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Autore: Mimi18    19/03/2012    5 recensioni
«Non sei la sola», gli sfuggì dalle labbra così, la voce arrochita dal troppo silenzio.
Haruna spalancò gli occhi, avvicinandosi strisciando il sedere sulla panchina.
«In Giappone si è perso ormai da tempo il significato di “calcio” ed io, con una squadra agli esordi, non so che cosa fare».
Non sapeva di cosa stesse parlando; le notizie del Giappone non arrivavano lì in Inghilterra, ma capì che la cosa che stava affliggendo i suoi occhi spenti fosse qualcosa di grande.
(Per la serie crack pairing: EDGAR/HARUNA).
Partecipante al contest "Niente è impossibile" e in attesa di giudizio.
Prima classificata all'I.E. Contest On the Road indetto da cosmopolitan00.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Celia/Haruna, Edgar Valtinas
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nickname: Mimi18;
Titolo della storia: Il mondo nei tuoi occhi;
Personaggi Edgar e Haruna;
Rating: Verde;
Genere: Introspettivo, malinconico, sentimentale;
.Avvertimenti
: What if?, Slice of life, Het, vago non sense;
Trama: Edgar si sente un fallito; un giorno, una vecchia “conoscenza” riapre i suoi orizzonti, illuminata dalla luce di Londra.
Note dell’autore: Oh, a me piace. La storia è ambientanta qualche anno dopo (circa sei) della FFI, e un paio prima della GO.

PARTECIPANTE AL CONTEST “NIENTE è IMPOSSIBILE” E PRIMA CLASSIFICATA ALL’INAZUMA ELEVEN CONTEST.

Il permesso per pubblicare la storia l’ho chiesto ed entrambe le giudici, ricevendo il permesso, in quanto la storia era ovviamente inedita. ;)

 

Il mondo nei tuoi occhi

 

Tante cose nella sua vita erano andate storte. Ricordava con chiarezza i giorni passati ad allenarsi su un campo da calcio all’oscuro dai suoi genitori, con la paura che questi potessero scoprirlo e proibirgli così di giocare a pallone; non era uno sport raffinato, anche Edgar vedeva i vestiti sporchi di erba e le ginocchia sbucciate.

Per sua madre, così esageratamente apprensiva, il calcio era sempre stato un tabù.

Poi Edgar era cresciuto, ed aveva creato su quelle distese un nuovo gioco: tutti lo conoscevano lì, in Inghilterra, e ogni singolo tifoso rispettava quel modo raffinato ed elegante di calciare il pallone, di condurre il gioco come se fosse stata una sinfonia e non più un’accozzaglia di corpi sudati pronti a scontrarsi.

Edgar aveva creato il suo calcio, crescendo, e non si era più sporcato la faccia di erba e le ginocchia non avevano più sanguinato. Nessuna lacrima per le sconfitte aveva solcato quelle guance scarne e pallide, e le emozioni, quella forte e contagiosa felicità di un bambino, erano scomparse.

Il gioco del calcio era divenuto un dovere, vincere un obbligo, infamare gli avversari un divertimento. Tutti dalle tribune incitavano il suo nome; nessuno si aspettava uno sgarro di alcun tipo dal barone del calcio inglese.

Inizialmente, quella situazione era stata qualcosa di strepitoso ed emozionante. Credeva che il calcio fosse fama, gloria, potere; poi, però, con il tempo Edgar aveva perso tutto.

Sentiva le gambe sempre più deboli, che malvolentieri si prestavano al suo gioco violento e tagliente, sembravano ribellarsi ai ritmi imposti dal suo calcio. E poi, un giorno, l’avevano fatto crollare a terra.

In quel momento, il mondo era finito, per lui.

Look at the stars,

Look how they shine for you.

Guardando il mondo sotto i suoi piedi, dai vetri trasparenti del London’s Eye, Edgar non provava alcuna paura. Le luci di Londra erano uno spettacolo disarmante, pronte a brillare come un tempo avevano fatto per lui.

La vertigine della fama non era presente là sopra, seppur lo spettacolo fosse molto più gratificante. Era ignorato, nessuno in quella cabina gli aveva rivolto più la parola. La stella che una volta brillava per lui, si era irrimediabilmente spenta dopo quel giorno di due anni prima.

Il pallone aveva preso la traversa quel giorno, consegnando nelle mani del Canada la vittoria del campionato mondiale. Non c’era stata battaglia; nessuno ormai chiamava più il nome di Edgar da tempo - da quando quei giapponesi l’avevano umiliato - ed ora lui non era che considerato un reietto della peggior specie.

Passandosi una mano tra i capelli ormai corti, Edgar osservò la ragazza seduta a pochi passi da lui, con una cascata di fluenti capelli corvini che le coprivano le spalle nude. Era esile, ma graziosa, e non avrebbe mai confuso il taglio dei suoi grandi ed espressivi occhi blu.

Si era domandato cosa ci facesse lì; era un tipo che tendeva a ricordarsi ogni cosa, soprattutto delle ragazze, e vedere la sorella di Yuuto Kidou seduta con lo sguardo perso nel vuoto a pochi metri da lui era uno spettacolo insolito.

Non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a lei; qualche persona oltre a loro avrebbe potuto riconoscerlo e, forse, iniziare a prenderlo per i fondelli come era successo negli ultimi tempi.

Il suo nome era diventato soggetto di scherno. L’avevano etichettato come un codardo, più volte si era dovuto nascondere dalle folle inferocite. Il calcio, in quegli ultimi anni, era veramente cambiato.

Osservò il profilo della giovane con interesse: era la ragazza che, in contemporanea ad Urabe, era stata rapita durante il FFI. Sembrava triste, pensierosa, e le luci di Londra proiettavano sul suo viso dei giochi di luci mistici e affascinanti, che gli incatenavano lo sguardo come se si fosse trovato di fronte ad un cielo stellato.

Chissà cosa l’aveva condotta lì - da lui?

Osservò silenzioso le persone abbandonare la ruota panoramica, per sperare che la ragazza rimanesse seduta a poco più di un metro da lui e si lasciasse studiare.

Fu quando si girò a guardarlo che Edgar sentì il battito accelerare. E si ricordò le prime partite su un campo di calcio.

Your skin,

Oh yeah your skin and bones

Turn into something beautiful

« Oh» .

Spalancò leggermente la bocca rossa, irrigidendosi di colpo per la sorpresa e indietreggiando d’un passo. Nel frattempo, le porte si chiusero alle loro spalle e la ruota ripartì.

Nuovamente con Londra sotto i loro piedi, Edgar si schiarì la voce per attirare la sua attenzione.

« Cosa…?»

« Un giro turistico» , spiegò anticipandolo la ragazza, Otonashi, inchinandosi in un riverente ed elegante saluto.

Aveva una postura raffinata e composta; la schiena non presentava la benché minima curva, ed il collo e le spalle erano perfettamente erette. Sua madre sarebbe stata fiera di avere una ragazza come lei in famiglia, Edgar ne era sicuro.

Si torturò una ciocca di capelli lunghi, prima di sospirare. « Questa è una bugia, sto semplicemente…scappando» .

La sua pelle bianca fu irradiata dalle luci, tanti puntini che sembravano stelle ed invece erano solamente lampioni e fari di automobili che correvano sul ponte poco lontano da lì.

Ammirò per un attimo il suo coraggio e la sua sincerità, seppur avesse ammesso di star facendo qualcosa di codardo che lui, un tempo, avrebbe considerato per deboli.

Ora la stava semplicemente imitando.

« Non sei la sola» , gli sfuggì dalle labbra così, la voce arrochita dal troppo silenzio.

Haruna spalancò gli occhi, avvicinandosi strisciando il sedere sulla panchina.

« In Giappone si è perso ormai da tempo il significato di “calcio” ed io, con una squadra agli esordi, non so che cosa fare» .

Non sapeva di cosa stesse parlando; le notizie del Giappone non arrivavano lì in Inghilterra, ma capì che la cosa che stava affliggendo i suoi occhi spenti fosse qualcosa di grande.

Edgar le si avvicinò maggiormente, fino ad ispirarne il profumo di vaniglia. Era così dolce ed amaro al tempo stesso che, per un attimo, si distrasse dal discorso.

« Hanno completamente dimenticato il mio nome, qui» , esordì, la voce roca e un magone nello stomaco che pesava come dieci tonnellate di sassi taglienti. Più taglienti della sua tecnica micidiale, più taglienti anche dello sguardo indagatore di Otonashi.

Oh, non stette a chiedersi perché ne volesse così urgentemente parlare con lei, si disse che era a causa della sua pelle bianca che rifletteva come la luce delle stelle.

« Le tifoserie inglesi non sono come le altre. Il tuo mito, se più di una volta ti dimostri come uno sconfitto ai loro occhi, si sfascia facilmente» , spiegò mentre Haruna si mordeva le labbra.

Avevano appena superato metà della ruota, e sentiva un po’ di freddo. O forse erano solo brividi, emozioni o agitazione?

« Perché?»

« Un paio di goal mancati» , scrollò le spalle con un sorriso amaro, e sussultò quando una mano di Haruna si posò leggera sulla sua.

Sentì le dita formicolare piacevolmente, mentre i capelli della ragazza divenivano di un blu cobalto grazie alla luce.

Haruna sbatté le ciglia, cercando le parole da dire dentro di sé, che sembravano aggrovigliate in un gomitolo di lana.

« No, intendo: perché hai mancato quei goal?»

Edgar si sentì punto sul vivo.

« Non sempre si può segnare» .

Un sorriso di puro sarcasmo si disegnò sulle labbra rosse della ragazza. « Questo potrebbe dirlo un principiante, ma non tu» .

Fu come se fosse stato colpito da uno schiaffo.

Ipnotizzato, stringendo con forza le ginocchia magre, si guardò i piedi. Da quanto tempo non portava più scarpini da calcio?

Aveva iniziato a perdere fiducia in se stesso quando aveva capito, da quel presuntuoso portiere giapponese, che il calcio non era un dovere; era divertimento.

Deglutì rumorosamente, sentendo lo stomaco contrarsi e rivedendo i flashback di se stesso che rotolava nel fango con il sorriso e sua mamma che, disperata, gli urlava di smettere.

Quell’immagine si sovrappose all’Edgar che prima di scendere in campo fissava i capelli negli specchi, premurandosi che fossero perfettamente pettinati. All’Edgar che faceva cadere a terra i compagni, ma rimaneva in piedi senza sporcarsi nemmeno le scarpe. All’Edgar presuntuoso che fissava la sicurezza di vittoria ai mondiali che veniva irrimediabilmente umiliato da una squadra pseudo sconosciuta.

Sentì il peso dell’imperfezione crollare su di lui, come un macigno.

« Ho smesso di amare il calcio e volevo la fama» .

Haruna sorrise, amaramente.

« In Giappone è la stessa cosa, ma un‘organizzazione non si può contrastare facilmente. Tu, invece, puoi tornare quello di un tempo» .

Edgar scosse il capo, il giro della ruota stava giungendo al termine.

« Tu non sai cosa vuol dire…»

« Sentire i tifosi urlarti contro? No. Ma so cosa vuol dire perdere la passione per il calcio; vedo ogni giorno studenti che mollano la squadra, perché i ritmi insostenibili a cui sono sottoposti li massacrano» , si morse il labbro, « ma tu puoi ancora combatterli. Puoi dimostrare di essere Edgar, il campione acclamato d‘un tempo» .

La guardò alzarsi in piedi e, prima che potesse anche solo pensarci, la seguì giù da quella ruota panoramica.

Corse dietro la sua figura minuta, afferrandole un polso e stringendolo.

« Anche tu» .

Una lacrima cadde dai suoi occhi; seppur non la conoscesse quasi per nulla, aveva capito che quelle parole erano ciò che anche lei voleva sentirsi dire.

Era stato irradiato dalla sua luce per trenta minuti, come se qualcuno avesse voluto indicargli la via; come se Haruna Otonashi, con la pelle illuminata, fosse la stella polare che l’avrebbe condotto alla meta.

Vide un sorriso di gratitudine illuminarle il volto.

« Fai tornare le stelle a brillare su dite, Edgar» .

Lasciò il suo polso, scostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

« Questa è una promessa» .

Look at the stars,
Look how they shine for you.

   
 
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