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Autore: Beatrix Bonnie    20/03/2012    3 recensioni
Filosofo mi chiamavano, teologo, profondo conoscitore dei misteri del creato. Io, in realtà, non sapevo bene chi ero. Non capivo dove mi stesse conducendo la mia insaziabile sete di conoscenza e vagabondavo senza meta, stanco di ogni cosa, ma instancabile nella ricerca di qualcosa di meglio. Ero uno spirito inquieto, che non riusciva a trovare la sua collocazione nel mondo.
Dublino, 1185
Al giovane intellettuale sir Gregory è stata affidata dal suo signore una delicata missione da compiere alla corte di re Gilbert del Leinster. Certo, sir Gregory non si immagina che qualcosa verrà a turbare la sua affaticata esistenza: una ragazza, la pace di un vecchio podere di campagna e il profumo di una lontana leggenda.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
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Liber X






Il viaggio per raggiungere il pozzo di san Patrick, che si trovava nel regno dell'Ulster, fu piuttosto tranquillo. Io e fratello Cormac attraversammo la campagna irlandese, lui sul suo mulo, io su un baio vecchiotto che avevo comprato a Dublino. Ci fermavamo nelle locande o nei piccoli paesi per passare la notte; solo quando non riuscivamo a raggiungere un posto per dormire, ci accampavamo all'addiaccio.
Avevo portato come me un bastone, su cui facevo una tacca ogni giorno, per non perdere il conto. Era essenziale mantenere una tabella di marcia, perché il matrimonio di Feamair era stato previsto per la notte di Natale, a cui mancava poco più di un mese.
Arrivammo a Lough Derg una piovosa mattina di fine novembre.
«La grotta dovrebbe essere qui da qualche parte» disse Cormac, legando il suo mulo ad un albero.
Con quell'acquazzone che riduceva la visibilità, poteva rivelarsi un'ardua impresa riuscire a trovare il pozzo. Anche io scesi da cavallo e cominciai a guardarmi intorno, ma il cappuccio impregnato di pioggia mi ricadeva sugli occhi, impedendomi di vedere bene. Pensai che più bagnato di così non potevo essere, quindi tanto valeva levarsi il cappuccio. Mi avvicinai cauto alla sponda del lago, guardandomi intorno con circospezione, anche se la pioggia rendeva i contorni sfumati e l'orizzonte una tremula linea che pareva ballare sinuosamente sotto i nostri occhi.
Feci un altro passo incerto in direzione della riva, quando misi un piede in fallo e il terreno bagnato scivolò sotto i miei piedi. Franai sul fango verso la sponda per una decina di braccia, fino a che non riuscii ad afferrare uno sperone di roccia e a fermare la mia caduta. Ad un pelo dal finire direttamente nel lago.
«Sir Gregory!» esclamò fratello Cormac, vedendo la mia impietosa scivolata.
Io mi rialzai a fatica da terra, attento a non cadere un'altra volta. «Tutto bene, tutto bene» gli dissi per tranquillizzarlo, sebbene mi doleva vagamente il fondoschiena ed ero ricoperto di fango da capo a piedi. Ma quando mi guardai in giro per trovare il modo di risalire dove si trovava Cormac, vidi alla mia sinistra una fenditura nella roccia che aveva proprio l'aria di essere l'ingresso di una caverna. Da dove si trovava il chierico (esattamente dov'ero stato io prima di scivolare) non si riusciva a vedere l'entrata che dava verso il lago, perché era coperta da un picco di roccia.
«Fratello Cormac, credo che abbiamo avuto fortuna» gli rivelai, con un sorriso soddisfatto.
Quando Cormac riuscì a raggiungermi, ci scambiammo uno sguardo d'intesa e poi entrammo nel pozzo.
L'ingresso era piuttosto angusto, ma dopo pochi passi la caverna si allargava in un ampio spazio. Attaccate ad una parete vidi delle crocette fatte con metalli poveri, qualcheduna in bronzo o in altre leghe, una in quello che sembrava argento.
«Doni votivi» commentò fratello Cormac, osservando anche lui le croci. Qualche pellegrino doveva essere giunto fin lì per richiedere una grazia a san Patrick, o per ringraziarlo di una ricevuta.
«Siamo nel posto giusto» asserii, annuendo con convinzione e avvicinandomi alla roccia. Appoggiai la mano alla parete, come attratto da una forza soprannaturale e, non appena sfiorai la roccia, sentii uno strano brivido percorrermi la schiena. Forse Feamair aveva ragione: in quel luogo c'era davvero qualcosa di... magico.
Ci spingemmo fino al fondo della caverna, guardandoci intorno con circospezione, ma in realtà non trovammo nulla che potesse indicare la presenza di passaggi per altri mondi, che fossero il purgatorio o il paese degli elfi.
«Qui non si va più avanti» osservò Cormac, ispezionando la rocca davanti a noi.
Eravamo in un vicolo cieco.
«Feamair forse si sbagliava» azzardò il chierico, scuotendo la testa.
Sapevo che era sempre stato scettico riguardo a quella storia di Faerie e forse una parte di lui era sollevato dall'idea che non avessimo trovato nulla. Certo, il pozzo di san Patrick non si era rivelato una porta per il purgatorio come sostenevano le leggende cristiane, ma, almeno, neanche l'esistenza di Faerie era stata provata. Eppure avevo come l'impressione che ci fosse qualcosa di strano in quella caverna.
E poi accadde: la crepa davanti a noi si aprì in uno squarcio dal quale fuoriuscì un orribile essere verde con gli occhi sporgenti e due enormi orecchie a punta.
«Che ci fate qui? Chi diavolo siete?» ci aggredì.
Sia io che Cormac indietreggiammo spaventati. Quella creatura era... reale? Il suo corpo sgraziato, la sua pelle verdastra, quel volto mostruoso... che cosa diavolo era?
Il mio tempo di reazione fu piuttosto breve, in realtà, considerato che avevo appena visto apparire da una crepa nel muro un essere disgustoso.
«Tu parli la nostra lingua?» chiesi incerto, osservando meglio la creatura. Non fu una domanda particolarmente felice.
«Di', umano, ti sembro un folletto dislessico, io?» mi aggredì il pelleverde con un grugno orribile nella mia direzione.
«Ehm... no?» farfugliai, senza bene capire dove volesse andare a parare la creatura, che non pareva affatto ben disposta nei nostri confronti.
«Ma allora Faerie esiste davvero?» si intromise Cormac, scuotendo la testa incredulo.
L'essere si voltò verso di lui con l'aria stralunata. «Ma siete tutti idioti, voi umani?» ci chiese. «Per tutti i bubboni di sua Maestà il Re, avete appena visto un goblin uscire da un portale e mi domandate se Faerie esiste davvero?»
Io e Cormac ci scambiammo uno sguardo perplesso.
Dunque era vero, il regno degli sidhe esisteva realmente. E quella creatura, quel goblin, o qualsiasi altra cosa fosse, ne era la prova tangibile. Significava che avrei potuto salvare Feamair e liberare il Leinster con l'aiuto dell'esercito fatato. Il mio piano si sarebbe attuato, ora ne ero certo.
«Cormac, io devo andare» dissi con ritrovata sicurezza, mettendogli una mano sulla spalla.
Lui mi guardò con gravità, poi annui. «Verrò con voi».
«Fermi, fermi. Dove pensate di andare?» ci interruppe il goblin con la sua voce gutturale.
Entrambi ci voltammo verso di lui.
«A Faerie» gli risposi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
La creatura scoppiò a ridere e la sua catarrosa ghignata rimbombò nella caverna. «Ma siete proprio stupidi, voi due!» ci derise, appoggiandosi alla parete per non perdere l'equilibrio. Le nostre facce perplesse lo costrinsero a spiegarsi meglio: «Quando un umano entra a Faerie, non può più uscirne».
«Che cosa significa che non può più uscire?» ripeté scioccamente Cormac.
Il goblin si avvicinò a noi con sguardo eloquente. «Che nel momento stesso in cui i vostri piedi puzzolenti toccheranno il suolo di Faerie, non avrete più modo di riattraversare i portali per tornare in Irlanda».
Quella notizia ci spiazzò: nessuna leggenda parlava di un divieto del genere. Ma, in effetti, Feamair mi aveva detto che nessuno, tra quelli che avevano raggiunto il regno fatato, era mai tornato indietro.
Questo significava che avevamo fatto tutta quella strada per niente e che non avrei mai potuto strappare Feamair dalle grinfie della regina Aoife. Quel piano era la mia ultima possibilità e ora che la vedevo sgretolare tra le mie mani mi sentivo impotente.
«Ma io devo parlare con l'esercito fatato!» proruppi con foga, incapace di accettare la sconfitta.
Il goblin mi guardò con aria stralunata. «Esercito fatato?» ripeté dubbioso.
Avevo come l'impressione che mi considerasse un completo demente.
«Senti, umano. Se vuoi io ti posso andare a chiamare il capo della guarnigione più vicina e te la vedi con lui, va bene?» mi propose il pelleverde. Improvvisamente mi si aprì uno spiraglio di luce davanti agli occhi. «Lo faresti?» gli chiesi speranzoso.
La creatura sorrise maligna. «Dovrai darmi qualcosa in cambio».
«Che cosa?» chiesi cauto, ben conscio che non avevo nulla di valore da poter scambiare. In realtà nemmeno riuscivo a capire cosa potesse volere il goblin da me, ma la sua faccia non prometteva niente di buono.
La creatura si avvicinò con un sorriso inquietante. «Voglio la tua vista».
«La mia vista?» gli feci eco scioccamente. Non capivo quella richiesta cose volesse dire. Come poteva avere la mia vista e... cosa se ne sarebbe fatto?
Ma il goblin sembrava parecchio convinto di quella sua richiesta. «Sì, da un occhio soltanto... il sinistro, dai» propose, come se stessimo facendo un semplice scambio di prodotti della terra.
Il pelleverde voleva forse strapparmi l'occhio sinistro? In che modo? Ma soprattutto, perché?
«Io...» farfuglia, incapace di prendere una decisione.
Il goblin mi fissò per un attimo con uno sguardo provocatorio, poi sorrise. Mi fece solo una domanda: «Quanto sei disposto a perdere per ottenere quello che vuoi?»

Quella domanda mi perforò la mente. Già, quanto ero disposto a perdere? In fin dei conti, avevo fatto tutta quella strada, e mi ero dimostrato pronto a scendere a patti con un goblin per una ragazza che conoscevo da qualche mese!
Dovevo essere un folle. Io, poi, che non mi ero mai legato a nessuno da quando era morto sir Thomas. Ma chi volevo prendere in giro? Avevo sempre e solo pensato a me stesso, ero un egoista. E ora volevo farmi strappare un occhio per salvare che cosa? In realtà volevo solo riscattare il mio onore, dimostrare a Feamair che non ero un codardo, che non l'avevo usata solo per raggiungere i miei scopi. Non potevo credere che mi fossi innamorato veramente di lei. Non volevo crederlo.
Quella storia era veramente assurda. Avrei fatto meglio a tornarmene dal mio signore in Inghilterra e occuparmi delle terre che mi aveva affidato, lontano dai problemi dell'Irlanda e della corte del Leinster.
Eppure... cercavo solo di ingannarmi. Ogni volta che pensavo a lei mi sentivo avvampare il volto e gelare il cuore. Era vero, ero sempre stato un egoista, ma non mi era forse concesso di innamorarmi? Non riuscivo sopportare l'idea che Feamair fosse data in sposa a suo cugino, che qualcun altro, oltre a me, potesse metterle le mani tra i capelli, baciare il suo collo o anche solo stringerla a sé. Ero furiosamente geloso.
L'avevo tradita, l'avevo ingannata, ma avevo assolutamente bisogno di lei. Dovevo essere certo che sarebbe stata mia, per sempre. E per questo ero disposto a pagare qualsiasi prezzo.
«Quello che vuoi» sussurrai debolmente, guardando dritto negli occhi la creatura, che mi sorrise soddisfatta.
«Sir Gregory!» intervenne con foga Cormac, facendosi avanti a frapponendosi fra me e il goblin.
Io gli misi una mano sulla spalla con fare rassicurante, sebbene dentro di me fosse esploso l'inferno.
Il goblin mi si avvicinò con un ghigno sul volto che non mi piaceva per niente. Tese le mani verso di me e poi cominciò a recitare versi inquietanti in una lingua che non conoscevo.
Improvvisamente sentii un dolore lancinante all'altezza dell'occhio sinistro, che presto si espanse a tutta la testa. Mi portai una mano al volto e fui costretto ad appoggiarmi alla parete alle mie spalle, per non cadere a terra. Vidi una luce azzurrina che partiva dal mio occhio e finiva dritta negli artigli del goblin, che rideva soddisfatto. Fratello Cormac arretrò di un passo, atterrito, afferrando con una mano la croce d'argento che portava al petto. Poi, il dolore si fece insopportabile tanto che anche la poca luce mi feriva gli occhi come una spada e mi costrinse a chiuderli.
D'un tratto, così come era cominciato, il tormento cessò. Sbattei le palpebre un paio di volte, ma per quanto mi sforzassi di vederci meglio, c'era qualcosa che non andava nel mio campo visivo... e poi realizzai: non ci vedevo più dall'occhio sinistro. Mi portai le mani alla faccia, allarmato, ma non vi trovai nulla di strano. Semplicemente l'occhio aveva smesso di funzionare. Portai in avanti le braccia, come un cieco, perché non avevo più la percezione della distanza.
«Sir Gregory?» mi chiamò titubante fratello Cormac. Prima il chierico rientrava nella mia visuale, ora invece alla mia sinistra ero completamente orbo e la sua voce mi sembrava provenire da un qualche luogo oscuro alle mie spalle. Il goblin mi aveva tolto la vista da un occhio.
«Che mi hai fatto?» lo aggredii con foga.
Il pelleverde stava ammirando con soddisfazione una sfera di luce che reggeva nel palmo della mano. «Mi pagheranno un bordello di soldi per questa, sapete? Io sono un mercante, so come vanno queste cose: un oggetto magico così raro ha un prezzo da far girare la testa» spiegò gongolante, riponendo la sfera luminosa in una ampollina di vetro che aveva nella saccoccia.
«Che mi hai fatto?» ripetei per la seconda volta.
Il goblin si voltò verso di me. «Ragazzo, ho semplicemente preso quello che mi spettava» rispose in modo molto pacato. «Ora, come promesso, ti andrò a chiamare il capo della guarnigione più vicina» e con quelle parole si avviò verso la crepa nel muro dalla quale era comparso.
«Aspetta, chi mi dice che posso fidarmi di te?» lo fermai, mentre uno spiacevole dubbio mi si insinuava nella mente.
Il goblin mi rivolse un ghigno. «Nulla. Ma se mi hai dato la tua vista in cambio, significa che sei davvero disperato e allora non hai altra alternativa che fidarti».
E poi sparì risucchiato dalla roccia.

Le ore seguenti furono le peggiori della mia vita.
Io e Cormac ci sedemmo sul fondo della caverna, ad attendere il ritorno di un essere fatato mostruoso a cui avevo ceduto un occhio senza sapere se avrebbe tenuto fede al nostro patto. Nel frattempo sperimentavo la mia nuova vista limitata: non solo avevo un campo visivo circoscritto, ma anche non riuscivo ad avere percezione delle distanze. Per afferrare un oggetto posto davanti a me, più che altro, gettavo in avanti le braccia finché non lo sentivo sotto le mie dita.
Fratello Cormac era troppo scioccato per parlare. Prima l'apparizione del goblin, poi quell'assurdo rito magico a cui mi ero sottoposto, per lui andavano al di là di ogni immaginazione. Ogni tanto lo vedevo che mi lanciava sguardi preoccupati, ma più che altro sentivo il suo spasmodico borbottare qualche Ave Maria e Pater Noster.
Finalmente, dopo un lasso di tempo incalcolabile, la crepa nella roccia si allargò di nuovo. Quasi non credevo ai miei occhi, quando vidi comparire il goblin, seguito da un altro essere fatato dall'aspetto meraviglioso. Indossava una luccicante armatura di una fattura straordinaria, con uno scudo bianco con fregi blu e una spada alla cintola la cui elsa elaborata faceva intuire la preziosità della lavorazione; aveva la pelle diafana e dei fluenti capelli color dell'oro, gli occhi azzurri e penetranti. A coronare il tutto, un paio di spropositate orecchie a punta. Sembrava un angelo, una creatura celeste che viveva nella mente di Dio e si cibava di luce ed eternità.
Ricordando il manoscritto di Adalbertus di Wexford mi venne in mente un nome: sidhe, gli elfi di Faerie.
«Spero sia qualcosa di importante, giovanotto» Lo sidhe si rivolse a me con queste parole, ma a giudicare dal suo tono di voce, non sembrava particolarmente ben disposto nei nostri confronti.
Io mi feci avanti di un passo e alle mie spalle sentii che fratello Cormac faceva lo stesso. «Sono sir Gregory di Scozia e ho bisogno del vostro aiuto» mi presentai. L'elfo mi guardò con aria interrogativa, ma non disse una parola, così fui costretto a proseguire: «Ho bisogno che l'esercito fatato si schieri al mio fianco nella conquista del Leinster».
Le mie parole furono seguite da una manciata di secondi di silenzio.
Poi il goblin scoppiò a ridere. «Ve l'avevo detto che questo era tutto matto!» esclamò, dando uno spintone amichevole all'elfo.
Lo sidhe, dal canto suo, mi fissava con intensità, apparentemente impassibile. Dopo qualche attimo di silenzio, rispose: «Senti, noi non ci immischiamo nelle faccende di voi umani. Ma se mi porti qualcosa di prezioso in cambio, posso darmi alcuni soldati della mia guarnigione di confine».






Surprise e colpi di scena!
Immagino che molti si aspettavano di fare un bel viaggetto tuistico a Faerie ma.. be', non si può! Non chiedetemi come mi sia staltata in mente questa regola perché risale a seeeeecoli fa (quando ideai questa saga) e l'ho sfruttata spesso nei vari racconti che ho scritto. Anche qui, come vedete, mi è tornata utile. ;)
QUI il link della pagina web dedicata al Lough Derg e al pozzo di San Patrizio (per onore di veridicità, non mi sono inventata nulla!), mentre QUI il disegno del rito del goblin, per il quale mi sono ispirata al detto "costa un occhio della testa"! ^^
Dai, il povero goblin è anche simpatico, no? Ritiene Greogry un po' stupido, ma... non ha tutti i torti! Un umano che si presenta ad uno dei Portali con idee strampalate su Faerie non deve essere tanto a posto con la testa!
Nel prossimo capitolo andremo alla ricerca di una merce di scambio... nuovo personaggio e nuove avventure!
A presto e grazie a tutti!
Beatrix

   
 
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