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Autore: Dernier Orage    18/03/2012    3 recensioni
Parigi, Marzo 1997. Due amanti si rincontrano dopo quattordici anni: Ismaël ha una piccola libreria a Parigi, Stéphane è diventato uno scrittore, ha due figlie e tifa l'Arsenal. Storia di una ricostruzione.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Stéphane si era svegliato tardi e aveva trovato Maelice e Michelle sedute sulla moquette a guardare i cartoni animati dal piccolo televisore appeso alla parete. 
Aveva subito voltato gli occhi verso la sveglia e aveva sbuffato quando aveva trovato la conferma ai suoi presentimenti: era troppo tardi per la colazione fornita dall’albergo. Non che fosse particolarmente importante, però si sentiva affamato, anche perché aveva passato la notte a vomitare la cena. 
Provò a fare mente locale della giornata precedente: soliti giri per agenzie immobiliari, una libreria, Ismaël, casa di Ismaël, pranzo, pomeriggio insieme, cena in albergo. 
Al pensare ad Ismaël sentì il cuore perdere un battito. Immaginò di abbracciarlo nuovamente, sentire il suo corpo contro il petto. Avvolto tra le braccia. La schiena dove si percepiscono appena sotto la stoffa le ossa del costato e le vertebre. Gli occhi, grigio scuro, quel colore da bambini, quel colore che generalmente cambia, immutato. La pelle, bianca e sottile, con le vene blu visibilissime. I capelli uguali, castani, arricciati, dai riflessi freddi.
- Buongiorno, papà! – esclamò Louise-Maelice saltando sul letto. 
- ‘giorno tesoro. Vieni un po’ qua… - disse trascinandola sotto le coperte e facendole il solletico. Dopo pochi secondi vennero raggiunti da Michelle; - hai fatto dei bei sogni? -
- Non credo, non ricordo - rispose tirandosi i cuscini a coprire la testa. 
- Io ho sognato che abitavamo una casa bellissima - non era vero, Stéphane aveva passato tutta la notte a vomitare e rigirarsi nel letto e cercare di mantenere le palpebre abbassate per almeno un minuto. 
- Come quella di Ismaël? Sembrava una casa magica…- mormorò Maelice mentre Stéphane raggiungeva il minuscolo bagno dove erano ammassati il water, il lavandino, la doccia e un piccolo specchio senza cornice appeso al muro. Una casa magica, pensò lo scrittore. Chissà da dove se l’era tirata fuori, chissà perché.
- Iniziate a scegliere come vestirvi, tra un po’ usciamo… ora però mi faccio una doccia - disse voltandosi, sorridendo e chiudendo la porta scorrevole. Se avesse mai avuto dubbi su Ismaël sarebbero stati fugati dalla simpatia con cui lo avevano preso Michelle e Maelice subito dopo la diffidenza, e i bambini hanno il sesto senso per le persone. Chissà poi perché.
 
She was my dark haired Lydia of my suburban German - dreams. And he was the boy-called boy-called James. And it will all end up like the New York scene. Too much drugs, too much pills and too much too much too much songs… Suicide commando, suicide is suicide, suicide commando…” cantava Johan Van Roy nello stereo.
Gli piaceva l’acqua bollente, lo calmava e rilassava e cancellava i malesseri della notte. Stéphane appoggiò la nuca contro le fredde piastrelle color ocra. L’acqua gli scorreva tra capelli, sulle palpebre abbassate, sulle labbra, nel collo, nel petto. Quasi automaticamente sfiorò la pelle, breve distanza dal cuore. E quella parola, quel marchio. 
Resistance. 
Resistere agli sguardi ottusi della massa. Resistere alla distanza. Resistere alla paura. Resistere in una gabbia dove sarebbe più facile morire. Prendere le redini e cambiare il destino. 
Aveva un grande significato quella parola una volta, il filo d’inchiostro si protraeva dalla e e collegava ad una R nella stessa città. 
Sorrideva inquieto. 
Ricominciare sarebbe stato meraviglioso. O forse, solo sentirsi di nuovo integro? 
Buttò giù la saliva. I primi mesi di assenza gli scriveva sempre che si sentiva dimezzato, perso, incompleto, evaporato, nullo. Azzerato. Reset. 
Matrimonio con il vuoto. Felicitazioni. O condoglianze? 
Si condolse con se stesso. 
Si torturava troppo, forse era l’ora di rifare le valigie e tornare a Brest. In fondo c’era cresciuto, sua madre sarebbe stata un’ottima nonna, avrebbe avuto il tempo di lavorare e mandare in stampa il suo manoscritto entro l’estate e magari di curare personalmente le traduzioni dal tedesco al francese. Era stato per quattordici anni lontano dal nido, però l’inverno era appena passato e voleva scaldarsi il più possibile. Non avrebbe più commesso gli errori del passato, non sarebbe più stato la vittima volontaria delle circostanze. 
Non aveva mai avuto certezze, tranne rimanere fedele a se stesso. Doveva scriverci sopra, avrebbe risolto tutto. Lasciò vagare la mente. Contorcendosi in pensieri vagabondi e scollegati. Riaffioravano particolari dei tempi dilatati dell’infanzia e della prima adolescenza, scenari caldi e sfocati o freddi e nebbiosi, la realtà si mischiava ai sogni; l’orgoglio per il lavoro a vent'anni, lavoro possibile da trovare solo in Germania, senza costrizioni all’Ordine, senza lauree, senza parentele obbligatorie, le copie di colleghi che doveva portare di ufficio in ufficio, i caffè rovesciati, i primi articoli di cronaca e le prime interviste, in riquadri sempre più grandi, sempre più consistenti, gli algidi cantanti new romantic tedeschi ed inglesi; la velocità degli eventi dal matrimonio fino al divorzio, ricordava prima lo smoking d’alta sartoria che era costretto ad indossare alle cene di gala, la misantropia che lo assaliva e il sollievo nel confondere Moët, whisky canadese e amaro alle erbe, un bicchiere dopo l’altro, e dopo le bimbe splendide che troppo poco aveva tenuto in braccio da neonate perché la maggior parte delle volte erano lasciate alle balie. 
Spalancò gli occhi quando bussarono alla porta. Chiuse l’acqua e cercò a tentoni l’asciugamano, quando lo trovò se lo avvolse attorno. Aprì la porta, era Maelice, già vestita, già pronta, con il telefono in mano, il cavo srotolato per la stanza, fino al limite. 
- Alurir! Ja? - esclamò Stéphane mantenendo l’usanza tedesca del rispondere col cognome e non con allô
- Sono Ismaël, ciao - aveva un ritmo serrato, come un discorso imparato a memoria. 
- Buongiorno! Va tutto bene? - Stéphane si lasciò sfuggire un sorriso e mise in carica il rasoio elettrico. 
- Veramente il punto è che… ascoltami, ti spiego. Credo che dovresti preparare le valigie e stare da me finché ti fa comodo. Restate quanto volete, ho molto spazio, lo hai visto. Che ne pensi? - cercò di interrompersi il meno possibile, nonostante non gli fosse venuto in mente un discorso lineare, poi aggiunse; - mi farebbe piacere.- 
- Saremo di disturbo, Maël…- Stéphane protestò solo per una questione d’etichetta, maledicendosi mentalmente, doveva posare immediatamente quella maschera formale, non gli apparteneva e rischiava di rovinare tutto. Ismaël aveva fatto il primo passo, forse in nome del fair play, evidenziando il contrasto con il passato. 
- No, questo è impossibile, fidati - lo rassicurò Ismaël, scorgendo la risposta affermativa precisò; - esco per fare la spesa, tra un’oretta sarò di ritorno, venite quando volete - 
Stéphane fece in tempo a sussurrargli un saluto prima che l’altro mettesse giù il telefono. 
- Ora temo il mio pensiero fisso - mormorò rivolto al suo riflesso, un sorriso nervoso di rimando e gli occhi lucidi. Guardando le figlie che discutevano del cartone animato si convinse; - andrà bene. Deve andare bene, ce lo meritiamo.- 

Avevano preparato i bagagli in mezzora, più cinque minuti a controllare sotto i letti eventuali dimenticanze e scostare le coperte, più due minuti tra l’attendere l’ascensore e lo sbagliare piano, più dieci minuti di coda dalla reception per saldare il conto dei quindici giorni più le colazioni e qualche cena più il parcheggio sotterraneo riservato. Più otto minuti a caricare il bagagliaio ed allacciare le cinture di sicurezza. Quaranta minuti nel traffico parigino. 
Sicuramente Ismaël era tornato dal supermercato. Stéphane si sentì un idiota a calcolare il tempo di ogni azione, avesse potuto cancellare quattordici anni avrebbe ammesso di essere innamorato, quella situazione invece non comprendeva termini per spiegare l’emozioni, le sensazioni e le speranze provate. 
Non aveva mai smesso di amarlo, come amava la madre e le figlie. 
E avrebbe voluto condividere il letto con lui fino all’ultima notte, forse oltre. 

Stéphane trovò parcheggio a mezzo isolato dal numero 9 di rue Deparcieux. Appoggiò i borsoni sopra i trolley, ritornarono le vertigini: gli scatoloni del trasloco e i pochi mobili che aveva voluto portare via erano stipati in un garage in affitto a Brest. Cosa significava? Tutti gli oggetti, i valori, che le persone accumulano durante la vita per lui consistevano in un paio di valigie con dei vestiti, i giocattoli di Maelice e Michelle e Lost Horizon di James Hilton, degli scatoloni con le copie dei libri non ancora distribuite, degli album con le foto e le tutine del primo anno d’età delle figlie, i mobili che componevano un salottino coloniale di bambù e vimini proveniente da un'asta doganale, una macchina da scrivere in sostituzione dell’ordinateur. 
La targhetta del citofono riportava in stampatello il cognome Chalm scritto a mano con inchiostro blu. Stéphane premette il pulsante, sentì il blocco del portone scattare. 

Ismaël corse giù per le scale, facendo i gradini due a due. Arrivato nell’ingresso non seppe cosa fare. Un abbraccio di slancio, una stretta di mano. Un cenno del capo. Scelse Stéphane che già conosceva le smagliature e i buchi sui gomiti, forse sapeva già anche del bordo sbocconcellato, senza averli mai visti. Ricordava che una volta la madre di Ismaël glielo bruciò, un maglione ridotto in modo simile, tanto temeva che ci andasse in giro. Scelse di stringerlo.
Salutò le bambine e lo aiutò a portare su le valigie, chiedendo dove avessero parcheggiato, sorridendo sempre come incapace di smettere, parlando a macchinetta descrisse sottovoce gli altri condomini: un’anziana signora italiana e una coppia di senegalesi che aveva un buon ristorante a tre isolati, altri due appartamenti erano vuoti a causa dell’affitto troppo alto che il proprietario si rifiutava di abbassare.
In casa disfecero i bagagli, Ismaël fece spazio in un armadio in corridoio spostando le pile di lenzuola ed asciugamani dentro la cassapanca. Stéphane vide che aveva cambiato le tende, le lenzuola e il copriletto nella camera degli ospiti, Louise-Maelice aveva cominciato a mettere in ordini le sue cosine: qualche album da colorare, dei libri di Angela Sommer Bodenburg, gli occhiali da sole rosa di Minni Maus sulla scrivania, la sua bambola neonata di celluloide chiamata Lea sul lettone. Michelle correva avanti e indietro per il corridoio trascinandosi dietro una sciarpa rossa. 

Pranzarono sul tardi, dopo aver finito di mettere in ordine i vestiti e un pochino anche le loro vite. C’era qualcosa di ordinario e contemporaneamente speciale nell'attaccapanni con il caban di Stéphane, il cappotto lungo e leggero, un covert di Ismaël, i cappottini colorati delle bambine, uno elegante azzurro con i bordini in velluto nero per Louise e uno rosso tipo impermeabile per Michelle. Ordinario e speciale. 
Le bambine erano corse in camera a giocare e Ismaël e Stéphane indugiavano a sparecchiare, chiacchierando e narrando gli ultimi anni, inizialmente a grandi linee e poi scendendo sempre di più nei particolari, aggiungendoli distrattamente, a caso. Stéphane aveva lo sguardo un po’ perso ma quasi luccicante, le iridi color cioccolato sembravano liquide. Ismaël lo notò, strinse la mano sinistra sulla sua maglietta sbiadita, lo accompagnò con un gesto deciso e lento per portarlo con il viso vicino al suo e si sporse fino a poggiargli un bacio leggero sulle labbra. Stéphane ricambiò chiudendo gli occhi e accarezzandogli la nuca. Poi Ismaël gli sfiorò la fronte. 
- Hai la febbre – affermò allontanandosi di qualche centimetro. Giustificando il bacio. 
- Ma no… - Stéphane era incredulo, certo la notte prima aveva vomitato praticamente tutto, ma pensava che fosse per qualcosa di andato a male oppure per il freddo che aveva preso nel ritornare all’albergo prima di cena. 
Ismaël andò in bagno a prendere il termometro al mercurio, lo scrollò per buttare giù, sotto i trentacinque gradi, la barretta rossa. 
Sei minuti dopo Stéphane era già coricato sul divano, perché quando si scopre di avere la febbre si inizia realmente a percepirle, le ossa, bruciare e ardere allo stesso modo della pelle, nonostante i brividi di freddo indotti dai trentotto gradi. Ismaël raggiunse il telefono in corridoio e lasciò un messaggio in segreteria a Charlez, il suo commesso, un ragazzo venticinquenne originario di Konk-Kerne, e recuperò un paio di coperte. 
- Riposa un pochino, Stef – mormorò prima di coprirlo e proseguire in una carezza con il dorso della mano sul suo volto, la pelle liscia e calda e la voglia di sedersi accanto a lui e fargli poggiare la testa sulle ginocchia.
Ismaël si ritrovò a riconsiderare gli avvenimenti, la retrospettiva era facile e dolorosa, ma adesso Stéphane era affianco a lui, il respiro sempre più regolare. Le sensazioni di smarrimento e timore svanivano davanti alla muta felicità pura ed intensa. 
Il vuoto che passo a passo aveva costruito, la terra bruciata attorno alla sua persona che pochissimi individui riuscivano a sopportare, la cortesia distaccata e fredda che adottava con i conoscenti, le colonne di marmo abbandonate dagli anacoreti nel deserto bianco e frastornate nel suo petto vennero riscaldate dalla speranza. 
   
 
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