerca di battermi una mano sulla spalla e il tizio fa un paio di passi verso di me. Mi ritraggo e singhiozzo più forte. Ma chi cavolo è?
E devo averlo detto in maniera quasi comprensibile perché lui si acciglia, la giornalista farfuglia indignata e Francesca, terrorizzata, mi sussurra «Sssssssshhhh!!! Ma come? Hai la sua foto in ufficio! Ma non lo vedi…che è Ben Barnes?!»
   
 
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