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Autore: Dernier Orage    11/03/2012    6 recensioni
Parigi, Marzo 1997. Due amanti si rincontrano dopo quattordici anni: Ismaël ha una piccola libreria a Parigi, Stéphane è diventato uno scrittore, ha due figlie e tifa l'Arsenal. Storia di una ricostruzione.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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No Human Can Drown






Let me be alone
Let me dream in silence
And enjoy this cold wonderful night
Let me believe
Make me glad
Let's dance on the water
Let me believe
No human can drown
If you don't expect too much
Clan of Xymox - No Human Can Drown


Parigi, marzo 1997 

Dopo anni e anni lo scrittore, sceneggiatore e giornalista Stéphane Alunir era ritornato a Parigi. Era la primavera del 1997, aveva trentadue anni, tre libri pubblicati, tre lingue parlate correttamente e correntemente, cinque cambi di casa, un divorzio e due figlie. Il suo colore preferito era il blu elettrico, odiava tantissime cose e gradiva piccole attenzioni tipo la barista che gli porgeva la brocca del latte o chi attendeva che la folla uscisse dal metrò prima di entrare.
Aveva appena vinto un’estenuante battaglia legale per avere l’affidamento esclusivo delle figlie: la loro madre, nonostante i parecchi problemi con la droga, era stata una modella molto famosa, il divorzio era stato seguito da tabloid scandalistici e la pressione in certi momenti era parsa insostenibile.
Era da quando aveva vent'anni che abitava ad Amburgo, aveva iniziato lavorando per un giornale locale e aveva finito per firmare articoli sui concerti e sulla vita musicale della città e pubblicando sotto uno pseudonimo libri che erano diventati best-sellers. Tramite la frequentazione di una truccatrice conobbe Mojca Heinle, fotomodella dalla bellezza androgina e violenta. La sposò senza neanche sapere il perché, dopo pochissimi mesi di fidanzamento (Lei era stata coinvolta in uno scandalo con un politico qualche tempo prima). 
Lo affascinava, ma niente più. Un matrimonio burrascoso, sempre sotto le luci dei riflettori. Lei, la modella di successo, bellissima, famosissima. Lui, il giornalista francese quasi sconosciuto.
Stéphane non dava la colpa ai fotografi per averli portati al divorzio, semplicemente non gli importava più del matrimonio e del suo fallimento, desiderava solamente tornare in Francia con le figlie e ricominciare, non considerava un atto egoistico allontanarsi da una donna che non amava più per proteggerle.

Stéphane era da solo due settimane nella capitale francese, con le bambine alloggiava in un hotel piuttosto deprimente con la carta da parati a fiorellini rosa antico e la moquette beige. Contava di trovare entro pochi giorni un appartamento in affitto per qualche mese, oppure sarebbe ritornato a Brest, per far conoscere alle bambine la nonna, i luoghi della sua infanzia, gli splendidi paesaggi alla fine del mondo. 
Alla ricerca della sistemazione faceva partecipare anche le piccole: di mattina le portava a passeggiare, oppure nei musei o al cinema (riservavano una sala ai migliori cartoni animati della storia), per pranzo andavano a comprare dei panini da mangiare seduti su una panchina e il pomeriggio serviva per conoscere possibili ospiti, cercare gli appartamenti più convenienti, sia economicamente che geograficamente. La sera le portava in ristoranti carini, un po’ retrò, ma con un menù veramente invidiabile. 
Stéphane era ritornato per trovare l’ispirazione per un nuovo libro, per dimenticare le siringhe vicino alle bambole e le bustine di eroina dentro i peluche. Si considerava benvenuto nella sua nuova vita, come se la sentenza per l’affidamento si fosse portata via tutti i fantasmi e tutte le inquietudini. Finalmente poteva ricominciare.
 
Era una solare giornata primaverile, la luce aveva colori caldi e l’aria era frizzante. Era mezzogiorno e stavano percorrevano rue de Sèvres all’altezza del XV arrondissement alla ricerca di un locale dove fermarsi per il pranzo, quando Louise-Maelice rimase affascinata dall’insegna in ottone di una libreria e dalla vetrina dipinta. La piccola Michelle, di quattro anni, occhi color cioccolato e capelli castani, ricci, lunghi quanto bastava per trattenerli in una coda, aveva le labbra impiastricciate di gelato alle more, Stephane le pulì il visino con un fazzoletto di stoffa, che poi ripose nella tasca del caban. Louise-Maelice spinse a fatica la porta di legno pesante, schiacciando la fronte contro il vetro impolverato per sbirciare dentro. Appena entrati respirarono l’aria calda, polverosa, intrisa dell’aroma di libro, un profumo difficilmente narrabile, pungente e dolce. 
La libreria era accogliente, un po’ buia, piena di volumi malconci, prime e seconde edizioni di libri ottocenteschi, carte antiche e manuali bizzarri, guazzi di manifesti pubblicitari. Vecchi libri mai andati in ristampa, collane da edicola. I volumi erano riposti in scaffali alti fino al soffitto di legno scuro. Stéphane notate le ridotte dimensioni della libreria permise a Louise-Maelice di curiosare da sola, prese in braccio Michelle e cercò uno scaffale contenente libri recenti, era una curiosità, sperava che non vendessero anche i suoi romanzi. Era un imbarazzo in parte giustificabile dal pudore del ‘mettersi a nudo’ che pubblicando si violava, lo stesso motivo per cui aveva scelto uno pseudonimo.
Louise-Maelice aveva percorso solo qualche metro, ammirando la quantità e la qualità di libri presenti; le piacevano quelle copertine pesanti, magari in raso o ricche stoffe; percorreva con le dita i titoli dorati e la costa in cuoio. Venne attratta da un rumore ovattato, dietro il bancone della cassa notò una tenda semiaperta. Si scorgeva appena la silhouette di un uomo chino su qualcosa di indefinibile. Maelice, curiosa, si avvicinò, forse fece rumore, perché l’uomo misterioso alzò il viso e la vide. Adesso il suo volto era in luce, aveva nebbiosi occhi grigi, capelli castani, ricci disordinati che formavano una specie di aureola incorniciando il viso ovale, la carnagione lattea su cui risaltavano le vene bluastre delle palpebre sottili e del collo, bianche mani dalle lunghe dita con le nocche arrossate che accarezzavano un labrador color miele. 
L’uomo si alzò in piedi e mosse due passi verso la tenda. Louise-Maelice indietreggiò. 
- Ciao. Come ti chiami? - chiese l’uomo sedendosi su uno sgabello, le fece segno di avvicinarsi. 
- Louise - rispose la bimba osservando curiosa il cane. 
- Io sono Ismaël, la libreria è mia - le sorrise, spostando dei libri per farle spazio su uno sgabello; - ebbene, Louise, ti piace leggere? - 
- Sì, ma di più ascoltare le storie. Come si chiama? - borbottò velocemente la bambina con quello strano accento, indicando il labrador. Aveva sei anni, le mancavano due denti da latte, quel giorno la punta delle scarpe da tennis sembrava macchiata della polvere sollevata quando aveva calciato la ghiaia; - Io non riesco a leggere libri in questa lingua - 
- Maelice! - chiamò Stéphane da dietro uno scaffale. 
- È il mio papà - mormorò Louise abbassando lo sguardo. 
Quella voce risvegliava qualcosa. Apparteneva ad un periodo lontano. Apparteneva ad una persona lontana. Le sopracciglia aggrottate fecero assumere al libraio un’espressione pensosa, severa.
- Mi chiamo Louise, mi chiamo Maelice e mi chiamo June. Ho tanti nomi, è che mio papà è un po' matto - la bimba sorrise impercettibilmente, scusandosi inconsciamente; - però il mio nome preferito è Louise, per questo ti ho detto Louise. Tu puoi chiamarmi così? Papà non lo fa mai - 
Stéphane comparve da dietro uno scaffale, sorreggeva Michelle con un braccio, lei gli cingeva il collo, e teneva una pila di libri, l’uno in bilico sull'altro. 
- Mellie, mi aiut…- Stéphane non riuscì a terminare la frase.
Impietrito fissò Ismaël. Adesso sì che gli mancava l'aria.
Non era la polvere alla gola, non era quell’apprensione costante per l’asma della figlia minore. Non era il mal di testa. Non era l’insonnia. Non era un tuono che per qualche istante congela il respiro.
Mancava l’aria.
Un’ondata di parole e pensieri e emozioni lo sommerse.
Barcollò.
Frasi spezzate, lettere ingiallite dalle parole sbiadite, mai una telefonata, neanche un indirizzo. Poteva anche essere morto! Ed ora Ismaël era di fronte a lui, parlava con sua figlia in un negozio pieno di polvere che avrebbe potuto scatenare l'asma di Michelle. Dove era stato tutti quegli anni. Cosa aveva fatto. Cosa aveva provato. Chi aveva amato. Non aveva risposte e neanche domande. 
Voleva cancellare tutta quella distanza, riuscire a ristabilire un contatto, riavere la chiave di lettura dei suoi occhi. Era dal 1983 che non lo incontrava. Dal 1984 che non riceveva una sua lettera. Quattordici anni lontano dalle sue labbra. Dalla sua persona! Tredici anni senza la certezza che fosse vivo. 
Come al rallentatore. Appoggiò i libri sul bancone della cassa, fece toccare il pavimento alle ballerine nere lucide di Michelle, lei osservava incuriosita la scena da sotto la frangia. A quel punto si gettò contro Ismaël e sperò di abbracciarlo, ma in realtà lo strinse quasi con la paura che scomparisse nel fumo. 
- Ismaël, Maël, Maël, Maël... - ripeteva Stéphane. Nel suo abbraccio Ismaël era caldo, non a proprio agio, ciò lo fece sorridere e poi ridere come un ossesso: non era cambiato; – quanto tempo è passato, come stai? - 
Stéphane si sentì strattonare la stoffa dei pantaloni, la piccola Michelle richiedeva attenzione, voleva essere presa nuovamente in braccio. 
- Come ti chiami? - le chiese Ismaël scompigliandole i capelli. 
- M’elle, quattro anni - rispose la piccola scandendo bene le lettere e mostrando quattro ditina. 
- Michelle e Maelice - ripeté Stéphane; - sono le mie bimbe -
- Tue figlie. Cioè, è strano. Sono identiche a te. La loro mamma? - il tono della voce di Ismaël si era abbassato ulteriormente. Stéphane immaginò le lunghe corde vocali che vibravano piano. 
- Mojca, la loro madre, abita ad Amburgo. Ho vissuto per un po’ di anni in quella città - 
- Vado a preparare del the. Voi lo volete? - Maelice e Michelle annuirono. Stéphane corrugò la fronte, Ismaël fuggiva nuovamente, anche se solo per qualche metro. Entrambi sapevano che era solo una scusa per porre un divisorio; - cosa hai fatto in tutti questi anni? - 
- Niente di che, lavoro, matrimonio fallito. Sono nate loro, l’unica cosa ben riuscita. Tutto normale, non proprio come progettavamo ma è andata così. Adesso siamo qui, almeno per qualche mese, pensa che viviamo in un albergo. Tu? - da dietro la tendina Ismaël non rispose immediatamente. Si trovava nel piccolo retro del negozio, adattato quasi a salottino, con un piccolo fornello, una sgabello. Stéphane continuò; - è tua questa libreria? Vivi qui? La tua famiglia? –
- Quante domande! Sì, è il mio negozio. Non parlo con mia madre da tanti anni, gli unici contatti che mi sono rimasti a Brest sono mio padre e Eveline. Neven gira per il mondo, è un fotografo, quel cane, Zara, è suo. Perché mi chiedi se sono sposato? Sarebbe improbabile... - versò il the bollente in quattro tazze, le mise in un vassoio assieme alla piccola brocca del latte e quella dello zucchero. Trasportò il tutto fino al bancone; - tra poco chiudo, il lunedì pomeriggio restiamo chiusi. Se non avete impegni potreste venire a pranzo da me. Ho l’impressione che tu abbia bisogno di altre risposte - 
- Davvero? Ma papà, quella cosa riguardo alle persone che non si conoscono bene? Vale anche per te?- chiese sospettosa Louise-Maelice accostando le labbra al bordo della tazza di ceramica. 
- Stéphane Alunir, dieci novembre millenovecentosessantaquattro, Quimper. Per leggere porta gli occhiali, ha un tatuaggio con scritto ‘resistance’ all’altezza del cuore, una voglia violetta dietro il collo - Ismaël le sorrise; - tifa l’Arsenal. Ci conosciamo da tantissimi anni - 
- Esattamente - disse Stéphane soffiando sul the di Michelle per raffreddarlo. Uno sguardo fugace al libraio, si ritrovò estasiato nell’osservare la sua espressione. Non pensava potesse fargli quell’effetto, dopo tanti anni. Pensava che qualcosa dentro si fosse infranto senza nessuna possibilità di ripararlo, eppure quella sensazione, era il desiderio di vivere con qualcuno, crescere e invecchiare con quella persona, darsi completamente, mente e anima e corpo, passato e presente e futuro, era tornata, forse più potente di prima, avendo Stéphane conosciuto l’abbandono e la mancanza. 
 
Il bancone aveva bisogno di essere riordinato, il cestino svuotato. L’unica cosa che Ismaël fece fu chiudere la cassa. Si infilò il covert grigio e invitò gli altri con un gesto ad imitarlo. Le movenze sicure e precise rivelavano le abitudini, slegò una bicicletta nera dal lampione e la portò in negozio, lasciandola davanti al bancone in bilico sul cavalletto. 
- Zara… vieni qui - chiamò aprendo la porta e mettendo il guinzaglio al labrador, seguito da Stéphane, Maelice e Michelle. Ismaël chiuse l’uscio e abbassò la saracinesca, con un assordante sferragliare; – dovremo prendere la metro - 
Stéphane lo fissava affascinato e si perdeva nei pensieri, quella situazione lo stava sopraffacendo. Il suo amore di gioventù sotto certi aspetti era cambiato, appariva più aperto, lieto, amichevole. Ciò lo rattristò, probabilmente qualcuno aveva portato a termine la sua antica missione, quella di rendere felice Ismaël, e quel qualcuno gli era sicuramente molto legato. Stéphane sentì la voglia folle di ricominciare il rapporto dall'esatto punto in cui si era interrotto, pervadergli il corpo, inondargli le vene e scaldarlo. Non voleva assecondare la follia.

Giunsero presto a casa di Ismaël, abitava in una palazzina alta e stretta, con l’intonaco azzurro sulle travi a vista. L’appartamento all’ultimo piano si estendeva sull’intero solaio e sconfinava nel palazzo attiguo. Ismaël li accompagnò in un breve giro dell’abitazione, raccontando che negli anni cinquanta era stato un piano di chambres de bonne. C’era una piccola cucina con lo stretto indispensabile: un frigo, due fornelli e un lavandino. I piatti e le posate erano riposte in una credenza, attaccato al muro c'era un piccolo tavolino, soltanto due sedie pieghevoli. Un angusto bagno, con le piastrelle azzurre e bianche, la vasca sotto l’abbaino. Nella camera un materasso a una piazza e mezza poggiato direttamente sul pavimento, le lenzuola bianche, sottili e stropicciate, tendaggi chiari pendevano armoniosamente dal soffitto obliquo per fornire una sorta di isolamento termico ed acustico, una base rettangolare di wengé costituiva il comodino, sopra c’erano cianfrusaglie varie e una abat-jour. La stanza degli ospiti era spartana con un unico tocco accogliente dato da dei quadri appesi alla parete e il letto matrimoniale italiano. Il salotto era su un livello diverso, bisognava scendere tre gradini, ed era una grande sala col parquet e un pianoforte, il piccolo vano annerito del caminetto, un divano, due poltrone spaiate, uno scrittoio, una scrivania e degli scaffali pieni di libri e dischi. 
- Volete qualcosa in particolare per pranzo? - chiese Ismaël assentandosi per andare a prendere altre due sedie pieghevoli dal ripostiglio, poi stese una tovaglia sul tavolo di cucina e aprì un cassetto per le posate. 
- Va bene tutto. L’unica che mi fa qualche problema a tavola è Maelice - accennò Stéphane, porgendo le forchette a Louise-Maelice. Lei adorava apparecchiare e, in generale, occuparsi di tutte quelle piccole faccende domestiche che la facevano sentire grande ed indispensabile; - cosa cuciniamo? - 
Mangiarono tabbouleh alla menta, Ismaël aveva aperto una bottiglia di sidro come accompagnamento e del succo di frutta per le bambine. 

Stéphane richiuse la porta del bagno e vi scivolò contro con la schiena. Gli girava la testa e sentiva le troppe emozioni e informazioni picchiare contro scatola cranica, come se si fossero accorte solo ora di essere state imprigionate in quel corpo per l’eternità o almeno fino all'ubriacatura successiva. Si rialzò per lavarsi il viso e bere un po’ d’acqua. Lo specchio gli rimandava l’immagine di un uomo stanco, con folti capelli neri corti e spettinati, appena ingrigiti alle basette, il volto dalla pelle chiara e grigiastra, forse qualche chilo di troppo ma dissimulati dall'altezza. Con impeto spalancò l’anta-specchio dello scaffale a muro per vedere i medicinali, cercare di capire, c’erano i flaconi di vetro di Ismaël con le pastiglie per l’epilessia, antibiotici, uno spazzolino in più oltre a quello nel bicchiere. Qualcuno era nella vita di Ismaël e ancora non gliene aveva parlato. Cacciò il viso sotto l’acqua, rabbrividendo e scrollandosi di dosso la malinconia; - sono geloso, non ci posso credere... -
Quando ritornò in cucina le bambine erano calme, composte ed educate come non mai, disegnavano su dei fogli bianchi.
Ismaël, poggiandogli una mano sull’avambraccio, lo guidò in corridoio, fino alla cassapanca, lo invitò a sedersi e, nervoso, si appoggiò alla parete. 
- Stef, mi dispiace – mormorò.
- Ho sbagliato anche io, non sono venuto a cercarti, non ho mai tentato di convincerti - Stéphane capì subito a cosa si riferiva; - saresti venuto con me ad Amburgo?- 
- Forse sì, ma non sarei stato capace a restare, a che pro? - rispose a capo chino. 
- Ora sei capace? - Stéphane sentì il cuore fermare i battiti, in attesa; - insomma, chi c’è nella tua vita?- 
- Mi divido tra qualche presenza, qualche assenza. Tu vorresti…? - accennò Ismaël. 
- Ricominciare? - Stéphane cancellò la prima parte della risposta, non era così importante al momento. Davanti a sé aveva la persona che amava, l’unica persona che sarebbe stato capace di amare e una piccola speranza nello sguardo. 






   
 
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