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Autore: TrixieBlack    18/03/2012    3 recensioni
Alto e slanciato, lineamenti duri e taglienti, capelli scuri, occhi fieri di un grigio indefinito, mi sorrise mettendo in mostra i suoi denti perfetti, con un’espressione gentile e malandrina allo stesso tempo. Alzando il mento, mi tese la mano. “Piacere, Sirius Black.” Timida, restituii il sorriso, dimenticandomi di presentarmi. “Sirius”, pensai solo, “come la costellazione”.
Ed era proprio Sirius la stella che avrebbe illuminato la mia vita.
Genere: Comico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: I Malandrini, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Terzo capitolo: SABATO, FINALMENTE!

 
Quella mattina mi svegliai di buon umore, pensando che finalmente era arrivato il sabato. La settimana era stata traumatica ed era passata con una lentezza esasperante, fra una lezione e l’altra. Dopo un’estate di dolce far niente i professori ci avevano colti alla sprovvista assegnandoci una montagna di compiti a dir poco scandalosa, con la scusa che “dovevamo riprendere il ritmo dello studio.” Bella roba. Finalmente però era arrivato il week-end. Sorrisi fra me e me e mi stiracchiai.
La stanza era illuminata dalla luce del sole nascente, una palla arancione che colorava il lago dello stesso colore. Doveva essere passato poco tempo dall’alba. Guardai l’orologio babbano che avevo al polso: segnava le sei e trentacinque. Le mie compagne dormivano ancora. Mi alzai, sempre sorridendo felice, infilai le pantofole e uscii dal dormitorio, rovesciando per sbaglio il mio baule. “Chissenefrega, sistemo dopo”, pensai allegramente.
Il castello era deserto. Scesi un piano dopo l’altro, una volta sbagliai strada e mi ritrovai in una stanza circolare piena di specchi, che non avevo mai visto.
Alla fine arrivai nei pressi delle cantine, dove si trovava la Sala Comune dei Tassorosso. Svoltai in un corridoio leggermente in discesa e mi fermai di fronte ad un ampio quadro raffigurante un vaso di frutta. Allungai il dito indice e feci il solletico ad una pera panciuta nell’angolo, che si agitò con un risolino. La porta si aprì con uno scatto. Non feci in tempo ad entrare che fui accerchiata da un gruppetto di elfi domestici. “La signorina desidera qualcosa?”, mi chiesero nel solito tono servile, con mio grande imbarazzo.
“Ehm, sì grazie… vorrei qualcosa da mangiare, se è possibile, oggi io e le mie amiche volevamo fare un pic-nic al lago…”. Mi sentii terribilmente in colpa, gli elfi domestici erano già abbastanza sfruttati senza che mi ci mettessi anch’io.
Un piccolo elfo vicino ad uno dei tavoli, a quelle parole, preso un vassoio cominciò febbrilmente a riempirlo di dolci, panini, tazze di tè, fette di torta.
Mi avvicinai a lui. “Tu sei Dobby, vero?”
L’elfo annuì felice sbatacchiando le grosse orecchie da pipistrello. “La signorina si ricorda di Dobby!”, disse mentre i suoi enormi occhi verde erba si riempivano di lacrime di gioia.
“Certo che mi ricordo di te, Dobby!”, esclamai afferrando il vassoio decisamente troppo pesante per le esili braccine dell’elfo, che infatti stava per cadere a terra.
“Grazie mille Dobby, non dovevi disturbarti!”, lo ringraziai.
“Arrivederci signorina, torni pure quando vuole!”
 
Maledicendo il fatto che la Torre di Grifondoro dovesse essere così lontana dalle cucine, mi avviai faticosamente verso la Sala Comune, senza fare troppo caso alle occhiate perplesse dei pochi studenti insonnoliti che incontravo. Ero al terzo piano quando mi fermai di botto, rovesciando un po’ di tè per terra. Dietro l’angolo, sentivo chiaramente la voce di Gazza che urlava contro qualche povero studente. “E VOGLIO VEDERE SE QUESTA VOLTA NON ASSAGGERETE LA FRUSTA!”
Non feci in tempo a nascondermi che Gazza spuntò nel corridoio, trascinando per un orecchio James e Sirius. Chissà cosa avevano combinato, mi chiesi. Si vedeva anche da lontano che stavano cercando accuratamente di non incrociare gli sguardi per non scoppiare a ridere. Quando Gazza mi vide, i suoi occhi schizzarono quasi fuori dalle orbite per la rabbia e le sue guance flosce si chiazzarono pericolosamente di viola. “Disgraziata, cos’hai combinato!”, urlò bellicosamente. “ATTENZIONE, LADRA SI AGGIRA NEL CASTELLOOO!”, ululò rivolto verso i piani superiori. Sirius scosse la testa con aria di finto rimprovero, e mi fece l’occhiolino.
“Niente, non ho fatto niente!”, risposi a Gazza scappando a gambe levate, per quanto me lo consentiva il peso del vassoio. In lontananza sentii le risate di James e Sirius.
 
Quando arrivai in camera, visto che avevo le mani occupate aprii la porta con un calcio ed entrai urlando: “Stamattina colazione a domicilio!”
Le tre Belle Addormentate erano ancora a letto. Georgia, vedendomi, sgranò gli occhi azzurri, Heloïse sbadigliò, probabilmente non si era nemmeno accorta della mia presenza. Juliet dormiva ancora, naturalmente. Mi avvicinai al suo letto e la scrollai. “Juliet, Juliet, chi dorme non piglia pesci e il mattino ha l’oro in bocca… Mangiamo? Mi ha dato tutto Dobby.”Per tutta risposta, si girò dall’altra parte e, dopo essersi sistemata la frangia castana, riprese a dormire, con un braccio sopra il viso per coprirsi dalla luce.
Presi un pancake e lo divorai. Heloïse mi imitò.
 
Un’ora dopo eravamo distese al sole sull’erba soffice, in riva al lago, ad ascoltare il frusciare del vento tra gli alberi e il cinguettio allegro degli uccellini, finalmente libere di goderci il tempo ancora estivo. Se fosse stato per me non avrei esitato a fare il bagno, ma le mie amiche si erano categoricamente rifiutate.
Restammo nel parco tutto il giorno, fino a quando non cominciò a fare freddo.
 
La sera, dopo cena,  ero acciambellata su una confortevole poltrona un po’ sgualcita, di fronte al camino spento della Sala Comune, del tutto presa dalla lettura di uno dei miei libri.
  “Scricciolo?” James, spuntato dal nulla, si appollaiò sul bracciolo della mia poltrona.
“Mmm?”
“Cosa fai?”
“Secondo te?!”, dissi sbuffando infastidita.
“Che libro è?”
“Orgoglio e pregiudizio. Èun romanzo babbano e ora te ne puoi anche andare.”
“Scricciolo?” Ovviamente era ancora lì.
“Cosa vuoi, James?”. Chiusi il libro e lo guardai seccata.
“Niente! Volevo solo chiederti da quanto tempo ti piace Sirius”. Fece un sorriso angelico. E io mi sentii gelare.
“Cosa scusa?” Feci finta di non aver sentito.
“Da quanto tempo ti piace Sirius?”
“Cosa stai dicendo, Quattrocchi?”, chiesi cercando di simulare incredulità. Non arrossire, non arrossire, pensavo intanto con tutte le mie forze. Come naturale conseguenza, diventai color porpora.
“Ah-haaa, sei arrossita!”, eslamò James trionfante. “Ti piace Sirius, ti piace Sirius…”, si mise a cantilenare a voce sempre più alta.
Non sapendo cosa fare, cercai di tappargli la bocca, ma nel farlo mi detti troppo slancio. James perse l’equilibrio e cadde giù dalla poltrona, trascinandomi a terra. Mi misi a schiaffeggiarlo selvaggiamente, tentando di farlo smettere, mentre lui cantava ormai a squarciagola.
“Non! Mi! Piace! Sirius!” gli urlai accompagnando ogni parola con un pugno.
“…Ahi!... Un portamento… così nobile e fiero… Ahiaa!... Toujours pur…”. Era scosso dalle risate e si dimenava come un lombrico, ma nonostante tutto continuava imperterrito a decantare le lodi dell’antica e nobile Casata dei Black.
“BEH SENTI CHI PARLA!”, sbraitai alla fine, perdendo il minimo di ragione che ancora mi rimaneva. “HAI UN BEL CORAGGIO, PROPRIO TU CHE SBAVI DIETRO A LILY DA CINQUE ANNI QUANDO LEI NON NE VUOLE SAPERE DI TE!!”. Per un secondo ammutolì, guardandomi a bocca aperta, poi con una spavalderia che non potei fare a meno di ammirare, riprese fiato e tentando di tenermi ferma ricominciò: “Quello sguardo… così seducente… AHIAAAA!”. Gli avevo morso una mano.
Continuammo a picchiarci furiosamente, e saremmo andati avanti ad oltranza  se la porta della Sala Comune non si fosse aperta all’improvviso, facendo entrare due persone.
Ci paralizzammo di colpo, inorriditi,  io con una mano che tentava di strangolarlo e l’altra che gli tirava una ciocca di capelli, lui con un piede che mi schiacciava la testa.
 
Sirius e Lily, immobili come due statue, ci guardavano esterrefatti.

 
  
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