in the name of the Black

di Marti Lestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***
Capitolo 13: *** XIII. ***
Capitolo 14: *** XIV. ***
Capitolo 15: *** XV. ***
Capitolo 16: *** XVI. ***
Capitolo 17: *** XVII. ***
Capitolo 18: *** XVIII. ***
Capitolo 19: *** XIX. ***
Capitolo 20: *** XX. ***
Capitolo 21: *** XXI. ***
Capitolo 22: *** XXII. ***
Capitolo 23: *** XXIII. ***
Capitolo 24: *** XXIV. ***
Capitolo 25: *** XXV. ***
Capitolo 26: *** XXVI. ***
Capitolo 27: *** XXVII. ***
Capitolo 28: *** XXVIII. ***
Capitolo 29: *** XXIX. ***
Capitolo 30: *** XXX. ***
Capitolo 31: *** XXXI. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Questa raccolta (nella sua interezza) partecipa al Writober di fanwriter.it Altre note al fondo di ogni capitolo. 
 


 

in the name of the Black.

 

Giorno 1;
mnestic (pertinente alla memoria);
❨ Walburga Black ❩.

 

“Voglio che sia messo su quella parete.” 

“Walburga…”

“Non si discute, Orion. Quella. Parete. Ora,” aggiunge la donna voltandosi. 

Gli elfi accorrono come tante formiche, sciamano dentro il salotto come se fossero stati in attesa proprio dietro la porta, le orecchie tese. Kreacher li guida. Orion lascia la stanza, alzando le mani sopra la testa di capelli scuri, arreso come sempre di fronte al forte volere della moglie.

Il grande arazzo viene appeso alla parete vuota e Walburga Black, le belle mani da pianista appuntate sui fianchi, assiste alla scena, un vago sorriso compiaciuto dipinto sulle labbra sottili. È vestita di scuro anche oggi, Walburga, come sempre. Ha fatto del nero il suo mantello, la sua identità, una delle cose che, ogni giorno, le ricorda qual è il suo posto e il suo nome, e la riporta a casa. 

A lavoro finito, Kreacher si inchina, il suo naso tocca terra. 

“Puoi andare, ora, sacco di pulci,” Walburga storce le labbra. Kreacher annuisce ed esce, seguito dai suoi simili. Chiudono la porta e Walburga rimane sola, sola con se stessa e le sue ombre, sola con l’arazzo. 

 

La Nobile e Antichissima Casata dei Black

‘Toujours pur’

 

“Toujours pur,” ripete a fil di labbra. “Toujours pur, toujours pur, toujours pur…” È come una litania, un canto, una preghiera. Gli occhi castani della donna lampeggiano di compiacimento e ardente foga. Poi li richiude, inspira ed espira, e alza le mani, le poggia sull’arazzo, come a volerne apprendere i segreti sulla punta delle dita, come a volerne trarre ogni forza. 

Perpetuum adhaeresce,” dice con voce chiara. L’arazzo comincia a tremare, Walburga sente il calore della magia fluire sotto i suoi palmi e propagarsi tutt’intorno. Quando finalmente l’arazzo smette di vibrare, lei riapre gli occhi. Prova a tirare verso di sé l’arazzo, ma il pezzo di stoffa non si sposta neanche di un centimetro: l’Incantesimo di Adesione Permanente ha funzionato. Ora nessuno potrà più disfarsi di quell’opera d’arte e relegarla in una soffitta buia e piena di ragnatele. 

Abbassa le mani e se le poggia sulla pancia. Ora il gonfiore è più che evidente, non si può più mascherare. Walburga si accarezza il ventre mentre osserva ancora una volta il suo nome intrecciato col filo d’oro: Walburga Black. Accanto, quello di suo marito Orion. Poco sotto, Sirius, il loro primogenito. Walburga può sentirlo piangere da lì, e si chiede perché nessun elfo si stia occupando di lui. Accanto al nome di Sirius c’è uno spazio vuoto, che ha fatto volutamente preparare in attesa del suo secondogenito. Druella le ha predetto che sarà un altro maschio, e che porterà con fierezza il nome dei Black. 

Walburga può solo sperare che il loro nome travalichi i secoli e la storia, che trascenda persino il tempo e lo spazio, e ogni possibile dimensione. Tutto il mondo saprà quanto sono importanti i Black. E tutti li temeranno. Tutti aneleranno il loro appoggio, la loro ricchezza, la loro purezza. Saranno ricordati come una delle famiglie Purosangue più longeve e influenti. Tutti ricorderanno il loro nome. E i suoi figli saranno il tramite per questa memoria. I suoi figli saranno i fautori della loro grandezza. Toujours pur. 

 

[ 526 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ Note ❩
Benvenuti; come accennato sopra, questa raccolta partecipa all’iniziativa Writober indetta da fanwriter.it È la prima volta che prendo parte a questa pazza maratona di scrittura, ne ho sempre e solo sentito parlare. In poche parole: ci sono 4 liste, e ogni lista contiene 31 prompt, uno al giorno; lo scopo di noi autori è quello di scegliere una o più liste (per i più coraggiosi) e di scrivere una storia al giorno in base al prompt proposto; la cosa divertente è la possibilità di mischiare i prompt delle 4 liste e di combinarli in modo da scegliere ogni giorno un prompt da una delle diverse liste. Secondo voi quale opzione ha scelto la sottoscritta? Ebbene sì, ho deciso di mischiare il tutto, ed eccomi qui.

 

Questa sarà una raccolta di 31 storie (ma vah?), più o meno brevi (ma l’intento è quello di non dilungarmi) e assolutamente slegate tra loro, sulla famiglia Black. Ovviamente, seguiranno tutte il mio personalissimo headcanon sui Black, un mix di canon e di idee nate dal mio cervellino, quindi tutto ciò che leggete, e che non rientra nel canon, è farina del mio sacco, quindi inventata da me. Questo primo giorno si apre con Walburga Black, e il prompt mi sembrava perfetto per lei. Fatemi sapere cosa ne pensate, ovviamente. Per qualsiasi chiarimento e/o domanda, mi potete scrivere qui su efp, oppure su instagram. Se vi va, ho creato una playlist dedicata alla storia: vi basta cliccare qui → spotify.

 

Spero che la raccolta possa incuriosirvi e piacervi. Ci risentiamo lungo il percorso ♥︎

 

Ps vorrei intanto ringraziare Alice che ogni giorno sopporta i miei scleri e le mie idee e mi appoggia e mi aiuta nonostante io le sfracassi le scatoline ; poi mi sento in dovere di incolpare la mia amica Fede, che mi ha trascinata in questo casino (anche lei partecipa al Writober e vi consiglio quindi di passare da lei o comunque di tenere d’occhio il suo profilo) ; e infine l’altra mia pazza amica Babina, che è stata una delle prime sostenitrici del progetto sui Black. Grazie, ragazze ♥︎

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Capitolo 2
*** II. ***


in the name of the Black.


Giorno 2;

kidfic;
❨ Bellatrix, Andromeda, Narcissa |
Sirius, Regulus |
Walburga, Alphard, Cygnus ❩. 

 

“Smettila, Bella.” 

“No.”

“Lo dico a mamma.”

“Non ci credo.”

“Sì, sì.”

Bellatrix lascia andare i capelli biondi di sua sorella Narcissa con una risatina. Andromeda entra in camera proprio in quel momento: indossa un vestitino blu con il colletto bianco ricamato. I capelli castani sono pettinati in boccoli morbidi.

“Cosa fate?” Chiede e siede per terra.

“Mamma ti sgriderà,” dice Bellatrix occhieggiando la nuova venuta. “Stai sporcando il vestito nuovo.”

Andromeda fa spallucce. Non sembra importarle un rimbrotto. Forse ci è abituata. 

“Bella mi tirava i cappelli,” piagnucola Narcissa, scivolando verso l’adorata ‘sorella di mezzo’, accoccolandosi contro il suo petto, il pollice stretto tra le labbra piene.  

“I capelli, Cissy, si chiamano capelli,” Andromeda le insegna paziente, nonostante abbia solo un paio d’anni di più ma che ora sembrano tantissimi. 

“Capei,” ripete la bambina succhiando il pollice.

Andromeda sorride. Bellatrix le guarda seduta sul tappeto, vestita tutta di bianco per l’occasione. Gli zii Walburga e Orion verranno a pranzo, e la zia Walburga farà un annuncio importante. Bellatrix sa cosa la zia ha da dire: sfornerà un moccioso molto presto, e loro tre avranno un cugino. Ha sentito i suoi genitori parlare del fatto che “era ora che Walburga e Orion si dessero da fare e sfornassero un erede per i Black”. Non ha capito cosa volessero dire con “darsi da fare”, ma ha capito la parte relativa all’erede dei Black. Sua madre Druella continua a ripetere che arriverà un maschio per Walburga e Orion, e sembra che le sue predizioni si stiano per rivelare esatte. 

“Non dovresti farle i dispetti,” dice Andromeda, ridestando Bellatrix dalle sue fantasie. 

Alza gli occhi scurissimi sulla sorella minore. “Chi sei tu per dirmi cosa devo fare? La mamma?”

“No,” si difende l’altra. “Non voglio che bisticciate.” 

“Bisticciamo ma siamo sorelle,” Bellatrix insiste. Si avvicina alle altre due e si siede loro accanto. Allunga una mano e accarezza i capelli biondi di Narcissa: nessuno sa da dove siano venuti; nessuno in famiglia ha i capelli biondi. La mamma continua a dire che è un dono del sole, ma Bellatrix pensa che siano tutte fesserie. Narcissa sembra tesa all’inizio, forse ha paura che la sorella maggiore le tiri i capelli ancora una volta, ma Bella sembra tranquilla, ora. Sorride. “Siamo sorelle e lo saremo per sempre. Niente ci potrà dividere.” 

Andromeda la guarda e aggrotta le sopracciglia. Sembra pensierosa, ma poi sorride. Annuisce. Le loro mani si intrecciano sulla schiena sottile di Narcissa, che ancora si stringe ad Andromeda. 

“Per sempre, quindi,” ripete quest’ultima. 

 

[ 420 parole ]

 

⭐︎

 

Sirius e Regulus stanno seduti in salotto, compostamente e ritti, uno di fronte all’altro al grande tavolo. L’arazzo li osserva severo dalla parete grande. Sirius pensa che non si abituerà mai a quel pezzo di stoffa ammuffita. Regulus cerca di ignorarlo, non si gira mai a guardarlo, forse ne sente già il peso addosso. Il loro precettore sembra un corvo magro che non ha beccato nulla durante tutto l’inverno, è vestito di scuro e li osserva da sotto gli occhiali affilati mentre leggono il passaggio in latino che ha assegnato loro. Sirius odia il latino, pensa che sia inutile e vecchio. Regulus lo ama, lo aiuta a concentrarsi e svuotare la mente. A volte pensa intere frasi in latino, quando vuole dimenticare cosa c’è intorno a lui. Gli è di conforto. 

Alza quindi gli occhi sul fratello quando lo vede muoversi ai margini del suo campo visivo. Non sa stare fermo per più di due secondi, Sirius. Regulus nota le stelle scarabocchiate ai margini del libro1 e pensa che Mr. Corvus (come hanno soprannominato il precettore) si arrabbierà moltissimo quando lo scoprirà. Ha sempre ammirato il coraggio di Sirius, e sa già che a suo fratello non importerà un rimbrotto, non gli importa mai, d’altronde, né quando viene da Mr. Corvus, né quando viene dalla loro madre. Sirius è tutto ciò che Regulus non è, e che non sarà mai. Gli vuole bene, però. E sapere che saranno insieme a Serpeverde lo riempie di fiducia in previsione del loro prossimo arrivo a Hogwarts. Regulus dovrà aspettare un anno, ma è un ragazzino paziente. 

Sirius intanto sta urlando internamente. Odia quelle lezioni e odia quella stanza e odia Mr. Corvus e odia il latino. E odia anche sua madre e suo padre che lo obbligano a stare lì seduto come un cretino per ore. Non vede l’ora di uscire da quel salotto puzzolente che sa di morte e fiori appassiti e correre di sopra, dove trascinerà Regulus nella sua stanza a giocare per tutto il resto del pomeriggio, fino all’ora del tè, quando saranno reclamati da Walburga di sotto. Ma hanno davanti tutto il tempo del mondo per giocare e stare insieme. Sirius non è preoccupato. Il sorriso indulgente ma complice di suo fratello lo incoraggia a resistere dall’altra parte del lungo tavolo. 

 

[ 382 parole ]

 

⭐︎

 

Walburga si è sempre sentita molto più grande dei suoi fratelli. Ha tre anni più di Alphard e cinque più di Cygnus2, è la figlia maggiore, e ha la responsabilità di badare a loro e fare in modo che non combinino guai. È sempre stata molto più legata ad Alphard rispetto a Cygnus, che ai suoi occhi rimane ancora un bambinetto con il moccio al naso e la tendenza a urlare per un nonnulla. Alphard invece è scaltro, è pieno di idee per nuovi giochi, e ha trasformato il dodici di Grimmauld Place in un intero universo fatto di scoperte e avventure, di galeoni e pirati, di esploratori nelle giungle più selvagge, di marinai intrepidi che affrontano i mostri marini, di sirene e fate e re e regine. Ha imparato a leggere da solo, Alphard, e le legge sempre una fiaba prima di andare a dormire, prima di sgattaiolare nella sua stanza con addosso le sue pantofole preferite e la vestaglia, che lo fanno sembrare un vecchietto nonostante abbia solo sei anni. E Walburga ha imparato ad andare a dormire cullata dalla voce soffusa del fratello minore. 

Alphard vive per le sere in cui sua sorella attende a letto, sotto le coperte, che lui vada da lei con uno dei suoi fidati libri sotto il braccio, si sieda sul materasso e inizi a leggere. E Alphard ama quel suo sorriso dolce e pieno di magia. Hanno un rapporto speciale, loro due, un rapporto nel quale Cygnus non è mai entrato. È il più piccolo, e richiede le attenzioni della loro madre e degli elfi, e Alphard preferisce così, preferisce saperlo nella nursery, dove non potrà disturbare lui e Walburga e i loro giochi avventurosi in giro per casa. Walburga è solo sua, è preziosa, è tutto ciò che ha. 

Cygnus è cresciuto nella loro ombra, osservandoli andare via, scivolare intorno come fantasmi, sempre pronti a lasciarlo chissà dove, abbandonato e solo, “perché sei ancora troppo piccolo, Cygnus”, è il solito ritornello che ormai sa di stonatura. Le orecchie di Cygnus sono piene di divieti e di “no”. Non ha imparato cosa voglia dire un “sì”, e allora ha cominciato a prendersi ciò che loro non vogliono dargli: un libro che ha attirato la sua attenzione di bambino, le biglie verdi con le quali hanno appena giocato sul pavimento del salotto, la girandola abbandonata in giardino, le carte sparpagliate sul tappeto. Vive di granelli e di briciole, Cygnus. Vive di avanzi.  

 

[ 410 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ Note ❩
 
1. Le stelle scarabocchiate sul bordo del foglio sono un rimando alla mia ‘you drew stars around my scars’;
2. Secondo il Lexicon, Cygnus sarebbe nato nel 1938, ma io ne ho anticipato la nascita al 1930. Walburga l’ho lasciata nel 1925, mentre di Alphard non si conosce la data precisa, per cui ho scelto per lui il 1928.

 

Oggi il prompt scelto mi ha portato ad esplorare tre diversi rapporti fraterni in un trittico: le sorelle Black (Bellatrix, Andromeda, Narcissa), che io ho sempre considerato molto legate, nonostante le differenze; Sirius e Regulus, e anche qui, la mia è una visione personale, cioè mi piace pensare i due fratelli come complici, almeno finché le loro differenze non li vedono allontanarsi l’uno dall’altro; e infine Walburga, Alphard e Cygnus, dove i primi due sono stati, ai miei occhi, legatissimi, mentre Cygnus ha sempre vissuto nella loro ombra. 

 

Volevo ringraziarvi per la calorosa accoglienza di ieri, sono contenta che la raccolta vi abbia in qualche modo incuriosito. Vi avevo promesso un giorno 2 interessante e spero vivamente che lo sia stato. A domani ♡

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Capitolo 3
*** III. ***


in the name of the Black.


Giorno 3;
cera;
❨ Druella Black ❩.

 

Le fiamme ardono cadenzate dai suoi respiri. Le candele poggiano tutt’intorno, affollano le superfici, ricoprono il legno e il tempo. Il fiato di Druella ne governa i moti. Le parole sussurrate dalle sue labbra dischiuse ne regolano la sopravvivenza. È lei che decide quando il fuoco nasce, ed è lei che decide quando il fuoco si esaurisce fino a morire. Non c’è altra luce nella stanza in fondo al corridoio, quella col bovindo che affaccia sul giardino e la porta rossa. Non c’è altra luce e fuori è notte, una notte nera e senza stelle. La luna si è nascosta dietro le nuvole. 

Druella regola il suo canto, che è quasi una litania, un richiamo per i morti e gli spiriti, per i demoni intrappolati nelle viscere e nelle anime, per i mostri nascosti nelle grotte, per i fantasmi acquattati negli angoli. E la stanza ne è piena, Druella può vederli. Le sussurrano cose e non tutte le comprende, alcune sono pronunciate in lingue a lei sconosciute, perdute per sempre, nascoste nel tempo, morte. Lei ascolta, cerca di registrare ogni cosa, ché solo così potrà Vedere — un mondo lambito dal fuoco; la terra aperta in più punti come una ferita suppurante; un uomo che affoga nel buio, ed è solo; il grido di una donna che precipita da una torre altissima. 

Apre gli occhi e boccheggia. L’odore della cera sciolta le ottenebra i sensi, le invade i polmoni. Tossisce. Sputa un grumo di capelli neri. Sono mischiati al sangue. Le sue mani sono rosse, ora. La cera cola dai mobili, ricopre il pavimento, striscia verso di lei come un serpente sinuoso pronto a divorarla, come un fiume in piena che esce dal letto e invade la terra, annegandola. La cera la ricopre, dalla testa al seno, dalla vita alle caviglie, giù per le gambe, e il naso, gli occhi, la bocca. Druella non respira. Non sente più nulla, tranne quell’odore nauseante che l’invade, tranne quel calore che diventa fuoco e la brucia piano. 

Si risveglia all’improvviso: è stesa sul pavimento della stanza in fondo al corridoio, sempre la stessa stanza, ed è nuda. La cera è scomparsa, si è ritirata come la marea. Druella è sola. 

 

[ 366 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ Note ❩

La Druella di cui vi ho parlato rientra nel mio headcanon. Direi che le vibes da lettura di mezzanotte ci sono tutte. Il rimando alla porta rossa di “The Haunting of Hill House” è fortemente voluto. Spero che anche questa storia vi sia piaciuta.  A domani! 

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Capitolo 4
*** IV. ***


in the name of the Black.
 

Giorno 4;
eccedentesiast (chi nasconde il dolore dietro un sorriso);
❨ Sirius | Regulus ❩.

 

Sorride davanti al volto torvo di sua madre, Sirius. Sorride con quella spavalderia che usa come una maschera e che lo protegge dal mondo. Sorride con quella (falsa) sicurezza che indossa come un’armatura. Sorride con quella sicurezza che sembra possedere (e che sembra possederlo) e che in realtà lo terrorizza. Lo fa perché non ha altra scelta. Ora come ora la sua vita si divide tra chi è e ciò che i suoi genitori si aspettano che sia — che la famiglia Black si aspetta che sia. Sirius sa chi è, e sa che non potrà mai essere nessun altro, eppure. Eppure sua madre insiste nella sua crociata: lo vuole per sé, vuole che lui torni da lei, vuole che Sirius scelga di essere ciò che lei vuole che sia. Un ottimo figlio, un primogenito all’altezza, un erede della casata (nobile e antichissima), l’uomo che porterà avanti il cognome Black con orgoglio e nel tempo, che avrà dei figli che avranno altri figli, che avranno altri figli, e così il loro nome vivrà, sempiterno, scolpito nel marmo o nella pietra, toujours pur. Walburga vuole che lui indossi quel sorriso e sia Sirius Black, e non più solo Sirius. E Sirius dovrebbe rinunciare a tutto per essere Sirius Black: il suo orgoglio Grifondoro, le sue amicizie, la sua identità, il suo futuro, la sua intera esistenza. La sua dignità. E Sirius non è pronto per rinunciare a se stesso. Non è pronto e non gli interessa. Così continua a sorridere, conscio che, ogni giorno, quel sorriso si incrina sempre più, passo dopo passo, ruga dopo ruga. Continua a sorridere ben sapendo di essere a un passo dal baratro — un baratro che profuma di libertà, però. Quel giorno sarà solo Sirius. Sirius e basta. Attende e sorride. 

 

[ 294 parole ]

 

⭐︎

 

Sorride davanti al volto disteso di sua madre, Regulus. Sorride perché sa che troverà sempre rifugio, in mezzo ai quei denti che di solito mordono e tagliano come coltelli, ma che a lui non hanno mai nuociuto. Sorride davanti a quelle labbra sottili che però per lui non si sono mai piegate in insoddisfazione. Sorride, e nonostante l’affetto e il calore, nonostante quel bene che sua madre non è mai riuscita a dare a Sirius e ha riversato su di lui a ondate, nonostante tutto questo, Regulus sorride per celare se stesso. Sorride e sente che quel sorriso lo proteggerà, preserverà il vero Regulus, lo terrà al sicuro da ogni pericolo. Perché ha paura, Regulus, una paura nera: ha paura di perdersi. La strada che sta imboccando è una strada tortuosa e piena di svolte, e ad ogni curva si annida un mostro pronto a divorarlo, a massacrare le sue carni e a sputarne fuori solo le ossa. Negli occhi di suo fratello legge solo delusione, tutte le volte in cui sorride a Walburga e le dice “sì, mamma”, “certo, mamma”, “volentieri, mamma”. Ad ogni “ti voglio bene, Regulus, sono molto fiera di te”, Regulus si sente morire, ma sorride, sorride e risponde “anche io ti voglio bene, mamma”. Non la ringrazia mai per ciò che gli dice. Forse non gli importa. Forse attende che arrivi il giorno in cui si abituerà, si abituerà e basta, a questa routine, a questa vita già scritta, a queste mura che lo stringono come in una prigione di aspettative e ambizioni, e allora sarà più facile — vivere, respirare, ringraziare. “Grazie, mamma,” le dirà. E lo penserà. “Grazie per essere fiera di me.” Intanto, Regulus sorride. Non può fare altro. Muore dentro sempre di più, ma intanto sorride. 

 

[ 294 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎
 

 

❨ Note ❩
 

Sirius e Regulus e due modi di definire il sorriso. Come vi avevo accennato, tornano i fratelli, due facce della stessa medaglia. Mi piace approfondire la mia visione del loro rapporto, e spero che possa piacere anche a voi leggere il mio punto di vista. 

 

Vi ringrazio ancora una volta per la calorosa accoglienza che avete riservato a questa raccolta, sono davvero felice che la troviate interessante e che valga una lettura. Avete accolto benissimo Druella, sulla quale ho rischiato moltissimo. 

 

A domani, come sempre, con un capitolo piuttosto “interessante” dove vi farò conoscere un personaggio originale 👀 ah, e il rating si alzerà 👀 passo e chiudo 🤐

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Capitolo 5
*** V. ***


Warning: ho aumentato il rating della raccolta da giallo ad arancione.



in the name of the Black.

Giorno 5;

amanti;
❨ Walburga/Damien1 ❩.


Walburga entra nella stanza ed è già nuda. Ha fatto Evanescere i vestiti senza nemmeno tirare fuori la bacchetta. Si ferma in mezzo al salotto, una mano sul fianco. Scioglie i capelli che portava raccolti e questi le cascano sulla schiena, folti e lunghi, e riflettono la luce ambrata del tramonto che entra dalle imposte socchiuse. 

Damien siede in una poltrona ed è completamente vestito. Indossa ancora l’abito della festa, quella stupida festa in campagna organizzata dai Malfoy alla quale Walburga si è annoiata a morte a girovagare in mezzo a mamme entusiaste dei loro pargoli (nati o in arrivo), uomini assetati di politica e sesso, elfi servizievoli con i loro vassoi d’argento, e bambini urlanti che caracollavano qui e là. Diana Malfoy2, la padrona di casa, veleggiava tutt’intorno come una falena, vestita di azzurro, i capelli biondi sciolti sulle spalle, a spargere sorrisi come caramelle. Mentre il marito Abraxas era il più rumoroso e il più ubriaco in mezzo alla combriccola di uomini radunata accanto al gazebo. 

Ma ora non le importa più di nessuno di loro. Ora c’è solo Damien. Lui la guarda senza parlare, gli occhi scuri, scurissimi, lampeggianti di impazienza ed eccitazione e neri di ombre a stento contenute. Con lei le lascia andare tutte, quelle ombre, e lei lascia andare le sue: corrono tutte insieme come cavalli impazziti. 

“Vieni qui,” Damien sussurra. Walburga sa che è già eccitato. Lo conosce meglio di se stessa ormai. Gli si avvicina, quindi, e si ferma proprio di fronte alle sue ginocchia scostate. Lo fissa, e sa che lo fa impazzire. Il suo petto oscilla su e giù, su e giù, al ritmo del suo respiro, e i suoi seni scoperti oscillano anch’essi. Ha la pelle d’oca, e i capezzoli scuri sono già duri. Ha desiderato Damien per tutta la festa, ne ha seguito i movimenti e si è fatta seguire da lui, fasciata in un vestito blu scuro che sapeva gli avrebbe fatto girare la testa. E ora è tutto suo. 

“Perché sei ancora vestito?” Gli chiede. Alza un piede e lo appoggia sul suo ginocchio, scoprendo interamente se stessa di fronte agli occhi del suo amante. Damien le poggia gli occhi in mezzo alle gambe, e deglutisce. Walburga sa di averlo in scacco.

“Volevo che fossi tu a spogliarmi,” risponde infine lui, la voce roca. 

Walburga gli si arrampica addosso, si siede sulla sua vita, e sente la sua erezione premerle contro attraverso la stoffa sottile dei suoi pantaloni eleganti. Si muove per stuzzicarlo, e lui le pianta le sue mani grandi e forti sulla vita. Si guardano, e Walburga ridacchia. “Ops, scusa.” 

Allora Damien l’attira a sé e la bacia, ed è un bacio vorace, come ogni bacio che si sono scambiati fino a quel momento. Non c’è dolcezza, tra loro, non c’è delicatezza, o voglia di indugiare. No, c’è solo la ruvidezza che entrambi anelano — e ci sono le dita veloci che strappano e divergono ed esplorano; ci sono le mani che scavano e toccano e sfiorano; ci sono le bocche che accolgono e le bocche che danno; ci sono le lingue, scattanti come serpenti, velenose e pungenti, apice e declino di ogni piacere. 

Sono amanti, lei e Damien, ma si appartengono, si appartengono come due bestie feroci, come due esseri forgiati uguali, come due mostri che non conoscono altro che se stessi. Non c’è amore, non ci sarà mai amore, ma c’è il riconoscimento che qualcosa li ha creati uguali, lo stesso demone che ora li divora, e che sempre ne governerà i moti. 

 

[ 590 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎



❨ Note ❩
 

1. Damien Rosier: personaggio di mia invenzione, fratello maggiore di Druella Rosier;
2. Diana Malfoy: personaggio di mia invenzione, moglie di Abraxas Malfoy.

 

La coppia Walburga/Damien è ovviamente tutto frutto del mio cervellino. Siccome immagino che la vita matrimoniale di Walburga e Orion non sia poi tutta ‘sta botta di vita, ho pensato che introdurre un amante per la nostra Wally fosse un risvolto di trama interessante. Questo fa tutto parte del mio personalissimo headcanon sulla famiglia Black e la generazione dei primi Mangiamorte. 

 

Attendo un vostro feedback a riguardo 👀 ho pensato che un rating arancione fosse sufficiente, ma nel caso ditemelo e lo alzo a rosso. 
Come sempre, potete trovarmi anche qui: instagram.

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Capitolo 6
*** VI. ***


in the name of the Black.
 

Giorno 6;
cuscino;
❨ Sirius e James ❩.


 

“Sicuro che non ti scoccia? Puoi dirmelo, eh.” 

“Sirius?”

“Sì, James?”

“Basta parlare e vieni a dormire. È tardi e sono stanco morto.”

 

Sirius sospira e si infila sotto le lenzuola. Ha trascorso a Grimmauld Place un solo giorno di quelle vacanze estive e non ha resistito abbastanza a lungo da dormire una seconda notte nel suo letto. Il mattino presto ha preso la sua roba e se n’è andato, diretto a casa Potter. Sua madre è riuscita a passare il segno un’altra volta, l’ultima, prima che Sirius decidesse che no, non sarebbe vissuto in quella casa degli incubi un solo giorno di più. Non ha salutato nessuno, ma Regulus lo ha guardato dall’alto della scala, seduto sul pianerottolo. Sirius ha agitato una mano verso di lui, gli ha fatto segno di tacere, ed è uscito. Finito. Ciao per sempre.

 

Addio a Grimmauld Place e ai suoi fantasmi; addio alle teste impagliate degli elfi appese lungo la scala; addio a Orion e ai suoi bicchieri di troppo, e alla poltrona in pelle davanti al camino, e ai suoi silenzi che puzzavano di connivenza; addio a Regulus, figlio prediletto, fratello silenzioso, vecchio compagno di giochi, lui con la sua vestaglia di velluto e i pigiami troppo corti alle caviglie, e i capelli neri scompigliati e gli occhi sempre troppo tristi; addio a Kreacher e alle sue malignità, ai suoi sussurri e alle meschinità, ai resoconti forniti alla sua “adorata padrona” dietro le sue spalle, quando entrambi pensavano di non essere né visti né uditi; e addio a Walburga, che lo ha generato e nutrito, ma che molto presto ha voluto controllarlo, e imbrigliarlo, e imprigionarlo nella sua tela fatta di menzogne e odio ed effimeri principi di purezza e onore. Addio a tutto. Addio, casata dei Black. Au revoir

 

“A cosa pensi? Sento il tuo cervello muoversi come un Purvincolo chiuso in una gabbia, sai?”

“Sicuro che non ti scoccia dividere anche il cuscino?”

James sbuffa. È sempre buffo, senza gli occhiali addosso. “Per Godric, Black. Abbiamo già dormito insieme, e ti ho visto nudo innumerevoli volte, credi che dividere un cuscino con te sia un problema? Sei proprio deficiente.” 

Sirius sorride. Si sente molto Sirius ora. Molto Sirius e poco Sirius Black. 

“Okay, okay, ho capito. Dormiamo.” 

 

“Jamie?” Chiama però dopo qualche secondo. 

“Dimmi.”

“Grazie. Sai cosa intendo… Non solo per il cuscino.”

“Smettila o mi diventi sentimentale. Buonanotte, Felpato.”

“Notte, Ramoso.” 

 

[ 402 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎
 


❨ Note ❩
 

Sirius è appena scappato di casa e trova rifugio dai Potter. Chiede a James di condividere il letto — e il cuscino. Ho pensato che fosse un modo carino per descrivere la loro amicizia, e il rapporto quasi fraterno che li legava, senza ovviamente trascurare la parte noir, cioè i sentimenti di Sirius in relazione alla sua fuga. 

 

Attendo come sempre i vostri riscontri e grazie a tutti quelli che stanno dimostrando così tanto interesse e affetto per questa piccola raccolta, siete preziosi ♥︎

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Capitolo 7
*** VII. ***


in the name of the Black.
 

Giorno 7;
merletto;
❨ Bellatrix Black ❩.

 


Bellatrix sbuffa. È in piedi davanti allo specchio che ha appeso nella sua stanza, e indossa il vestito nuovo che Druella le ha fatto preparare e che l’attendeva sul letto, al centro del materasso. È bianco, con un colletto ricamato col merletto. Druella le ha anche preparato le “scarpe giuste”: di vernice nera, con due occhielli sul davanti e un pochino di tacco. Bella le odia. Odia quelle scarpe da cretina che stanno bene a Narcissa ma che addosso a lei sono ridicole; odia quel vestito da perfetta rampolla dell’alta società Purosangue, perfetta primogenita dei Black, offerta su un vassoio d’argento al miglior offerente. Perché Bella sa a cosa serve quella stupida festa: ci saranno tutte le famiglie che contano, insieme ai loro figli tutti impomatati, e i “grandi” parleranno tutto il tempo di quali matrimoni combinare e quali unioni promuovere, come se fosse un mercato e tutti loro fossero solo bestie numerate e marchiate. 

Bella vuole solo rimettersi i suoi vestiti neri, slegarsi i capelli e correre libera in giardino, oppure sedersi in biblioteca e divorare un libro dopo l’altro, o ancora, origliare i discorsi degli uomini dietro le porte chiuse durante l’ora del brandy e dei sigari. E invece le toccherà sfilare per le sale, mettersi in mostra, sorridere falsamente, mostrarsi mansueta quando dentro scalpita come un cavallo impazzito, e ribolle di impazienza e impeto.  Non vede l’ora di strapparsi di dosso quel bianco e riabbracciare la sua vera essenza. 

“Bella,” sente Andromeda che la chiama. “La mamma ci aspetta di sotto.” 

Sua sorella spunta dalla porta: anche lei è vestita a festa, ma di rosa. Quel colore si intona al suo incarnato. È molto bella, Andromeda. Ha una bellezza composta di cui lei è priva.

“Scendo subito,” risponde Bellatrix guardando l’altra attraverso lo specchio. “Mi metto le scarpe.”

Andromeda le sorride e scompare, leggera come seta. Bella si guarda ancora una volta allo specchio, inclina gli angoli della bocca nel suo migliore sorriso affettato ed è pronta. Inforca le scarpe e scende. 

 

[ 335 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎



❨ Note ❩

Ammetto che questa giornata mi ha dato un po’ di filo da torcere perché non avevo idea di dove andare a sbattere la testa con questi prompt, poi è arrivata Bellatrix a salvare la situazione. Con qualsiasi altra, il prompt “merletto” sarebbe risultato scontato e/o lezioso, ma su di lei penso abbia assunto una diversa connotazione. Fatemi sapere cosa ne pensate di questa Bella un po’ ribelle.

 

Vi ringrazio per la calorosa accoglienza a Damien Rosier e alla Walburga/Damien, non mi aspettavo tutto questo entusiasmo ♥︎ sono davvero contenta vi siano piaciuti! A domani!

 

 

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Capitolo 8
*** VIII. ***


Warning: le flash di oggi contengono scene di violenza domestica, vi invito a non leggere in caso siate sensibili al tema trattato.
Grazie a tutti 🙏🏻

 

 
in the name of the Black.
 

Giorno 8;
acrasia (mancanza di autocontrollo);
❨ Walburga/Orion | Cygnus/Druella ❩.

 

“Mi stai facendo male…” 

Walburga aumenta la presa. Walburga stringe. Walburga pretende. 

“Walburga…”

“Quella risposta merita una punizione, Orion. Quante volte ti ho detto che non devi contraddirmi davanti agli elfi? Sono stanca di te…”

Orion si dimena sotto di lei ma lei è forte. Walburga è forte come un esercito. Gli sta seduta sopra, le cosce nude strette intorno ai fianchi, il corpo proteso. E Orion soccombe sotto di lei, sotto le sue mani d’acciaio, sotto la sua volontà che è marziale. 

Si china per parlargli nell’orecchio, e sa qual è il suo potere. Sa come annientare Orion. Sa come ridurre la sua volontà e usarla a suo vantaggio. Sa come spezzettare la sua dignità di essere umano, ridurla a brandelli e poi gettarla via. 

“Lo sai chi comanda qui… lo sai che posso gettarti fuori quando voglio, questa casa è mia… È la casa dei miei padri, Orion, tu sei solo di contorno. E sai cosa può fare la mia magia, o te ne sei dimenticato?”

Orion scuote la testa. Lo sente già arreso. 

“Allora cerca di imparare la lezione, vuoi?” Gli chiede, carezzandogli una guancia con il lungo dito indice, l’unghia a scavare nella carne. L’altra mano allenta la presa sulla gola del marito, e Orion riprende fiato. 

“Ora puoi baciarmi,” aggiunge Walburga, indugiando sulle sue labbra, respirando il suo fiato che sa di paura. Il resto della sera si esaurisce sulle loro pelli, in un contatto che è vorace, in un’unione che puzza di morte, in un matrimonio che sa di disperazione. 

 

[ 256 parole ]

 

⭐︎

 

“Mi stai facendo male…”

Druella piagnucola, e Cygnus è stanco. Tira indietro la mano e le sferra un altro schiaffo. L’impronta della sua mano è ormai visibile sulla guancia di lei, rosso contro bianco, segno più o meno indelebile del suo passaggio, chiara dimostrazione di chi tiene le briglie. 

“Cygnus…”

È rannicchiata sul pavimento della loro camera da letto, sua moglie, e trema, mentre Cygnus ha arrotolato le maniche della camicia e posato il bicchiere di whisky sulla cassettiera. Il sigaro che stava fumando attende in un posacenere, le sue volute si alzano fino al soffitto. 

In uno slancio, è per terra anche lui. L’afferra per i capelli e le tira indietro la testa, le scopre la gola. Druella grida, ma è un grido silenzioso, il suo, il grido di chi sa che è meglio tacere, è meglio non farsi sentire dalle bambine, è meglio stare buona. Quando vuole sa anche obbedirgli, sua moglie. 

“Ti ho vista sorridere come una qualunque,” le sussurra all’orecchio. Sa di averla in pugno. “Credi che io non me ne accorga? Mi credi proprio così stupido, amore?”

Druella scuote la testa. Piange anche in silenzio. La sua vista lo disgusta. 

“Allora devi imparare a comportarti, tesoro. Solo così non mi costringerai a picchiarti di nuovo… Capisci?”

La donna annuisce, ora. Lo guarda e i suoi occhi implorano una pietà che però Cygnus non sente. Non sente niente, a parte un’eccitazione che ormai sa riconoscere bene, e che gli monta dentro dal ventre, e risale su e su, fino alla gola. Si china sulla bocca di Druella e le ficca la lingua in mezzo alle labbra, che lei dischiude servizievole. 

“Visto che ti piace tanto, farò in modo di accontentarti, va bene? Ti farò ricordare cosa significa essere mia moglie…” 

La trascina fino al letto e la spinge contro il materasso. E Druella si spoglia in silenzio, sa già cosa vuole Cygnus, glielo legge negli occhi, e Cygnus ama quando sua moglie capisce senza che lui debba chiedere niente. Il resto della sera si esaurisce così, in un amplesso veloce e violento, in lividi che rimarranno nascosti ma dolgono come coltellate, in una dignità calpestata e in un silenzio che sa di condanna. 

 

[ 367 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎



❨ Note ❩

Piccola premessa: non è stato affatto facile. Non so cosa significhi muovere violenza contro un marito o una moglie, non so cosa si provi a commettere una violenza e non so cosa si provi a subirne altrettanta (fortunatamente). Ho cercato di mettermi dietro una mano sollevata per picchiare o dentro una stretta alla gola che agisce per far male. Ho cercato di mettermi nella testa di Walburga e Cygnus, e so di non aver abbracciato neanche lontanamente il tema, ma ho voluto provarci, ho voluto provare a darvi una visione diversa, la mia visione di due matrimoni molto diversi ma allo stesso tempo molto simili. Walburga e Cygnus predominano, hanno il coltello dalla parte del manico, e il fatto che siano fratelli non è casuale. Abbiamo conosciuto questi due insieme ad Alphard quando erano solo dei bambini, qui, e Cygnus faticava a integrarsi con i fratelli maggiori, e covava dentro qualcosa di oscuro che qualcuno di voi è già riuscito a cogliere. Avete espresso pietà per quel Cygnus, e quella pietà era giustificata allora, ma penso che in qualche modo abbiate decisamente cambiato idea leggendo del Cygnus di ora, di questa flash. Questo nuovo tassello su Walburga getta ancora più ombre sulla sua già complicata e oscura personalità. 

 

Se siete arrivati fin qui, grazie per aver letto queste lunghe ma doverose note. Spero di non aver offeso nessuno trattando un tema così delicato. 

 

Fatemi sapere come sempre cosa ne pensate. A domani!

 

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Capitolo 9
*** IX. ***


in the name of the Black.
 

Giorno 9;
hävitä (scomparire, svanire, perdersi);
❨ Regulus Black ❩.


 

Sente che sta scomparendo, Regulus.

Il suo corpo comincia a perdere i contorni, come una fotografia sbiadita sul fondo di un cassetto — dimenticata. È solo questo, ormai: una fotografia in bianco e nero accanto ad un vaso di vetro con un fiore finto dentro, la polvere accumulata sui petali sintetici, a ingrigirne il rosa come una nevicata ricopre la terra sopra una bara senza un corpo. Sta scomparendo. È già nel passato.

 

Sente che sta svanendo, Regulus.

La sua presa sul mondo è flebile. È ancora vivo nel corpo di sua madre, che sta attaccata alla vita con la tenacia della rabbia e dell’odio, come un’edera velenosa che infesta i muri di una casa abbandonata. Solo lei sembra piangerlo, ormai, anche se il suo pianto è quello di una sciocca, è quello di una madre che non riesce ad accettare l’inevitabile fine di un figlio. Sta svanendo. È già un ricordo.

 

Sente che sta perdendosi, Regulus.

Giorno dopo giorno, il tempo scorre diversamente, ora. Le ore si sono tramutate e hanno preso l’aspetto di secondi, e ogni secondo arriva a durare come una vita intera. C’è suo fratello, là fuori, e lo cerca, e lo trova, e cerca di assorbirne il dolore e la paura, anche se si sono persi, loro due, anche se non si sono più trovati. Si sta perdendo, però. Per quanto cerchi di aggrapparsi alla vita, si sta perdendo. È già polvere. 

 

Sente solo freddo, Regulus.  

 

[ 240 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎



❨ Note ❩

Scusate scusate scusate 🙏🏻 🙏🏻 🙏🏻 mi rivolgo a tutti voi che sicuramente ora mi starete insultando (sì, Eli, sto parlando di te) per questa piccola flash. Sappiate solo che quando ho cominciato a scrivere, mai avrei immaginato che sarei finita su questi lidi, a scrivere di un Regulus già morto che osserva il mondo dal di là. Come avrete avuto modo di capire, sto esplorando molto in questa raccolta, anche per quanto riguarda la mia scrittura, e sto cercando di abbracciare diversi ambiti e di sperimentare. Mi dispiace per tutta la sofferenza gratuita che state provando, sappiatelo ♥︎

 

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: domani sarà fuori tutto il giorno quindi la pubblicazione potrebbe arrivare nel tardo pomeriggio/serata, ma arriverà, ho in serbo un trittico piuttosto interessante per voi col prompt “Latibulum” 👀

 

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Capitolo 10
*** X. ***


in the name of the Black.
 

Giorno 10;
latibulum (un posto nascosto, un rifugio);
❨ Alphard | Sirius | Lucretia ❩.

 


La sua piccola casa di Paddington è sempre stata il suo rifugio. L’appartamento non è grande, il letto è incastrato sotto la finestra e la notte entrano gli spifferi, il bagno è talmente piccolo che quando ti siedi sul gabinetto tocchi con le ginocchia la vasca da bagno, e non c’è spazio per molti libri, che Alphard accatasta per terra, dove capita, vicino al comodino così come alla poltrona nell’angolo, o accanto alla porta d’ingresso così quando entri devi stare attento a non farli cadere. È piccola ma è sua, solo sua, e ci sta bene. Durante la notte sente le ambulanze (ha scoperto che si chiamano così) dirette al St. Mary’s Hospital, e il loro suono incalzante lo tiene sveglio per delle ore, il cuore che palpita a mille nel petto e gli occhi che fissano il soffitto. Dal tetto può vedere la stazione di Paddington, invece, e sapere che ci sono treni carichi di Babbani che viaggiano su e giù lo conforta, lo fa sentire parte di un mondo che, anche se troppo grande e ostile, è pur sempre il mondo. Sa di non poterne far parte, lo sa benissimo. Gli è precluso, anche se scende alla drogheria di sotto a comprare il latte fresco ogni mattina, insieme al The Guardian (che legge per tenersi informato su ciò che gli succede intorno); gli è precluso, anche se ogni tanto cena al ristorante cinese in fondo alla strada e la proprietaria gli regala sempre qualcosa da portare a casa; gli è precluso, anche se non può fare a meno di sorridere al ragazzo che abita di fronte a lui, appartamento 9, e che ogni sera incrocia sul pianerottolo, è biondo e ha gli occhi azzurri, e Alphard davvero non dovrebbe, non dovrebbe e basta, e infatti non lo fa, ricambia il sorriso e il saluto e via, nulla di più, entra di corsa in casa e fa finta di non esistere. Il suo appartamento non lo fa mai sentire solo, però. Diluisce la sua solitudine, la trasforma in qualcosa di vivo e pulsante che lui riversa nelle sue letture, e nelle pagine che batte a macchina furiosamente, una sigaretta tra le labbra e troppe tazze di caffè (abitudini Babbane discutibili, ma che ci può fare?). La sua famiglia disapprova, ma finché si attiene al copione che è stato scritto per lui, allora che male c’è? Allora che male c’è a vivere facendo finta di essere (a)normale, lasciando a casa la bacchetta la mattina, fermandosi a comprare dei fiori freschi da mettere sul davanzale, chiacchierando con la signora Hu prima di rincasare, con gli jiaozi1 ancora caldi in un sacchetto, chiedendo al ragazzo biondo “ti va di bere qualcosa?” Allora che male c’è a rifugiarsi nel mondo? 

 

[ 458 parole ]

 

⭐︎

 

Poco prima di Natale, Sirius ha preso un posto tutto suo, una piccola topaia ad Hammersmith con l’unica finestra incastrata tra una vecchia scala anti-incendio arrugginita e l’angolo del palazzo, una sola stanza con un letto singolo, un tavolo con tre sedie e una cucina bisunta, e un bagnetto un metro per un metro con una vasca ammaccata, e senza finestre2. Non è davvero niente di speciale, ma a Sirius piace. Lo sente suo in un modo in cui ha sentito sue solo poche altre cose — o persone — nella sua vita, è una strana sensazione che gli assale lo stomaco e si propaga come calore quando, a fine giornata, rientra a casa, stanco e ammaccato ma vivo, e fuori è notte fonda e si sentono solo alcune macchine sporadiche correre lungo la strada. I vicini sono rumorosi, ma a Sirius non ha mai dato fastidio, il rumore. C’è un signore che abita al piano di sopra che ogni domenica pomeriggio gli porta un pezzo di torta. La avvolge nella carta da forno che poi si unge di burro, e quando gli sorride sulla porta, tendendogli l’involto, gli dice sempre le solite cinque parole: “ho pensato potesse piacerti, Sirius.” Sirius. Lo dice con affetto, anche se non si conoscono affatto. Una domenica Sirius non lo vede arrivare e due giorni dopo scopre dalla figlia che è morto nel suo letto durante la notte, se n’è andato senza soffrire. Sirius non avrebbe mai pensato che quell’omino potesse lasciare un vuoto così grande, proprio in lui che non si affeziona a nessuno, a lui che rifugge ogni legame. L’appartamento viene occupato da una famiglia indiana e ora si sente odore di curry lungo le scale. Ci sono due bambini, due maschi, che giocano nel cortile spoglio del palazzo, si tirano un pallone. Urlano e ridono. È bello osservarli correre e immaginare che ci sia altro, oltre la magia, oltre la morte, oltre la mancanza. È bello osservarli e sapere che la famiglia esiste, che quel concetto tanto astratto quanto remoto e freddo, esiste, ed è là fuori, anche nei palazzi più grigi e spogli di Londra dove i fiori alle finestre appassiscono e il tetto perde quando piove e ogni tanto durante la notte si sente urlare. È bello osservarli e credere che, se solo le premesse fossero state altre, forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse lui e Regulus avrebbero potuto essere quei bambini vestiti di rosso e di verde e di blu, con le ginocchia sbucciate e le mani sporche di terra. Sirius distoglie sempre lo sguardo dalla finestra, finisce la sua sigaretta e l’accumula nel posacenere sul davanzale (abitudini Babbane discutibili, ma che ci può fare?). Si guarda intorno e si sente quasi al sicuro. Può scacciare via i pensieri bui, pensieri deleteri che non lo fanno dormire e sui quali, alla luce del giorno, non ha bisogno di indugiare oltre, quindi. Siede al tavolo e si apre una bottiglia di Whisky Incendiario. Si guarda intorno ancora una volta: l’appartamento non è granché, ma è tutto ciò che ha, è la sua unica protezione contro i ricordi, è il suo unico rifugio in mezzo alla morte.

 

[ 527 parole ]

 

⭐︎

 

Ignatius le ha promesso che si sarebbero trasferiti presto. Le ha promesso una casa bassa con un piccolo giardino, lontano dagli affanni del centro città ma abbastanza comoda per lei. Le ha promesso che avrebbe potuto far crescere gli ortaggi di stagione in un piccolo orto sul retro, e che avrebbe potuto piantare un albero di ciliegie sul davanti. Ciò che a Lucretia manca di più di casa Black, nel Surrey3, è il giardino, dove sua madre Melania le ha insegnato come curare i loro fiori preferiti e dove le piaceva rifugiarsi nei lunghi pomeriggi estivi, proprio su quella panchina lontana dove poteva leggere in santa pace, oppure poteva sdraiarsi sul bordo della piscina o mettere i piedi a mollo nell’acqua verde di cloro. Era bello quando anche Orion la seguiva. Era un bambino tranquillo, suo fratello, e silenzioso. Si facevano compagnia e amavano le stesse cose. È durato finché lui non si è fidanzato con la cugina Walburga e lei non ha conosciuto Ignatius. Allora hanno preso le distanze dolcemente, senza urla o pianti o recriminazioni, ma come qualcosa che sfiorisce a passo lento e senza affanni. Per questo Ignatius le ha promesso un giardino. La casetta di Greenwich in effetti è molto carina, con i mattoni rossi e una porta bianca un po’ scrostata che però sistemeranno. Il giardino ha bisogno di essere rimesso a nuovo ma a Lucretia il lavoro manuale non spaventa, e stare fuori all’aria aperta l’aiuta a pensare. Da casa riesce a scorgere un abbozzo del Royal Observatory sulla collina, dove ogni tanto lei e Ignatius vanno a passeggiare. Greenwich le piace, è impregnata di quella patina di sospensione nel tempo che Londra a tratti sembra aver perso, e davvero è come stare in una città dentro la città, un conglomerato di case e palazzi e giardini sulle rive del Tamigi. Il suo scorrere placido l’aiuta a dormire nelle notti di silenzio, quando non vola una mosca e la gente dorme vestita per paura dei bombardamenti, e i palloni aerostatici volteggiano in cielo e le finestre sono tutte oscurate. Dormono abbracciati temendo di sentire suonare gli allarmi, Lucretia e Ignatius. Dormono abbracciati anche perché il letto che hanno scelto non è grandissimo. Dormono abbracciati soprattutto perché si amano, e hanno bisogno l’uno dell’altra, e sono reciprocamente tutto ciò che rimane in mezzo alla devastazione e all’assenza. E la loro casa diventa un rifugio, un luogo non-luogo fuori dal tempo e dallo spazio dove coltivare fiori, bere tè e caffè,  fumare una sigaretta (abitudini Babbane discutibili, ma che ci può fare?), mangiare le fragole e stare in pigiama tutto il giorno mentre fuori nevica. Quella casa diventa tutto ciò che resta, a Lucretia, quando Ignatius si spegne, e lei rimane sola al mondo, ma non completamente sola, solo diversamente completa. C’è sempre la sua casa che la fa sentire amata e accolta, anche alla fine, quando si spegne anche lei, seduta in poltrona, davanti alla portafinestra aperta sul giardino, mentre fuori si respira la primavera. 

 

[ 501 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 


❨ Note ❩

1. Jiaozi: ravioli cinesi.

2. dalla mia you drew stars around my scars.

3. immagino che la casa d’infanzia di Lucretia e Orion si trovi nel Surrey.

 

Allora allora, oggi vi ho voluto proporre un altro trittico, tre visioni diverse ma in qualche modo parallele, del concetto di “rifugio”. Troviamo tre personaggi diversi e tre luoghi diversi (tra l’altro, i luoghi menzionati in rapporto con i vari personaggi fanno parte del mio headcanon), e tre modi diversi di considerare un rifugio. Iniziamo con Alphard che, dapprima, parte da casa sua, dal piccolo appartamento di Paddington, ma poi scopre che il mondo là fuori è il suo rifugio, e lui può davvero trovare protezione nel vasto mondo che lo circonda, se solo avesse il coraggio di fare un passo al di là della sua porta. Sirius trova rifugio all’interno, ma casa sua è un rifugio e una prigione insieme, ed è emblematico se associato a lui che trascorrerà tutti quegli anni dentro una cella (ingiustamente). Infine Lucretia, per la quale davvero casa sua è un rifugio, forse è quella che trova più protezione all’interno delle quattro mura di casa sua e di Ignatius a Greenwich che in qualsiasi altro luogo, tra l’altro in un periodo complesso come la Seconda Guerra Mondiale a Londra. 

 

Spero che queste tre flash vi siano piaciute, io ho adorato scriverle! 

 

A domani.

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Capitolo 11
*** XI. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 11;
purezza;
❨ Walburga Black ❩.

 

 

Walburga alza gli occhi dal suo libro. Sirius e Regulus sono inquadrati nel vano della porta in salotto, e attendono. Sirius fa già un passo avanti, curioso e impetuoso com’è, ma Walburga è più lesta. “Bambini,” inizia. “Venite avanti, forza.”

Entrano, e Regulus rimane un passo indietro, la mano stringe un lembo del maglione del fratello. 

“Sedete su quel divano,” continua lei, un sorriso entusiasta sulla bocca. Si sfila gli occhiali che usa per leggere e li appoggia sul tavolino lì accanto, vicino alla tazza del tè mezza piena. 

I suoi figli la fissano seduti di fronte a lei, vicini su quel divano troppo grande. I loro occhi sono spalancati e curiosi. Quelli grigi di Sirius celano una sicurezza che ha già dimostrato di possedere nonostante i suoi sei anni. Quelli verdi di Regulus custodiscono una dolcezza che ha saputo manifestare sin dalla più tenera età. Sono due bambini speciali e questo sarebbe stato il primo giorno della loro nuova formazione. Sarebbero rinati come nuovi Black, pronti a raccogliere la loro eredità e a tramandarla nei secoli a venire. 

“Vi sarete chiesti come mai vi ho distolto dai vostri giochi…” 

“Sì,” risponde Sirius. Ovviamente. Regulus scuote la testa. 

Walburga sorride ancora. “Da oggi ci vedremo tutte le settimane a venire, per approfondire la storia della nostra famiglia e farvi capire l’importanza delle nostre tradizioni, perché queste dovranno essere tramandate da voi ai vostri figli, e così ai figli dei vostri figli.”

“Avremo dei figli? Bleah,” commenta Sirius storcendo la bocca. Regulus guarda le smorfie del fratello e ridacchia. La bocca di Walburga si piega per un attimo in una piega di irritazione, ma si è ripromessa di essere paziente, e paziente sarà. 

“Non è il momento, Sirius,” replica solo. Sirius la guarda e non sembra convinto, ma lei prosegue. “Voglio che le nostre lezioni si svolgano qui perché questa è la stanza più importante della casa, qui è dove viene custodito il nostro passato.” Si gira a guardare l’arazzo appeso alla parete e sorride tra sé e sé. “Vedete? Quella prova vivrà nei secoli.”

“È solo un pezzo di stoffa, madre,” interviene Sirius. “Potrebbe… com’è che si dice?”

“Sciogliersi?” Suggerisce Regulus. 

Walburga stringe le labbra. Ridacchiano entrambi ora, i suoi figli. 

“Sfilacciarsi,” interviene, alzandosi in piedi. Li sovrasta, e i due si zittiscono, persino Sirius. Non sembra più così baldanzoso ora che lei li guarda dall’alto, severa. “La parola che stavate cercando è sfilacciarsi, non sciogliersi.”

Nessuno dei due dice nulla. Forse hanno perso le parole insieme al loro coraggio di bambini. Walburga cammina fino all’arazzo, ne osserva le volute e gli intrecci, la filigrana dorata che ne percorre la superficie e si piega in nomi e lettere. Poi si volta nuovamente verso i suoi figli.

“Prima lezione: purezza.” Intreccia le lunghe dita di fronte a sé, cammina a piccoli passi nel salotto. “La purezza è la cosa più importante, la conditio sine qua non per la nostra grandezza, e non solo, per la sopravvivenza stessa della razza magica. Immaginate cosa ne sarebbe di tutti noi se ci mischiassimo con i Sanguesporco, con tutta quella gentaglia che fa parte del nostro mondo senza esserne degna… Sapete cosa succederebbe?”

Regulus scuote la testa, mentre Sirius la guarda e basta. 

“Ci estingueremmo,” conclude lei con voce grave. “Il nostro sangue si contaminerebbe, e la nostra razza pura svanirebbe. E secoli e secoli di storia finirebbero come polvere.”

“Quindi,” inizia Regulus, le sopracciglia aggrottate. Arriccia le labbra per la concentrazione. “Com’è che hai detto prima, madre…?” 

“Ci sfilacceremmo,” gli viene in aiuto. Lo guarda speranzosa. Regulus sembra aver capito. “Ci sfilacceremmo, Regulus. Possiamo dire così, sì.” 

Incontra lo sguardo di Sirius. È tagliente. Non dice nulla e lei attende che almeno annuisca. 

“Sirius?” Gli chiede.

Lui si riscuote. “Sì?” 

“Hai capito, vero? Quello che ho detto…” 

“Certo.” 

“Quindi la purezza è una cosa buona…” tenta di nuovo lui. 

Walburga gli sorride. Le darà tante soddisfazioni, Regulus. Lo sa. Se lo sente. Lo ha sempre saputo da quando lo portava in grembo. Per Sirius è sempre stato diverso, lo ha sempre sentito staccato da lei, come un’appendice che però qualcuno le ha asportato troppo presto, separandoli per sempre. 

“Certo, tesoro mio,” gli risponde carezzandogli una guancia. “La purezza ci salverà. Toujours pur è il nostro motto. Ricordatelo sempre.”

 

[ 714 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

 

Non ho particolari note sulla storia di oggi, penso sia risultato tutto chiarissimo leggendo. Il prompt mi ha subito fatto pensare a Walburga e l’ho immaginata intenta a “insegnare ciò che conta” ai suoi figli. 

 

A domani, come sempre, con un capitoletto piuttosto interessante 👀 Colgo l'occasione per ringraziarvi ancora una volta per l'affetto che state dimostrando per questa raccolta e i miei Black ♥︎ 

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Capitolo 12
*** XII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 12;
memoria;
❨ Alphard Black ❩.

 

 

“Devi sapere che la memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé1, Sirius.”

“Chi l’ha scritta questa, zio Alphard?”

“Io, ovvio.”

Sirius lo guarda e arriccia il naso. Non sembra convinto. Alphard sorride. Sa di non poter gabbare suo nipote, anche se è steso in un letto e si sente sempre più piccolo e debole man mano che il male sconosciuto che ha dentro lo divora giorno dopo giorno. Non può nulla contro di esso, lo sa, lo sente. Può solo fare in modo che qualcosa della sua memoria non vada sprecato per sempre. 

“Versami il tè, Sirius, per favore.”

Sirius si alza dalla sedia e si sporge sul comodino. Armeggia per un momento con la teiera, ma è perfetto, un perfetto prodotto di Walburga, in fin dei conti. Sua sorella ha insegnato a suo figlio ogni cosa, anche versare il tè come è giusto, oltre che il concetto di purezza di sangue che per fortuna suo nipote sembra aver ignorato. 

Gli passa la tazzina in bilico su un piattino e Alphard l’accetta con un sorriso. “Grazie, figliolo.” 

Sirius gli sorride. “Allora? Chi l’ha scritta quella roba?”

“Quella roba?” Esclama lui. “Stai parlando di Oscar Wilde, caro nipote. Porta rispetto.”

“Ne so più di prima, zio.” Fa spallucce, Sirius. Quel giorno è arrivato con addosso un vecchio giubbotto di pelle e i capelli tutti spettinati davanti agli occhi grigi. Gli ha ricordato se stesso da giovane, ma senza pelle. 

“Ricorderai ciò che ti ho detto, vero? Riguardo la memoria?”

“Perché?”

“Perché voglio andarmene sapendo che qualcuno ricorderà. E tu mi sembri la persona adatta, Sirius, più che altro considerando il tipo di memoria che ti affiderò…” 

Annuisce. “Va bene.” Sembra disinteressato, Sirius, come in tutto ciò che fa e dice, ma Alphard lo conosce, Alphard sa cosa c’è sotto la maschera, sa cosa si cela dietro l’indifferenza e il sarcasmo. 

Alphard sospira. Sorseggia piano il suo tè preferito — al bergamotto — e cerca di far spazio nei ricordi. “Devi sapere che ciò che abbiamo vissuto ha segnato le nostre vite,” inizia. “Ti sembrerà strano, ora, pensare a noi come a dei ragazzi, ma lo siamo stati, eccome se lo stiamo stati… E siamo stati dei ragazzi incoscienti, turbolenti, a volte, cocciuti come pochi. Eravamo convinti di ciò in cui credevamo, e lo abbiamo portato avanti strenuamente, anche a costo di perdere tutto, anche a costo di perderci.”

Fa una pausa, abbassa lo sguardo sulla tazza che ora tiene in grembo. Sirius non replica, Sirius tace e attende che il suo silenzio si diluisca e svanisca. Gli lascia spazio. 

“Non sono mai diventato un Mangiamorte,” continua alla fine. “Non avevo la stoffa, e la mia salute traballante non mi permetteva di essere fisicamente adatto. E inoltre, cosa più importante di tutte, non volevo esserlo.”

Gira lo sguardo sul nipote, il suo sguardo ora lampeggia. Sa di aver risvegliato qualcosa dentro di lui. Un cane sopito pronto a balzare.

“La nostra famiglia custodisce segreti oscuri, Sirius, ma questo già lo sai, lo hai sperimentato sulla tua pelle fin da bambino. Mia sorella non è sempre stata così, però, c’è stato un tempo in cui sapeva giocare con me, e scorrazzavamo su e giù per Grimmauld Place come pazzi…” si lascia sfuggire una risata, ma suona amara. “Ma questa è un’altra storia, una lunga storia che ti racconterò con calma. Questo per dirti che l’oscurità è lì, Sirius, cova dentro di noi come un germe. Forse siamo maledetti, forse è qui che risiede l’essenza stessa della nostra famiglia. Siamo maledetti e ci porteremo dentro questa oscurità per sempre, non importa cosa facciamo e come agiamo. Certo,” aggiunge scrollando le spalle, “agire nel bene e per il bene è sempre la giusta via, nipote. Seguila, non importa a cosa dovrai rinunciare lungo il cammino, ma seguila sempre.”

Sirius annuisce, ma comunque non parla. Lo invita silenzioso a continuare. Alphard gira lo sguardo fuori dalla finestra: c’è il sole. 

“L’amore aiuta a contrastare l’oscurità. Se c’è una cosa che ho imparato, è stata questa.”

“L’amore?” Sirius spezza il silenzio. Sembra incuriosito ma dubbioso. 

Alphard annuisce. Beve un altro po’ di tè. Gli riscalda lo stomaco, ma si sente comunque tanto stanco. “Amare ci può davvero salvare, Sirius. Amare qualcuno che porti luce nel nostro cuore.”

“Tu hai mai amato qualcuno così, zio? Qualcuno ha mai portato luce nel tuo cuore? E amare noi non conta.” È furbo, Sirius. Ovviamente. 

Lui sorride, ma sa già che è un sorriso amaro, lo sente dal modo in cui gli inclina gli angoli della bocca. “Ho amato qualcuno, tanto tempo fa, sì. Pensavo che fosse l’amore giusto, l’amore che ti fa sorridere e sperare di alzarti il giorno dopo e trovare il mondo esattamente nello stesso posto, e trovare il tuo mondo accanto a te, a respirare la tua stessa aria…”

“Ma…?” 

“Ma non è stato così. Quello che Frederick e io avevamo… be’, era tutto tranne che luce.”

Sirius spalanca gli occhi. “Frederick come…?”

“Nott. Frederick Nott2,” Alphard annuisce. 

“Woah,” Sirius commenta. “Non ci credo…”

“Nessuno sapeva, bada bene. Non era opportuno, e non era saggio. Ci siamo amati per un periodo delle nostre vite, o almeno, lo considero amore anche se era tutto tranne che quello.”

“Sembri triste, zio…”

“Lo sono. Certo che lo sono. Ricordare fa sempre male, soprattutto ricordare qualcosa che è finito tanto tempo fa.”

“Perché è finita?” Sirius poggia il mento sulla mano, il gomito premuto contro il ginocchio. 

“Frederick si è sposato. Con Morgana Greengrass3, la sorella del mio migliore amico.”

I lineamenti di Sirius si induriscono. Le sue labbra si piegano in una linea severa. Alphard lo osserva, ma non domanda. 

“Marcus4 e io eravamo grandi amici. Viene ancora a trovarmi, ogni tanto… Ci siamo persi, ad un certo punto: le nostre vedute hanno cominciato a divergere, puoi immaginare su quali punti.” 

“Quando sua sorella ha sposato Frederick, mi ha chiesto di lasciarlo. Mi ha implorato, di lasciarlo. Ha detto che voleva solo che sua sorella fosse felice e io ho pensato che se avesse voluto vederla davvero felice, avrebbe dovuto impedirle di sposare Frederick, ma questa è un’altra storia… Morgana non stava bene, ma si sa, i Greengrass sono maledetti, un po’ come noi…” 

Sirius sbatte gli occhi, e Alphard lo vede deglutire. Di nuovo si chiede cosa gli prenda, ma non vuole curiosare. 

“Tu l’hai lasciato, quindi? Hai lasciato Frederick?”

Alphard annuisce. “Sì. Lui non voleva saperne, però, e per i primi tempi ci siamo visti lo stesso, ancora più in segreto di prima. Ma quello che facevamo dietro una porta chiusa, con Morgana al piano di sotto a leggere nel salottino, consumava più me che lui. Io non ero così, Sirius… Non sono più riuscito a reggere il sorriso di Morgana tutte le volte in cui tornavamo di sotto e io salutavo, facendo finta di ringraziare il mio amante per i sigari che mi aveva gentilmente offerto dopo aver discusso di affari per ore.” 

“Capisco… Non dev’essere stato facile, per te.”

“Affatto. Fare la cosa giusta non è sempre facile, Sirius. A volte comporta il dover affrontare la strada più impervia, ma si deve fare. Si devono compiere scelte difficili, anche a costo di pagarne prezzi altissimi.”

“Non tutti sono disposti a pagare certi prezzi, zio Alphard.”

“Lo so. Lo so bene. E non per questo quelle persone sono meno buone e meno meritevoli. Forse sono solo meno coraggiose.”

Sirius annuisce. “Forse hai ragione. A volte il coraggio si annulla davanti alla paura. Paura di perdere qualcuno, di vederlo scivolare via per sempre…” 

“La paura deve accenderti, Sirius. La paura deve fare da propulsore al tuo coraggio, solo così ce la farai. Abbiamo tutti paura. Tutti quanti, e chi ti dice il contrario mente sapendo di mentire. Abbiamo paura di cose diverse, certo, ma la paura è paura, qualsiasi forma acquisisca. Non sottovalutarla, ma non vivere in essa, Sirius. Non fare come me. Non permettere che lei si cibi del tuo cuore.” Si sporge e poggia la mano sinistra sul petto del nipote, proprio all’altezza del cuore. Lo sente battere selvaggiamente. 

“Sei ancora giovane, Sirius. Hai tempo. Ma è in questi anni della tua vita che le tue scelte faranno la differenza tra il bene e il male, tra ciò che sei e ciò che diventerai. Hai fatto una scelta coraggiosissima andandotene di casa. Vedrai che tua madre tornerà sui suoi passi. Ti vuole bene, anche se a modo suo…”

Sirius ridacchia, ma suona spento. “Non ci scommetterei, zio. Non mi vuole bene, mi odia. Sono tutto ciò che disprezza di più al mondo. Ha detto che sono una disgrazia.”

Alphard chiude gli occhi e sospira. “Tua madre sa come usare le parole. Ne è sempre stata capace. Sa esattamente cosa dire per ferirti. Ma non si rende conto che ferisce anche se stessa nel processo.”

“Forse è così, ma era brutalmente arrabbiata, l’ultima volta che l’ho vista. E non me ne importa niente di lei, a questo punto.”

“Sei così impetuoso, nipote… Mi ricordi davvero me alla tua età.”

“Con il giubbotto di pelle, zio?” Ora Sirius sembra divertito. Alphard gli passa la tazza e si sistema meglio sul cuscino. 

“Portavo solo velluto, in quegli anni,” ridacchia. 

“Certo, nel 1800. Comprensibile.”

“Impertinente che non sei altro!” Esclama. Sorridono entrambi. “Mi è venuto sonno, ora. Ti dispiace se dormo un pochino?”

Il nipote scuote la testa. “Affatto. James ha promesso che sarebbe passato più tardi. Vuole salutarti.”

“Ci vediamo dopo, allora.”

“A dopo, zio.”

 

[ 1579 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

1. Citazione di Oscar Wilde.
2. Frederick Nott non è esattamente un personaggio di mia invenzione, io ho solo dato un nome al padre di Theodore Nott.
3. Morgana Greengrass è un personaggio di mia invenzione; pro-zia di Astoria e Daphne.
4. Marcus Greengrass è un personaggio di mia invenzione; nonno di Astoria e Daphne.

 

Qui devo ringraziare Alice, che mi ha suggerito un Alphard intento a sviscerare la sua memoria, e a chi, se non al nipote prediletto? Ho voluto introdurre un altro headcanon, cioè la relazione intercorsa tra Alphard e Frederick Nott, che io immagino biondo, e chissà chi gli ricordava, ad Alphard, quel ragazzo biondo che abitava accanto a lui a Paddington, qui? Ogni riferimento non è mai puramente casuale, ricordatevelo 👀 Quindi, vi invito a riflettere su una delle reazioni di Sirius perché anticipa qualcosa che vi svelerò domani 👀

 

Fatemi sapere cosa ne pensate, ovviamente ♥︎

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Capitolo 13
*** XIII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 13;
hurt&comfort;
❨ Sirius / Josephine1 ❩.

 

“Cosa fai?”

“Secondo te?”

“Te ne vai?”

“Me ne vado.”

Afferra la bacchetta e fa levitare il borsone sul letto. I vestiti cominciano ad entrarci dentro a casaccio, non c’è un ordine preciso. Josephine è sempre confusionaria quando è arrabbiata o prova un sentimento forte. Sirius la conosce, ormai. 

“E dove te ne vai?”

“A casa, no?” Si volta verso di lui mordendosi un labbro. Sembra che stia per piangere, ma Sirius sa che non piangerà. Non piange mai se può evitarlo. I capelli neri sono spettinati e lei continua a passarci una mano attraverso e sono ancora più incasinati. Sirius vorrebbe accarezzarli ma non può. Hanno appena litigato per una cazzata, ma non può fare un passo avanti e cancellare tutto. Succede sempre così tra loro. Parlano e parlano e parlano, e non sempre le parole sanno quando fermarsi, non sempre le parole sanno quando è meglio fare un passo indietro e rimanere inespresse. 

“A casa? Pensavo che non ce l’avessi più, una casa. Pensavo che fosse questa, la tua casa.”

Sirius la guarda, è in piedi in mezzo al suo appartamento e fuori piove, piove dannatamente forte. Piove ormai da giorni. 

Josephine si volta e Sirius riesce a scorgerla: una sola, singola lacrima, sospesa all’angolo dell’occhio destro, ad offuscarne i contorni. Gli occhi di Josephine sono azzurri come piccoli laghi del nord, e altrettanto freddi. Sanno scaldarsi solo quand’è con lui, e se ne stanno stretti in un intrico di gambe e braccia e membra mentre fuori piove, e sotto il piumone si sta caldi, e incastrati. 

“Davvero? Perché da quando sono arrivata non abbiamo fatto altro che discutere, Sirius. Su qualsiasi cosa… Sembra che sia persino colpa mia se Remus non sta bene, in questi giorni. Te ne rendi conto? Ti rendi conto di cosa e quanto sto rischiando, a stare qui?”

“A stare con me?” 

Si guardano in silenzio. La roba di Josephine ha finito di riempire il borsone e la sua bacchetta è arresa lungo il suo fianco, a sfiorare i pantaloni scuri che indossa. Chiude gli occhi per un momento, e poi li riapre e li sposta in giro per la stanza, quell’unica stanza in mezzo al grigio, quel rifugio che è sempre stato solo suo, di Sirius, e che ora è anche suo, di Josephine, e che può essere loro, di Sirius e Jo (come si fa chiamare solo da lui, sempre e solo da lui). Se solo. Già. Se solo lo volessero veramente. Se solo non fossero così simili. E accesi. E vibranti di paure ma pregni di coraggio. 

“Non ho mai esitato, Sirius. Mai. Neanche una volta. Da quella prima sera a Grimmauld Place. Per Salazar, c’era tuo fratello al piano di sotto! Tuo fratello che tecnicamente dovrei sposare, come fai a pensare che io possa aver esitato con te, deficiente? Non ho mai rischiato tanto, ma rischierei tutto quanto, da capo, ancora e ancora… Sono solo stanca. Tutto qui. Sono stanca di essere il cuscino che mordi quando sei teso e nervoso e tutto va di merda, sono stanca di essere la causa di ogni problema che ti affligge, Sirius. Ti amo, ma sono stanca…” Si gira per chiudere il borsone ma Sirius non può. Non può lasciarla andare, non ora. 

La raggiunge in pochi passi (in fondo, il suo appartamento è un buco) e l’afferra per un fianco, la fa girare, lei è come una foglia nelle sue mani, un fiore delicato che rischia di svanire nel vento se solo lo si stropiccia troppo. La bacchetta le cade di mano, rimane da qualche parte sul pavimento. Le mette le mani sulle guance, ne vuole sentire il calore, e allora sono lì, eccole, le lacrime. Scendono lente ma spesse, e si trascinano dietro tutti i fantasmi. 

“Cos’hai detto?” Le chiede. Sono fronte contro fronte ora, può sentire il suo fiato di Whisky Incendiario, ne hanno bevuto un bicchierino dopo cena. 

“Ho detto tante cose,” risponde lei. Poggia le mani su quelle di Sirius, le loro dita scivolano e si incastrano insieme, come ogni singola parte dei loro corpi. “Mi fai diventare pazza, Black…”

“Hai detto una cosa, alla fine, una cosa che non mi avevi mai detto, una cosa che avevi promesso di non dire. Perché l’hai detta, Jo? Perché? Lo sai quanto mi costerà ora lasciarti qui e uscire con l’Ordine? Lo sai quanto mi costerà ogni respiro, ora, sapendo che potrei—”

Gli chiude la bocca con un bacio, Josephine. È vorace, come in ogni cosa che fa, non attende e non aspetta, lei pretende, e prende, e ottiene. Sirius non le ha mai negato niente di sé, del suo corpo e, in parte, anche del suo spirito. Non sa dirle di no, non sa privarsi di lei, non sa come proteggersi da quegli occhi, e quelle mani, e quelle labbra. 

“Sta’ zitto,” sussurra mordendogli il labbro inferiore. “Per favore…”

Sirius la prende in braccio e la fa stendere sul letto, spostando il borsone con una manata. Le si sdraia sopra mentre lei lo tira a sé per il colletto della t-shirt, la gambe già strette intorno ai suoi fianchi. Vuole e vuole e vuole, Josephine. E non le importa di cosa perderà lungo il percorso. 

“Spogliami, dai,” gli sussurra nell’orecchio, scendendo a leccargli la mascella. 

“Non te ne vai, allora?” La guarda dall’alto, e ferma le sue mani che vagano sul suo corpo, sotto la t-shirt troppo grande e scolorita, a calcarne le costole con la punta delle sue dita sottili. 

“Vuoi che me ne vada?” chiede. Risponde sempre alle sue domande con un’altra domanda. Lo guarda da sotto le lunghe ciglia scure, batte gli occhi per un momento. Le lacrime le si sono indurite sulle guance in una scia di sale. Sirius si china e gliele lecca via, quelle tracce, poi la bacia sulla bocca e cerca la sua lingua, e la trova ad attenderlo, e per un attimo non parlano. 

“Non voglio mai che tu te ne vada. Non voglio che torni in quella casa, Jo.” Le accarezza i capelli, infilandogliene uno dietro l’orecchio. Lei gli sfiora il naso col suo. 

“Non posso scappare dai miei genitori per sempre, e lo sai. E non posso scappare dai miei doveri…”

“Non permetterò che sposi mio fratello. Ci dev’essere un modo…”

Josephine scuote la testa. “Non c’è. Lo sai anche tu.”

“Lo ami?” Le chiede, così di colpo, mentre i loro corpi sono così vicini, mentre i loro respiri si mischiano, mentre la sua erezione le preme contro il basso ventre e Sirius sente caldo ovunque. 

Gli occhi di Jo sfarfallano, tremolano. Si acciglia. Si morde il labbro — di nuovo. “Perché devi fare così?”

“Perché non mi rispondi?”

“Perché non voglio giocare a questo gioco malato, Black.” 

“Vorrei solo che me lo dicessi, tutto qui. Vorrei solo che mi dicessi se ami Regulus. Lo capirei… Tutti lo amano.”

“Non lo amo,” risponde lei in un soffio. Lo guarda ancora accigliata, però. “Contento? È un amico, gli voglio bene, ma non lo amo. Come potrei? Vedi perché la tua è una domanda da stronzo? Sono qui stesa sotto di te, ti ho chiesto di spogliarmi, ti ho detto ti amo cinque minuti fa, e tu mi chiedi se amo tuo fratello? Sai che c’è? Ti odio, ecco la verità.”

Si divincola per uscire da sotto il corpo di Sirius e lui la lascia andare. Sono al punto di prima. Perché deve sempre fare il cazzone? Perché non può tenere mai a freno la lingua?

“Torna qui, dai,” le chiede, passandosi una mano sulla faccia. “Per favore, Jo… Scusa…” Gli costa, chiedere scusa. Gli costa come poche cose al mondo. Ma per Josephine ha messo da parte tanto, compreso il suo orgoglio, talvolta. 

Lei lo guarda di sottecchi. Ha afferrato il borsone che intanto era caduto dal letto ed è di nuovo pronta ad andarsene. Non può lasciare che esca da quella dannata porta e si Smaterializzi. Non può, o la perderà per sempre. Lo sa.

“Ti amo,” dice allora. Abbassa gli occhi, sospira. “Ti amo.” La guarda di nuovo e lei lascia cadere il borsone per terra con un tonfo, sale sul letto e gli è addosso, seduta sulla sua vita, le gambe strette intorno a lui, le sue mani sul suo petto. Lo tempestano di pugni, ma non gli fa male. Non potrebbe mai fargli male. 

“Mi odi ancora?” La provoca.

Lei si china a baciarlo e gli morde il labbro talmente forte che Sirius sente il sapore del sangue sulla lingua. È un continuo farsi male, tra loro, per poi leccarsi le ferite a vicenda in qualche modo. Forse non è sano, forse non è un bene, ma è ciò che hanno. Il loro amore ha quella forma, e ogni trasfigurazione risulterebbe inutile. Può solo aumentare, ancora e ancora, in modo esponenziale, senza possibilità di placarsi. Non sono fatti per la pace e i piaceri tranquilli, per le giornate di sole in riva al lago e il pasticcio di carne fatto in casa, per l’amore fatto lentamente in mezzo a lenzuola di seta, per le promesse ridondanti di infelicità e compromessi e incomprensioni. Sirius ha amato solo due persone nella sua vita: una l’ha persa, forse per sempre, l’altra è lì con lui. 

“Ti odierò sempre, capito? Ti odio perché tiri fuori il peggio di me e non va bene, è pericoloso…” gli dice togliendogli la maglia. Gliela sfila dalla testa e la getta a terra.

“Tiriamo fuori il peggio l’uno dall’altra, pensi che sia un male?” Le chiede in un soffio mentre Josephine passa le dita sulla sua pelle, la graffia anche, com’è solita fare, ma a Sirius non importa: quei graffi gli ricordano che è vivo, e che conta per qualcuno. 

La ragazza soppesa le sue parole. “Forse è un male. Forse è questo che ci facciamo a vicenda. Ma credo che sia ciò che ci rende vivi, no? Forse sappiamo dimostrare affetto solo così, ma ad entrambi sta bene, e quindi andiamo avanti finché ce n’è.” 

Finché ce n’è. Sì, Josephine ha detto bene. Finché ce n’è sarebbero andati avanti, sempre avanti. Anche a costo di trascinarsi nel fango, anche a costo di aumentare i fardelli, anche a costo di portarsi dietro tutti i loro fantasmi. 

“Per ora mi basta sapere che rimarrai questa notte,” prosegue Sirius passandole una mano sul davanti della camicia,  accogliendo un seno nel suo palmo. Scioglie il fiocco e comincia a sbottonargliela. Mentre apre i piccoli bottoni di madreperla, le sue dita tremano. “Non provare mai più ad andartene così…” bofonchia alla fine.

Josephine ridacchia. “Sai cosa si dice della mia famiglia, no? Siamo maledetti… E le mie zie2 sono pazze…” 

“Sai cosa si dice della mia famiglia, Jo?”

Lei annuisce. “Lo so. Non mi importa.”

Sirius fa spallucce. “Non importa anche a me, allora. Il cognome Greengrass non ti definisce. Per me sei solo Jo. Josephine. Jo.” Accarezza quelle parole con i denti, ma è come se fossero fatte di cristallo. 

“Finisci di spogliarmi, ora, sono stanca di parlare,” sussurra chinandosi su di lui e baciandolo ancora. E ancora. E ancora. 

 

[ 1845 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

1. Josephine Greengrass è un personaggio di mia invenzione; zia di Astoria e Daphne.
2. le zie paterne di Josephine sono Medea e Morgana Greengrass, e sono personaggi di mia invenzione. Morgana l’ho citata qui

 

Allora allora, sono parecchio agitata nel presentarvi questa storia, oggi. Intanto perché ho introdotto un OC, e introdurre gli OC è sempre rischioso, e poi perché questo OC interagisce sentimentalmente con Sirius, e non è mai facile far accettare OC che hanno questo tipo di relazione con Sirius Black (va’ a capire perché, poi). Detto ciò, sfogo la mia ansia pubblicando, e sperando che questo capitolo vi sia piaciuto e abbia in qualche modo solletico la vostra curiosità. Josephine se ne stava acquattata da tanto, smaniava per venire alla luce, quindi perdonate la sua irruenza; in realtà è una ragazza dalle buone maniere, giuro. Nelle note allo scorso capitolo vi dicevo di fare attenzione alle reazioni di Sirius, infatti se tornate indietro e rileggete il giorno XII, noterete come si adombra quando lo zio Alphard cita i Greengrass. Eh eh, nulla viene lasciato al caso, qui 👁 I Greengrass sono una famiglia che mi affascina da morire, ma si sa poco e niente di loro, per cui (come mio solito) mi sono messa a creare un headcanon anche per loro (chi mi conosce sa quanto tutto ciò sia pane per i miei denti). Tutti i miei HC sono stati creati con la collaborazione preziosa di Alice, la cito se no si arrabbia 😌 grazie, Ali ♥︎

 

Lascio la parola a voi, come sempre. Grazie mille per tutte le vostre recensioni, sono tantissime e non riesco a rispondere a tutte perché in questi giorni sto facendo mille cose insieme e sono di corsa, ma vi giuro che vi leggo e vi adoro, mi state incoraggiando un sacco nel proseguire quest’avventura ♥︎ a domani! Ah, se volete mi trovate qui.

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Capitolo 14
*** XIV. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 14;
discussione;
❨ Sirius e Regulus❩.

 

Sirius sente bussare alla porta. Alza lo sguardo dal borsone che sta riempiendo e si volta, chiedendosi chi per Merlino possa essere. Gli tocca anche raccogliere le sue cose senza magia: stupide restrizioni scolastiche. Tanto varrebbe usarla, farsi espellere, e vivere per sempre alla macchia. Tanto. Nessuno nella sua famiglia lo fermerebbe: con sua madre ha litigato, e hanno discusso in modo così tanto acceso, questa volta, da non esserci più possibilità di tornare indietro; con suo padre non ha praticamente nessun rapporto, ormai Orion Black è lo spettro di se stesso, o di chi mai può essere stato da giovane, e Sirius rammenta di averci parlato, ma parlato per davvero, solo poche volte in tutti i suoi anni di vita; con suo fratello, be’… è complicato, lui e Regulus si sono allontanati e tra loro si è creata una frattura che sembra ormai impossibile da sanare. Sente di nuovo bussare, e una voce, l’ultima voce che pensava di udire, lo chiama da fuori. “Sirius? Posso entrare un momento?”

Regulus. Cosa ci fa lì? Cosa vuole? 

Sirius raggiunge la porta, la socchiude e ficca la testa fuori. Eccolo lì, suo fratello, in piedi sul pianerottolo, ha già il pigiama addosso e una vestaglia di velluto che si tiene stretta al petto come se avesse freddo, anche se sono in giugno. 

“Cosa vuoi?”

“Parlare con te.”

“Vuoi parlare, ora?”

Regulus scrolla le spalle. “Per favore. Fammi entrare, o la mamma o Kreacher ci sentiranno…”

Sirius si chiede cosa gli importi di farsi sentire dalla mamma o da Kreacher quando tutto ciò che ha da dire (e che regolarmente dice) è esattamente tutto ciò che la loro cara madre vuole udire da lui. Lo trova patetico, ma scosta la porta e si fa indietro per farlo entrare. 

“Cosa stai facendo?” Chiede subito Regulus, fermandosi di fronte al letto sfatto di Sirius, le braccia lungo i fianchi. 

“Che dici? Vado in villeggiatura.” Si sta comportando da stronzo e lo sa. Lo sa benissimo. Il fatto è che non gli importa. Non gli importa di nessuno, ormai. Ha solo se stesso. Non tecnicamente, una voce gli sussurra nell’orecchio, ma la scaccia via. Non può pensare ai suoi amici ora, perché gli fa pensare a Remus, e Remus forse lo rimprovererebbe per la scelta di pancia che sta facendo, forse gli direbbe di mediare, ma lui non è Remus e, per quanto lo ami (crede di amarlo, ora), non sempre le loro vedute combaciano. 

“Sirius,” inizia Regulus. Gli trema la voce. “Cosa fai?”

“Secondo te?”

“Te ne vai?”

“Me ne vado1.”

Regulus scuote la testa. “No.”

“No? Hai qualcosa da obiettare, ora, Reg? È troppo tardi. Avresti dovuto parlare prima quando la tua cara mamma mi ha dato del deviato.”

“Mi dispiace, Sirius, lo sai che non lo penso, io non lo penso…”

“Vorrei ben vedere.” Sirius lo aggira per raggiungere il letto e continuare a preparare la sua roba. Ha una mezza idea di dove andrà. È l’unico posto al quale è riuscito a pensare, escluso casa di zio Alphard, ché non può metterlo in questa situazione, non in un momento così delicato in cui la sua salute sta cominciando a traballare e nessun Medimago sa dirgli cos’abbia. “Mi parrebbe strano che proprio tu mi dessi del… com’è che mi ha chiamato nostra madre…?” Fa finta di rifletterci un attimo sopra, ma se lo ricorda perfettamente. “Menomato e deviato. Depravato. E infine disgrazia. Solo perché mi piacciono le donne e gli uomini. Quando nella sua perfetta società Purosangue è circondata da altre persone come me, come noi… Ironico e buffo, eh? Forse non se n’è mai accorta perché era troppo impegnata a riempirsi la bocca di cazzate.”

Vede Regulus chiudere gli occhi. Forse sta male nell’udire certe parole collegate a Walburga Black, ma Sirius se ne frega. Ha smesso di curarsi di chi potrebbe ferire con le sue parole. Non gliene importava nulla prima, gliene importa ancora meno adesso. Non ha più nulla da perdere, in fondo. Solo la sua dignità di essere umano, e quella ha intenzione di conservarla finché campa. 

“Andarsene non è la soluzione…”

“Ah, no?” Sirius si volta a guardare suo fratello, le braccia appuntate sui fianchi. È stanco, Sirius. Non è a casa neanche da due notti e già sta andando via di nuovo. Casa. Che assurda parola, e che assurdo modo di associarla a Grimmauld Place, di tutti i luoghi nel mondo. Non è più casa sua, e forse non lo è stata mai. “Allora dimmi tu qual è la soluzione, fratellino. Piegarmi a nostra madre come hai fatto tu? Accontentarla e andare in giro con un Marchio sul braccio a lanciare incantesimi contro i Babbani e a fare i bulli insieme con i grandi? O forse sposare una brava ragazza di buona famiglia, mettere su casa e trovarsi un bel lavoretto al Ministero a compilare scartoffie? E poi sfornare bambini puri e portare avanti il nome puro della nostra famiglia? Non ti rendi conto di quanto siamo marci? Non ti rendi conto che stiamo andando a fondo con questa casa, con quella donna?” E indica il piano di sotto, dove sicuramente Walburga sarà seduta in poltrona, in compagnia del suo amato arazzo. Pazza. “Nostro padre ha perso la testa, qui dentro, con lei, tutti questi anni… Vuoi ridurti così anche tu? A un cumulo di ossa e alcol?” 

“E tu?” Grida, adesso, Regulus. I suoi occhi sono lucidi di lacrime trattenute che però non riesce a non scaricare fuori. Non questa volta. “Tu ti credi migliore di noi? Di me? Solo perché adesso prendi le tue cose e te ne vai? Stai solo scappando, Sirius. Stai scappando dalle tue paure e i tuoi fantasmi, mentre io me ne starò qui ad affrontarli tutti, uno per uno, ogni giorno, come ho sempre fatto. Chi è il codardo, ora?”

“Ti credi tanto migliore solo perché hai trovato quegli amici tuoi, e te ne vai in giro per Hogwarts come se fosse roba tua, e ti diverti a prendere in giro gli altri, e poi osi anche parlare di bulli? Fai il bullo da tutta la vita, fratello, e manco te ne accorgi. Parli tanto di coraggio, sbandieri ai quattro venti quanto sei fiero di essere Grifondoro e quanto ti facciamo schifo, ma non hai mai avuto la decenza di guardarci in faccia e dircelo, diccelo, Sirius, diccelo quanto ti facciamo schifo, forza. Dimmelo,” Regulus si indica il petto, mentre le lacrime scendono copiose, ora. “Pensavo che saresti rimasto ancora un po’, pensavo che avresti mandato tutti al diavolo al tavolo del pranzo della domenica, e non che saresti sgattaiolato via nel cuore della notte mentre nessuno guardava… Dov’è il tuo coraggio, ora?”

Si guardano in silenzio per un attimo. Sono entrambi stanchi, forse. Sirius di sicuro lo è: stanco di tenere duro, stanco di non urlare, stanco di essere stanco di vivere quella vita ai margini dell’estraniamento, in mezzo a quattro mura che puzzano di muffa e sono fredde, fredde come il ghiaccio — fredde come gli occhi di sua madre quando gli ha detto quanto le faceva schifo, quanto si vergognasse ad avere un figlio così, non solo un Grifondoro traditore del suo sangue e della sua eredità, che se la faceva con i Mezzosangue e i Nati Babbani, ma anche che se la faceva con degli uomini, un prodotto di ogni sozzeria che camminava sulla terra, la sua croce. La sua disgrazia. E come avrebbe fatto a reggere, chiunque altro? E come avrebbe potuto sedersi a quella tavola, a mangiare quel cibo, suo padre seduto a capotavola, silenzioso come un fantoccio, suo fratello di fronte a lui, silenzioso come uno spettro, e sua madre dall’altra parte, silenziosa come una furia. E come avrebbe potuto, un essere umano, resistere? 

“Tu non sai niente, Regulus. Sputi sentenze propio come tutti gli altri,” dice alla fine, arreso, chiudendo il borsone con uno scatto del polso e gettandolo ai piedi del letto. 

“Sputo sentenze proprio come te, allora,” replica suo fratello a voce bassa. La sua invettiva sembra finita. Ha esaurito la sua collera. Si è sfogato e ora può tornare ad essere il solito, amabile, tranquillo Regulus di sempre. “Siamo uguali, Sirius. Siamo entrambi delle bestie braccate, e attendiamo solo di essere acciuffate. Quando lo capirai allora fammi un fischio…” Gli volta le spalle, curve, e si avvia alla porta.

“Glielo andrai a dire? A nostra madre, che me ne vado…” aggiunge. 

Regulus si ferma sulla porta. Si volta leggermente per guardarlo negli occhi. I suoi, verdi, sono stanchi. Spenti. Arresi. “Certo che no. Non fare rumore, però, sai che ha le orecchie sensibili.” Ed esce. Si richiude la porta alle spalle. È tutto ciò che suo fratello gli dice prima che Sirius se ne vada — se ne vada per sempre. Non sa se essere triste o arrabbiato. Però nel dubbio si butta sul letto e fissa il soffitto. Il baldacchino di broccato verde gli restituisce l’occhiata. 

 

Regulus lo ha guardato dall’alto della scala, seduto sul pianerottolo. Sirius ha agitato una mano verso di lui, gli ha fatto segno di tacere, ed è uscito. Finito. Ciao per sempre2.

 

[ 1517 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note

1. È lo stesso scambio di dialoghi che apre il giorno 13.
2. Dal capitolo 6, qui.

 

Allora, forse molte di voi (tutte) mi odieranno per questo capitolo, ma cerco di implorare il vostro perdono dicendovi che era necessario. Il capitolo 6 (dove Sirius è da James subito dopo aver lasciato Grimmauld Place) lasciava aperto un interrogativo sull’ultimo incontro tra i due fratelli prima che Sirius lasciasse il numero 12. Questo capitolo avrebbe dovuto riguardare un’altra discussione, successiva, ma ho pensato di cambiare direzione in corso per fornirvi il tassello mancante. Sirius fa un po’ il cazz0ne, e Regulus lo mette davanti ad alcuni interrogativi, ma conosciamo Sirius, è come un treno. Testardo come pochi. 

 

Noi ci vediamo domani con il prompt 15 e il ritorno ad un personaggio da me molto amato che ancora aveva trovato poco spazio in questa raccolta. Attendo come al solito i vostri insulti riscontri 👁

 

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Capitolo 15
*** XV. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 15;
armatura;
❨ Narcissa Black ❩.

 

Si veste di strati, Narcissa.
È come se addosso non abbia solo pelle e vestiti,
ma strati e strati di tutto ciò che la vuole annientare,
ma che la rende solo più forte. 

 

Ha cominciato fin da bambina, Narcissa. Ha accumulato strati di fortezza e temperanza, di pazienza e coraggio, di silenzio scelto e parole urlate al fondo della gola per non impazzire. Ha cominciato fin da bambina, capendo che il mondo là fuori era solo pronto a divorarla, senza attenuanti. Un solo passo falso ti avrebbe condotto nel baratro, giù giù nell’oscurità. E allora ha cominciato a vestirsi di oscurità, Narcissa. Ciò che all’esterno appariva chiaro e luminoso e brillante, tutto bianco e avorio e madreperla, celava un substrato di coscienza di sé e consapevolezza, di un’ombra che si è sempre portata dietro e ha sempre celato in favore di un’apparenza fatta di sorrisi accecanti pregni di dolcezza, di occhi azzurrissimi tinti di luce, di mani gentili e agili sul pianoforte in salone, davanti agli occhi della cerchia Purosangue che contava, aggraziata e lieve come un angelo. Ha accumulato oscurità man mano che Bella invece la buttava fuori, a ondate, scure come petrolio, acri, puzzolenti di bruciato e distruzione. Ha accumulato oscurità man mano che Andromeda la combatteva, guerriera determinata e ferma, che agisce dietro le spalle e, nella sua apparente pacatezza, cela un incendio. Ha accumulato oscurità man mano, Narcissa, imbottigliandola per non doverla liberare mai. Quando ha conosciuto Lucius, lui ha saputo guardarle dentro, ha scovato quell’ombra — l’ombra dei Black — e l’ha fatta sua in un modo in cui nessuno, prima d’allora, aveva mai tentato di fare. Non è mai stato impaurito, Lucius. Non ha mai cercato di imbrigliarla e trattenerla, anzi, ha unito le loro ombre e dato vita a qualcosa di loro, solo loro, un altro strato che andava ad aggiungersi. Draco ha portato solo luce, tanta luce. Il sole in confronto era solo una pallida stella ridotta al silenzio. Nulla poteva concorrere con suo figlio, con l’aura dorata dei suoi capelli biondi che appena nato erano come lana, con quel sorriso dolce di bambino, quando gli mancava un dente davanti, con i suoi occhi che erano quelli di Narcissa e Lucius, erano un loro riflesso. Per suo figlio, Narcissa si è vestita di altri strati. Non le bastavano quelli che già sentiva addosso, ha dovuto rafforzarsi perché solo così avrebbe potuto proteggerlo — sempre, e contro il resto del mondo. Perdere la guerra non ha significato perdere tutto, per Narcissa, ha solo significato perdere il passato, qualcosa al quale tutti loro si erano aggrappati per non affondare, qualcosa di antidiluviano e patetico e subdolo, qualcosa che non la rappresentava più (e forse non l’aveva rappresentata mai, chi lo sa?). 

 

Alla fine della guerra,
Narcissa scopre che tutti quegli strati l'hanno protetta,
e l'hanno aiutata a ergersi a scudo di chi ama.
Come un’armatura. Sì, un’armatura di luce.
La sua oscurità è sparita. Forse è finalmente libera.  

 

[ 492 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

Non ho particolari aggiunte alla flash di oggi. Ho amato scrivere di Narcissa, è uno dei personaggi che preferisco della saga, e ho cercato di convogliare l’immagine che ho di lei in queste poche, ma incisive, parole. 

 

Scusate la fretta ma ho tremila cose da fare! A domani ♥︎

 

 

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Capitolo 16
*** XVI. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 16;
belladonna1;
❨ Walburga Black ❩.

 

Atropa belladonna: dal greco atropo, Ἄτροπος, cioè in nessun modo, l'immutabile, l’inevitabile.

 

Walburga sfila l’ampolla che tiene nascosta in cucina. Ha detto a Kreacher che sarà lei a servire il drink serale al padrone, quest’oggi. Kreacher si è inchinato ed è filato via, obbediente come suo solito, senza ovviamente farle domande. Con lei sa essere discreto. 

Versa un po’ di Whisky Incendiario in un bicchiere largo, di cristallo, e poi apre l’ampolla, facendo cadere alcune tracce dell’erba all’interno del bicchiere. La guarda sciogliersi in spire, e attende paziente, tamburellando le lunghe dita sul bancone della cucina. Non ne ha messa troppa, ma neanche troppo poca. Il giusto — la giusta quantità che permetterà a suo marito di dormire come un sasso per tutta la notte non appena il veleno entrerà in circolo insieme all’alcol. È abituata, ormai, Walburga. Ogni qual volta deve uscire senza sapere quando rientrerà, la belladonna le viene in aiuto per tenere a bada Orion laddove l’alcol non arriva. 

Una volta sciolta, veleggia verso il salotto e, con un sorriso, si avvicina alla poltrona in pelle del marito. “Ecco qui, tesoro,” miagola. “È l’ora del relax.”

Orion alza gli occhi su di lei, appoggia alcune lettere sul tavolino lì accanto e accetta il bicchiere con un sorriso. La guarda da sotto in sù, però, la esamina attentamente. 

“Stai uscendo?”

Walburga stringe le labbra ma si sforza di sorridere. Scuote la testa. “Certo che no. Perché me lo chiedi?” Gli accarezza una spalla, sa che quel contatto lo terrà buono. 

Ma Orion insiste. “Sei tutta vestita bene… di pizzo e velluto… E hai messo il profumo.”

Per Salazar!, pensa. Come mai è così attento, stasera? 

Walburga ridacchia. “Sciocco. Ero vestita così anche a cena…”

“Non bullarti di me, Walburga.”

Si guardano attentamente negli occhi. Ora la donna non sorride più. Questo giochetto l’ha stancata. 

“Ricordati qual è il tuo posto, Orion. Ora bevi. Io vado a vedere se i ragazzi dormono.”

Mentre sta per andarsene, però, Orion l’afferra per un polso e la fa voltare. Stringe. E le sta facendo male. Walburga non capisce da dove arrivi tutta quella baldanza. Tutta quella forza. 

“Vieni qui…” sussurra lui, attirandola a sé, facendola sedere sulle sue gambe. Non le lascia il polso, e neanche si rende conto che la sta stringendo troppo forte. Walburga finisce seduta sulle sue gambe e Orion cerca di baciarla. Lei lo segue, lo asseconda. Vuole solo che questo supplizio finisca. Vuole solo andarsene ed essere stretta da altre braccia, baciata da altre labbra, per tutto il tempo che le serve. 

“Dopo puoi togliermi i vestiti,” inizia lei sulle labbra di Orion. La sua barba rada le solletica il mento. “D’accordo? Puoi spogliarmi e possiamo fare tutto quello che vuoi. Ci stai?”

Orion la guarda, gli occhi aperti e inespressivi. Sembra un ragazzino troppo cresciuto nel pieno dell’adolescenza al quale hanno promesso un pompino. La disgusta. 

Alla fine annuisce. “Tutto?”

Walburga rabbrividisce. Sa esattamente cos’ha in mente Orion. Ma tanto non avverrà mai, come tutte le volte, quindi annuisce, come tutte le volte. “Tutto. Ora bevi.”

Orion la lascia andare e lei si rialza. Lo osserva buttare giù il Whisky tutto d’un colpo, come suo solito. 

“Kreacher te ne porterà un altro più tardi,” conclude. “Ci vediamo dopo.”

Sa che non ci sarà nessun dopo, Walburga. Esce dalla stanza e si appoggia alla parete del corridoio. Sospira. Ogni tanto Orion ha questi momenti di lucidità che però non è lucidità, ma è comunque delirio. Allora fa finta di voler fare il marito che comanda, fa finta di credere che sia lui a indossare i pantaloni, al numero dodici, e Walburga glielo fa credere giusto per qualche minuto, per non ammazzare del tutto la sua tossica mascolinità. Ma poi esce, e allora respira di nuovo. 

Controlla davvero che i ragazzi dormano, sono entrambi preda del sonno nei loro letti troppo grandi, quindi torna di sotto. Orion sta già dormendo sulla poltrona, la testa reclinata all’indietro e la bocca aperta. Walburga gli si avvicina quatta, come un gatto, e gli si ferma di fronte. Lo osserva da sotto in sù, studia quel corpo che racchiude un essere così inerme e così ininfluente che ormai prova solo pietà. Pietà e disgusto. Si china e lo afferra là sotto, sa che non si sveglierà, ma sa che gli farà male, molto, e quando si sveglierà domani mattina se lo ricorderà. Stringe come lui ha stretto il suo polso poco prima. Orion si dimena leggermente in quel sonno indotto e allucinogeno, ma non si sveglia. Vince sempre, Walburga.
 

 

“Chi è stato?” 

Walburga gira gli occhi per guardare Damien2. Sono stesi nel suo letto, sulle lenzuola pulite e fresche che però ora sanno dei loro amplessi. Sono completamente nudi. Damien è steso sulla schiena, e fuma lentamente. Walburga invece è stesa sulla pancia proprio accanto a lui, le loro gambe si intrecciano lievi e lei disegna forme indefinite sul petto sodo del suo amante. Damien è tonico laddove Orion è molle, e non c’è parte del suo corpo che Walburga non ami adorare e venerare, proprio come lui fa con lei. 

Ora Damien le ha sollevato delicatamente il polso, e osserva le prime ombre scure e livide che si stanno formando sulla sua pelle proprio nel punto in cui Orion l’ha stretta un paio di ore prima. 

“Lascia stare,” risponde Walburga cercando di sottrarre il polso dalle mani di Damien, ma lui non vuole lasciar perdere. 

“È stato tuo marito, vero?” Non lo chiama mai per nome, se può evitarlo. 

“Non importa, io a lui faccio di peggio.” 

“A me interessa di te, non di lui.” Damien spegne la sigaretta in un posacenere sul comodino e la guarda con occhi strani, cerca di soppesarla, e comprenderla, forse, oppure di leggerle direttamente dentro l’anima. È un peccato che Walburga non ce l’abbia. 

“Non ti devi preoccupare. Passerà.” Cerca di liquidare l’argomento allungandosi come una gatta sul petto di Damien. Glielo bacia, si sofferma su un capezzolo e gioca con la punta. 

“Walburga,” inizia lui però, tirandola indietro e cercando i suoi occhi. Lei si arrende e si lascia trovare. Sospira. “Se ti fa del male, lo uccido. Giuro. Vengo lì e gli scaglio addosso una maledizione. Non me importa niente di quali equilibri infrangerò, ma non deve metterti una mano addosso mai più.”

È strano sentire Damien parlare così appassionatamente, lui che non mostra mai se stesso, che non si scopre mai. Proprio come lei. 

Si sporge per accarezzargli una guancia e indugia sulle sue labbra. Lo bacia e sente il sapore del fumo, e lui le viene incontro, cingendola per la vita e tirandosela ancora più addosso, in mezzo alle gambe, al sicuro. Come se stesse custodendo qualcosa di prezioso. 

“Mi eccita sentirti parlare così…” gli dice baciandolo ancora. 

“Dico sul serio. Lo uccido.”

Lei gli sorride. Scuote la testa. “Lascia perdere, non ne vale la pena. Ti sporcheresti le mani per niente.”

“Sono già sporche, Walburga.” I suoi occhi neri lampeggiano. Sono voraci. “Sono già sporche di sangue, non lo sai?”

“Lo so, lo so,” risponde lei, occhieggiando il Marchio Nero sul suo braccio sinistro. Nasconde il naso nell’incavo del suo collo, quindi, assorbendo il suo buon odore. Ha sempre un buon odore, Damien. Lo bacia, ed è un gesto così tenero e intimo che ne rimane sorpresa. Ma cerca di non badarci. “Ma il sangue dei Black sporca di più. Non voglio che le tue belle mani siano rovinate per sempre.” 

“Ci saresti tu a prenderti cura di loro, no?” Gliele passa sulla schiena, facendole sentire ogni gobba e ogni curva. Sono mani eleganti, da uomo dell’alta società. Mani di chi non ha mai lavorato. 

“Hai una moglie3 per questo, Rosier.” Ridacchia. 

“Io non voglio mia moglie, voglio te. Solo te.”

“Mi hai. Mi hai per sempre.”

Si baciano e continuano ciò che hanno iniziato. Scoprono di aversi a vicenda, quella notte. Scoprono che certi lividi, per quanto brutti, non sono fatti per durare. Scoprono che anche l’alba, non solo l’oscurità, li rende vivi. È la prima volta in cui Walburga si ferma fino al mattino. 

 

[ 1333 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎



❨ note ❩

1. Per gli effetti della belladonna, mi sono ispirata al film “Amori e Incantesimi” (che vi consiglio, è perfetto per Halloween).
2. Damien Rosier lo avete conosciuto qui.
3. La moglie di Damien è Medea Greengrass, sorella di Marcus e Morgana, che ho citato nei capitoli precedenti; personaggio di mia invenzione.

 

Ammetto che la seconda parte della shot non era prevista, poi qualcuno (di cui non farò nomi u.u) è rimasta così entusiasta del capitolo 5 e ha chiesto a gran voce di leggere ancora di Walburga e Damien, e chi sono io per dire di no? Ecco. Ho ceduto. E poi devo dire che scrivere di questi due mi piace molto, quindi non è stato affatto uno sforzo. 

 

Nel capitolo 8 avete visto su quale sottile filo si regga il matrimonio tra Walburga e Orion e avete letto di un Orion completamente alla mercé della moglie, e vi siete poi fatti un’idea su di lui anche grazie alle parole aspre di Sirius nel capitolo 14, e qui vediamo un nuovo lato di Orion, vediamo un Orion che cerca di combattere la violenza con altra violenza, ché è l’unica moneta di scambio che conosca per relazionarsi alla moglie. Lo vediamo in uno sprazzo di “vita” cercare di imporsi su Walburga, ma quest’ultima ovviamente sa come riportare le cose all’ordine. Orion ha lasciato in qualche modo un segno su di lei, e la violenza sembra essere l’unico linguaggio, per loro, a Grimmauld Place. 

Mi piacerebbe approfondire Orion ma non so se avrò modo in questa raccolta, visto che i giorni sono già tutti programmati. Vedo cosa riuscirò a combinare. 

Scusate per queste note lunghissime ma ci tenevo a specificare alcune cosette. A domani ♥︎

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Capitolo 17
*** XVII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 17;
alew (un pianto di disperazione);
❨ Bellatrix | Narcissa ❩.

 

Quando Andromeda se ne va, Bellatrix piange un pianto disperato. Non ha mai pianto tanto in tutta la sua vita, invero. Non sa nemmeno lei perché non riesca a fermarsi. Guarda sua sorella varcare la porta di casa Black per l’ultima volta ben sapendo che non l’avrebbe mai più attraversata, non come le altre volte, quando la vedeva uscire ma sapeva che sarebbe tornata, ché Dromeda torna sempre, alla fine, torna sempre a casa. Non le ha mai lasciate, ed è sempre sembrata lei, la sorella maggiore, forte come una roccia, severa ma tenera, colei che sapeva guidarle e indirizzarle, che sapeva rimproverarla senza rabbia e che sapeva cullare Cissy subito dopo un incubo. Tutte le altre volte, Dromeda è sempre tornata, ha aperto la porta ed eccola, i capelli castani scompigliati dal vento e gli occhi belli. C’è stato un tempo in cui Bellatrix Black ha pianto per sua sorella. Non ha pianto più, dopo. C’è stata solo la rabbia, dopo. La rabbia di chi è stata abbandonata, e lasciata indietro. Sua sorella ha preferito un uomo a loro, sua sorella ha scelto di voltare le spalle alla sua famiglia per amore. Che sciocca. Sciocca sciocca sciocca. Un giorno avrebbe pagato a caro prezzo le sue scelte. Un giorno avrebbe ricordato quel momento in cui ha oltrepassato quella soglia senza nemmeno voltarsi. Un giorno si sarebbe pentita, Andromeda Black. Intanto, Bella asciuga le sue lacrime. 

 

[ 236 parole ]

 

⭐︎

 

Quando Andromeda se ne va, Narcissa non piange. Neanche una lacrima. Niente di niente. Chi lo avrebbe mai pensato? Chi, guardandola, avrebbe mai pensato che quella mite creatura vestita di luce non avrebbe versato neanche una singola lacrima guardando la sua amata sorella maggiore andarsene per sempre? Ché è un addio, lo sa bene, tutti lo sanno. Suo padre Cygnus lo ha messo ben in chiaro con poche, concise e glaciali parole: “Vuoi uscire da quella porta, Andromeda? Bene. Vuoi vivere per sempre nel peccato? Bene di nuovo. Vuoi accompagnarti a quella gente,” e calca quell’ultima parola con tutto il disprezzo che serba in corpo, quasi sputandola, condita di veleno, “per tutta la vita? In definitiva, bene anche questo. Sappi solo che quando metterai piedi fuori di qui, non ci sarà più alcuna possibilità per te di tornare indietro.” E tace. Sua madre Druella sta in piedi dietro la poltrona del marito, le labbra strette. Sembra imperturbabile. Non ha mai capito cosa provi in realtà, sua madre. Sempre se prova. Qualcosa. Qualsiasi cosa. E Narcissa si chiede se anche lei provi qualcosa, quando vede sua sorella uscire, e sua sorella la guarda un’ultima volta con occhi velati di lacrime, ché forse sperava che, tra tutti, almeno lei. E invece. Ignora le lacrime di Bella, ché non sa se siano autentiche. Ma non ignora il silenzio di Narcissa. La guarda con ancora un briciolo di speranza, ma lei volta la testa, sale le scale, e sparisce nella sua stanza. Si porta Bella con sé, la prende per mano, e aspetta che finisca di piangere sedendole accanto sul suo letto. La guarda asciugarsi le lacrime. Si concedono un abbraccio. E poi Narcissa esce. 

 

[ 281 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

Riguardo questa doppia flash, ho sentimenti contrastanti, non chiedetemi perché. Ho cercato di interpretare un’opposizione, quella tra due sorelle molto diverse che affrontano in modi diversi la partenza di Andromeda, colei che faceva un po’ da collante tra loro. Penso sempre che Bella e Narcissa si siano un po’ perse, da un certo momento in poi, non le ho mai viste molto “affiatate”, se capite cosa voglio dire, nonostante combattessero dalla stessa parte.

 

Scusate la fretta ma oggi pomeriggio ho mille cose da fare! Ci leggiamo domani ♥︎

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Capitolo 18
*** XVIII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 18;
sweven (sogno, visione, premonizione);
❨ Andromeda Black ❩.

 

Sta precipitando, Andromeda. Sa che sta sognando, è cosciente, è come se sia nel suo corpo e stia guardando il suo corpo cadere allo stesso tempo. Non può arrestarne la corsa, non può rallentarne la discesa, può solo guardare, e urlare, e sentire — sentire tutto. Quando finalmente sembra che stia per toccare terra, mentre intorno a lei è tutto buio, non succede, e lei viene tirata indietro da una forza invisibile, trascinata con irruenza, come se qualcuno le stia cingendo la vita e strattoni senza requie. E, mentre arranca e urla e chiede aiuto, le vede: immagini turbinanti tutt’intorno, flash accecanti di luci — verdi, rosse, gialle, viola — e voci, tante voci, che sussurrano il suo nome e la chiamano. Allora, quando si ferma, si ferma in mezzo a un circolo di volti, volti celati da un cappuccio, neri d’inchiostro. Sono come fumo, inconsistenti. Non la chiamano più, ma ora le parlano all’unisono in una lingua sconosciuta. Potrebbe essere latino, e Andromeda non è mai stata brava in latino. La testa comincia a dolerle e se la stringe, piegata in due su quel pavimento spoglio ma lucido che sembra estendersi a dismisura intorno a lei, per metri e metri d’infinito spazio. Le turbinano nella testa, le immagini, ora: vede Ted steso nella neve, la testa reclinata di lato, gli occhi aperti e senza vita e un fiore rosso che si apre nel bianco, come un bocciolo; vede un volto di una donna senza nome che però non è del tutto sconosciuta, è come se celi qualcosa che ama ma che al momento Andromeda non riesce a carpire, e la vede in piedi nella notte, le tende una mano in una muta supplica, i capelli rosa sporchi di fango; vede un uomo dal viso triste e smunto, sembra stanco, stanchissimo, e le sue mani stillano sangue che vanno a mischiarsi all’acqua delle pozzanghere che gli si aprono ai piedi come oceani di sofferenza; e vede sua sorella Bellatrix urlare e ridere e poi cadere, spegnersi improvvisamente, perire proprio come ha vissuto. Urla, Andromeda. Urla con tutte le sue forze. È quando si sveglia tra le braccia di Ted che capisce di essere tornata. È a casa, nel suo letto, indossa una camicia da notte che adesso è tutta sudata, e Ted la stringe a sé mentre lei trema. “Un sogno, amore,” le sussurra sui capelli, carezzandole la schiena dove il cotone le si è appiccicato addosso. “È stato solo un sogno, è finita…” È finita. Ma è finita? Se lo chiede mentre chiude gli occhi e nasconde il viso nel collo di suo marito e ne respira il profumo di buono, ne carpisce il calore, e l’amore. Andromeda sa che è appena iniziata. 

 

 

Bussa forte alla porta a due battenti. Sa che non avrebbe dovuto tornare. Suo padre è stato molto chiaro, anni addietro. E sua madre le ha fatto capire la stessa cosa con uno dei suoi soliti silenzi. Ma non può, Andromeda. Non può farlo, non può stare lontana da quella casa, ora. Ciò che ha visto la perseguita. Volti amati e volti sconosciuti la seguono ovunque, chiedendole di salvarli. Ma lei cosa può? Lei non sa niente della vita, come pensano che sappia qualcosa della morte? Bussa bussa bussa, e finalmente qualcuno le apre. È Trisha1, l’elfo domestico di sua madre. La guarda sospettosa, ma quando Andromeda chiede di vedere la padrona di casa, l’elfa l’accompagna senza dire nulla. Druella è nel salotto piccolo, seduta su un divanetto a leggere la Gazzetta del Profeta. Il giornale le scivola di mano quando vede la figlia sulla soglia. Si ricompone giusto in tempo per congedare l’elfa. “Grazie, Trisha, lasciaci.” Quella si inchina e se ne va chiudendo la porta. 

Madre e figlia si fissano. Non parlano, non ancora. È in corso una battaglia silenziosa, tra loro, fatta di rimorso e astio antico e parole non dette e un sottile tipo di rancore che impregna le loro vene come veleno. Forse sono fatte della stessa materia, ma entrambe lo ignorano — o fingono di non saperlo. 

“Cosa vuoi? Cosa ci fai qui?” 

Andromeda sa di essere in disordine, i vestiti spiegazzati di chi si è vestito in fretta e furia e senza badare a ciò che ha indossato, i capelli sporchi e leggermente crespi, profonde occhiaie viola a contornarle lo sguardo, e mani tremanti. Non ha ancora smesso di tremare, da quella notte di sei giorni fa. 

“Voglio sapere tutto,” risponde Andromeda. Si avvicina di qualche passo. È incerta. Traballa sulle sue gambe di burro.

Tutto?” Chiede ancora Druella, le sopracciglia alzate. “Tutto cosa?”  

Andromeda si inginocchia davanti a sua madre. Mette da parte l’orgoglio, mette da parte il fuoco che l’ha sempre guidata, mette da parte qualsiasi cosa, persino la sua dignità di donna, e si inchina davanti a sua madre. Le sfiora le ginocchia coperte di velluto verde scuro. Sono magre. Più magre di quanto le ricordasse. “Non ce la faccio più…” mormora, e sente le lacrime scenderle lungo le guance. “Continuo a vederli… Sempre…”

Druella rimane in silenzio per un istante, mentre Andromeda continua a piangerle e a bagnarle il vestito. Non sembra importarle. 

“Quand’è iniziata?” 

Andromeda solleva di scatto la testa. “Come sai…?”

Druella annuisce. “Quand’è iniziata, Andromeda?”

“Se— sei giorni fa,” balbetta, asciugandosi le lacrime con il dorso della manica. 

Sua madre stringe le labbra. “Potrebbero finire. All’alba del settimo giorno. Potrebbero finire oppure non finire mai. L’alba del settimo giorno decreterà il tuo destino, Andromeda.” 

Ma Andromeda scuote la testa. “No. No, non è possibile. Io non la voglio. Non la voglio, va bene? Che se ne vada…”

“Non puoi ricacciare indietro la Vista, figlia. Non puoi tu come non può nessun altro, come non ha mai potuto nessun altro. È qualcosa che vive in te e cresce, e puoi cercare di tenerla a bada finché vuoi, fingendo di non voler Vedere, ma prima o poi finirà di rincorrerti e tu finirai di scappare. Devi abbracciare la tua vera natura, Andromeda,” aggiunge Druella afferrandola per le spalle. È forte e stringe. La scuote leggermente. “Smettila di fingere di essere chi non sei e abbraccia la Vista. Sei nata con il Dono, Andromeda, e lo hai evitato per troppo tempo.”

“Ma io non lo voglio,” ripete lei. Non può accettarlo. Non può accettare di vivere la stessa vita che ha condotto sua madre. Semplicemente non può. E non vuole correre il rischio di vedere tutto, tutto ciò che accadrà, e tutti coloro che moriranno. “Non mi interessa.” 

Druella ride e suona amara, quella risata. Quasi stridula in alcuni punti. “Sei una sciocca. Potresti essere d’aiuto alla preziosa causa di Silente, così, non trovi? Potresti vedere laddove quel vecchio barboso non può. Non pensi che saresti più utile, invece che stare a casa a confezionare centrini e preparare torte per tuo marito?” Si diverte, sua madre. Si sente libera di metterla in ridicolo. 

Andromeda si alza, si passa una mano sul viso. È veramente stanca. “Alba del settimo giorno, hai detto. Potrebbe finire per sempre.” 

Druella annuisce. “Non riuscirai a combatterla, Andromeda. E potresti morire nel tentativo.” 

“Non me ne importa di morire. Non ho paura della mia morte, finché non debba più vedere quella delle persone che amo.” 

Sua madre la guarda con una strana espressione, poi distoglie lo sguardo. Agita una mano come per cacciarla via. “Vattene, ora. Tuo padre potrebbe uscire da quel camino da un momento all’altro. Non voglio che ti trovi qui.”

Andromeda cammina fino alla porta, poi si ferma, la mano sulla maniglia. “C’è sempre una via d’uscita, madre. C’è sempre modo di dire basta, e scegliere di stare bene, una volta per tutte. Il nostro nome non ci definisce.” 

“Siamo Black, sciocca. Ci definirà fino alla morte.” Quelle parole sono definitive, così Andromeda lascia il salotto. 

 

 

L’alba del giorno dopo la trova sfinita. Ha combattuto i suoi fantasmi per tutta la notte, Andromeda. Ha visto e rivisto le stesse immagini, ha pianto più lacrime che quelle versate in tutta la sua vita fino a quel momento, e ha stretto forte le braccia di Ted. Ha capito, Ted, quando gli ha raccontato di aver fatto visita a sua madre. Si è arrabbiato solo perché lei non gli ha detto nulla di ciò che le stava succedendo in quei giorni. E ha promesso che non l’avrebbe lasciata andare. Mai. Si sono messi a letti e lui l’ha presa tra le braccia, cullandola e baciandole la tempia sinistra finché non si è addormentata, e vegliandola per tutto il tempo, immune al sonno e alla fatica. E Andromeda ha combattuto. Ha guardato in faccia quei volti per l’ultima volta e ha gridato dal fondo della gola, ha gridato fino a lacerarsi la pelle, ha gridato spaccando tutti i vetri di casa e tutti i bicchieri e tutti gli specchi. Quando l’alba si è finalmente tramutata e il cielo ha cominciato a divenire azzurro a est, allora tutto si è placato. Andromeda si è svegliata, sudata e tremante e stanca, tra le braccia forti di Ted. Non ha più visto quei volti, né quel giorno, né i giorni successivi. Quella notte ha dormito senza sogni. È solo qualche mese dopo, quando vede per la prima volta il volto di sua figlia Ninfadora, che capisce. È soltanto qualche anno dopo, quando conosce Remus Lupin, che capisce. È soltanto quando le dicono che Ted è morto, è soltanto quando le dicono che Dora e Remus sono morti, è soltanto quando le dicono che sua sorella Bellatrix è morta, è soltanto allora che Andromeda capisce. E rivede tutto quanto. Come se le scorresse davanti. Stringe forte il corpicino caldo di suo nipote2 tra le braccia, ne respira il profumo di buono e sapone. Ancora una volta, non ha più visto quei volti, né quel giorno, né i giorni successivi.

 

[ 1629 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

1. Ho immaginato che anche Druella e Cygnus avessero un elfo domestico a casa, proprio come Kreacher a Grimmauld Place; ovviamente Trisha non esiste, l’ho inventata io.
2. Penso che abbiate capito che si tratta di Teddy Lupin, figlio di Ninfadora Tonks e Remus Lupin, rimasto con la nonna alla morte di entrambi i genitori.

 

Questa shot condensa tante cose insieme, e ci tengo in modo particolare, non chiedetemi come mai. Per prima cosa, anche Andromeda possedeva la Vista, ma questo l’ho inventato io, così come ho inventato la Vista di Druella (che avete letto qui). Ho immaginato che fosse passata di madre in figlia, anche se Andromeda non l’ha mai abbracciata, e mai l’abbraccerà in futuro. Seconda cosa, ho inserito un ultimo confronto madre/figlia, che ho definito “ultimo” ma non lo so manco io, se sia l’ultimo ultimo o se ce ne potrebbero essere stati altri, la mia mente cambia ogni giorno, quindi chi lo sa. In ogni caso, spero che il confronto sia risultato almeno interessante. Infine, ammetto che il finale è un po’ spezza-cuore, mi perdonate? 

 

A domani ♥︎

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Capitolo 19
*** XIX. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 19;
argento;
❨ Bellatrix e Walburga ❩.

 

Argento: dal latino argentum e dal greco αργύριον, legati ad αργός, “splendente, candido, bianco”.

 

Bellatrix bussa piano alla porta. La voce di Walburga dall’interno la invita ad entrare. La ragazza socchiude la porta ed entra nella camera da letto. La zia è seduta al tavolino da toilette, quello con lo specchio dalla cornice nera e il ripiano in marmo bianco ricoperto di prodotti di bellezza in ampolle e bottiglie di vetro, e gioielli, e con un vaso di fiori sempre freschi — dalie1 rosse. La donna le sorride, facendole cenno di avvicinarsi. Bellatrix è sempre stata affascinata da quella figura misteriosa vestita di scuro (di tessuti neri, verdi pesti, bordeaux fondi, blu notte, viola antichi), circondata da un’aura di magia impenetrabile, gli occhi glaciali ma sempre attenti di chi non ha mai perso di vista nulla nella vita. Nella Bella adolescente, quest’immagine è rimasta scolpita nei recessi della sua mente, e l’affetto che prova da sempre per quella zia si è tramutato presto in devozione. Vuole essere come Walburga Black, Bella, un giorno. Vuole camminare nel mondo con la stessa consapevolezza e la stessa sicurezza e la stessa eleganza, che non è l’eleganza di Narcissa, l’eleganza dei bei modi e dei bei sorrisi, no, è l’eleganza del male, ciò che impregna Walburga Black fin dentro le ossa e che le scorre nel sangue come veleno liquido. Forse è l’essenza stessa dei Black. 

“Mi hai mandato a chiamare, zia Walburga?” Chiede quindi, fermandosi accanto alla donna. 

Walburga annuisce. “Questo è un giorno molto importante per te,” inizia. “Verrà annunciato il tuo fidanzamento con l’erede dei Lestrange e tuo padre si aspetta grandi cose da quest’unione.” 

Bellatrix non riesce a non girare gli occhi, infastidita. Le piace Rodolphus, ma non le piace che quello che c’è tra loro venga sbandierato davanti a tutti durante un ritrovo di Purosangue. Quello che la lega a Rodolphus è soltanto suo — loro. Non è qualcosa di pubblico. Bella non può opporsi al volere di suo padre Cygnus, però. È un uomo forte e deciso, lo è sempre stato, anche se con lei non ha mai alzato la voce, neanche una volta. Pensa che sia la sua prediletta, e forse lo è davvero. 

“Bella,” Walburga la richiama all’ordine. “Non voglio vedere quell’espressione, di sotto. Intesi?”

Con sua zia si è sempre sentita libera di essere se stessa, di essere solo Bellatrix. Niente di più e niente di meno. Non ci sono cerimoniali, tra loro, né stupida affettazione e falsità. 

“Intesi. È solo che…” Walburga solleva le sopracciglia, invitandola silenziosamente a proseguire. “Deve per forza avvenire davanti a tutti? Lo odio.”

“È consuetudine, mio tesoro. Vedrai che sarà tutto finito prima ancora che tu te ne accorga. Tanto non dovrai dire nulla, solo annuire e sorridere e far finta di essere felice.”

“Penso di esserlo, zia,” dice Bella, sorprendendo persino se stessa. “Rod mi piace.”

“Sta’ attenta a scoprirti così, Bella. Sta’ attenta a mostrare le tue debolezze, soprattutto con un uomo.” 

Bellatrix annuisce, non può fare altro. Ha capito cosa la zia le sta dicendo: quell’uomo potrebbe usare quelle tue stesse debolezze contro di te, un giorno; quell’uomo potrebbe renderti schiava; quell’uomo potrebbe annientarti. 

“Siedi qui accanto a me,” dice quindi Walburga, battendo il palmo della mano sullo sgabello sul quale è seduta. 

Bellatrix obbedisce. La donna indossa una vestaglia di seta nera a coprirle le gambe, e non si è ancora truccata. Bella nota solo quanto sia bella, e quanto vorrebbe essere come lei. Tutti dicono che zia e nipote si somiglino, ma lei non lo pensa affatto. Non ha niente della bellezza di Walburga Black, lei. È molto più acerba, e piena di angoli e spigoli taglienti. 

“Voglio farti un regalo,” prosegue l’altra. “Oggi è un giorno importante, come abbiamo detto. Voglio portarti fortuna. Puoi scegliere uno dei miei gioielli.” 

Bellatrix sposta lo sguardo sul tavolino, gli occhi spalancati. Davvero può? 

“Davvero?” Chiede, incerta. 

Walburga annuisce. “Forza, prima che tua madre ti venga a cercare…”

Bellatrix osserva i gioielli della zia sparsi tutt’intorno: anelli e bracciali adagiati su piattini e collane appese con ordine; pezzi pregiati e finemente cesellati; nota che sono tutti d’argento. 

“Sono tutti d’argento,” dà voce ai suoi pensieri, quindi.

Walburga annuisce. “L’argento è un metallo importante, Bella.  Gli Alchimisti lo tengono in grande e importante considerazione nei loro processi, e viene associato alla Luna e alle divinità femminili2. Ti può proteggere, ricordalo sempre. Ti aiuta a fare chiarezza laddove manca.” 

“Lo abbiamo studiato a scuola.”

“Ottimo, allora.”

Bellatrix osserva ancora un attimo i gioielli, e i suoi occhi vengono immediatamente catturati da una collana: alla catenina sottile è appesa una strana forma che riconosce essere un piccolo teschio di uccello, lavorato in argento, scintillante alla luce del sole3. Fa per afferrarlo, è come se la chiamasse a sé. Quando le sue dita stanno per sfiorarlo, però, Walburga le afferra il polso. Bellatrix gira lo sguardo sulla donna. Il suo bel viso è in ombra, ora. 

“Quello no, Bella. Puoi scegliere tutto ma non quello.” Le lascia andare il polso, e Bella indugia ancora un secondo prima di abbassare la mano. Dentro di lei, l’imbarazzo e la vergogna si alternano alla brama e al desiderio. Vuole quel monile per sé, non sa perché ma lo vuole. Dev’essere suo. 

Alla fine sceglie un anello con incastrato un opale nero. Walburga glielo infila al dito indice della mano destra, sorridendo nuovamente. L’ombra di prima sembra essere sparita, mentre sul cuore di Bellatrix è come se sia rimasto adagiato un velo che le impedisce di pensare. I suoi occhi continuano a cadere sulla collana, così Walburga la prende e la ripone in un cassetto, che chiude a chiave. La chiave la tiene al collo. Ora la malia se n’è andata e Bellatrix si chiede da dove sia venuta. 

“Ora sei pronta.” Walburga sorride, alzandosi. “Lascia che ti spazzoli i capelli, vuoi?” 

La ragazza annuisce. Si sistema meglio a sedere sul divanetto e intanto Walburga prende la sua spazzola (d’argento) e le si mette alle spalle, pettinando dolcemente. 

“Promettimi una cosa, Bella.”

“Sì, zia?”

“Promettimi che non cercherai più quella collana.”

I loro sguardi si incrociano nello specchio. Bellatrix ha le guance arrossate. 

“È pericolosa, per chi non sa padroneggiarne il potere. Può trascinarti via con sé, laddove nessuno potrà più salvarti.”

“So come salvarmi da sola.”

Walburga ride. Non è una risata amara, ma divertita sì. “Bambina mia, sei forte. Lo so che lo sei. Hai tante cose da imparare, ancora, però. Fidati di me. Ti voglio bene, lo sai.”

Bellatrix lo sa. Forse è l’unica alla quale Walburga Black voglia davvero bene. L’unica alla quale mostri un minimo di vero interesse, un barlume di amore. 

“Ora scendi, forza, o davvero tua madre ti verrà a cercare e ci sgriderà.” 

“Hai paura di Druella, zia?” Chiede Bellatrix divertita, alzandosi e dirigendosi alla porta. 

“Certo che no, sciocchina.” 

“Ci vediamo di sotto?”

La donna annuisce. “Certamente.”

Bellatrix lancia un’ultima occhiata alla zia ed esce, fissando il suo nuovo anello e sorridendo soddisfatta. 

 

 

Bellatrix sente bussare piano alla porta. “Avanti,” dice, seduta al tavolino da toilette nella sua stanza, a casa Black nel Buckinghamshire4. Ha già addosso il vestito da sposa, le mancano solo i gioielli e il velo. Ha chiesto a sua madre di lasciarla sola per ritrovare un attimo con se stessa prima di scendere di sotto accompagnata da suo padre. Rodolphus l’avrebbe attesa nel salone, con tutta la famiglia e gli invitati della cerchia Purosangue presenti. Bellatrix sente un nodo di nausea all’altezza dello stomaco, ma cerca di tenerlo a bada. 

La porta si apre e spunta sua zia Walburga: vestita di viola è una visione, con i capelli castani raccolti e decorati di tanti piccoli diamanti. Le sorride richiudendo la porta e avvicinandosi. 

“Sei pronta?”

“Quasi. Mi mancano i gioielli e il velo.”

“A tal proposito…” Walburga apre la borsetta dello stesso viola del vestito e che porta appesa al polso. Ne estrae una scatola rivestita di velluto bordeaux e gliela porge. Bellatrix l’accetta, sorpresa, non aspettandosi altro regalo che quello che sarebbe arrivato dopo la cerimonia.

“Tempo fa ti era piaciuta così tanto… Penso che tu sia pronta per averla, ora.”

Bella apre la scatola con mani tremanti ed è lì, distesa sul velluto, la collana d’argento col teschio di uccello. Alza gli occhi di scatto sull’altra donna. “Zia…” comincia. Poi scuote la testa. “Non posso accettarla…” Fa per ridarle la scatola, ma Walburga la respinge, stringendole le mani nel mentre. 

“È tua. Lo è stata da quel giorno in cui ti sei fidanzata con Rodolphus. Ti appartiene, Bella. E tu appartieni a lei.”

Bellatrix non ci può credere. Abbassa lo sguardo sulla collana e sospira. L’ha desiderata così tanto… Aveva quasi smesso di pensarci. E invece zia Walburga ha saputo stupirla ancora una volta. 

“Grazie,” dice solo, sorridendo alla donna. “Non so che dire…”

“Non dire niente. Posso mettertela?” 

La ragazza annuisce solo, lasciando che sia l’altra donna ad aiutarla a indossare il gioiello. Il ciondolo a forma di teschio le pesa addosso ed è freddissimo sulla sua pelle scoperta. Si guarda allo specchio e non può fare a meno di sorridere tra sé e sé. Chissà cosa penserà Rod della sua nuova collana.

“È il teschio di un piccolo corvo. I corvi sono l’emblema dei Lestrange5,” le spiega Walburga. 

Le due donne si guardano attraverso lo specchio. Bellatrix sfiora il teschio con la punta delle dita. L’ombra che aveva percepito quel giorno sembra essersi affievolita, oppure è lei che è diventata più forte. 

“Hai detto che era pericolosa,” ricorda all’altra. “Mi hai fatto promettere che non l’avrei più cercata. Cos’è cambiato?”

“Tu sei cambiata. Sei più forte. Sei più adulta. Sei più potente, la tua magia è più potente. Sei diventata molte cose, Bellatrix Black. Tra poco sarai una Lestrange, e sono certa che affronterai con orgoglio la tua nuova vita di moglie.”

“Non so se faccia per me…”

“Penso che Rodolphus sia davvero la tua anima gemella, Bella. Vi compensate a vicenda, e lui ti capisce meglio di chiunque altro. Ho visto come vi guardate… quello non è frutto di un matrimonio combinato, fidati di me.”

“Tu amavi zio Orion quando l’hai sposato?”

Walburga la guarda ancora, sistemandole alcune ciocche di capelli qua e là. “L’amore è un lusso per pochi, nipote. Te ne accorgerai. Non ho mai amato zio Orion, ma per te è diverso. Tu puoi ancora amare Rodolphus. Avete tempo, siete così giovani…”

“Io lo amo,” dice Bellatrix decisa, annuendo. Sa bene cosa prova. I suoi sentimenti sono sempre frutto di una profonda riflessione. 

Walburga le sorride. “Ti auguro di conservare questo amore, Bella. Non è facile, nel nostro mondo.”

“Hai amato qualcuno, quindi. Nella tua vita.”

Ancora quello sguardo. Walburga si è di nuovo persa nella sua mente. “Forse. Non lo so nemmeno io.”

“Se vuoi stare con questa persona ventiquattro ore su ventiquattro, be’, penso sia amore.”

Walburga ride. “Sciocchina. Chi te l’ha detto?”

“Una mia amica a scuola,” scrolla le spalle, Bellatrix. “Non so se vale per tutti, però. Per me vale, con Rod.”

“Siete giovani, è tutto diverso quando si è giovani. Si è più coraggiosi, anche.”

“Tu sei coraggiosa, zia Walburga. Sei il mio esempio.” Bellatrix è sincera. Vuole dire quelle parole da troppo tempo, e ora ne ha l’occasione. 

La donna le si siede accanto, davanti alla specchiera. Le prende le mani. “Sono così orgogliosa di te, Bella… Sei la figlia che ho sempre desiderato avere, lo sai? Ed è un po’ come se lo fossi, mia figlia.”

Bellatrix ricambia la stretta. “Io ti avrei voluta come madre…”

“Non rinnegare tua madre, bambina. Ha solo avuto la sfortuna di sposare tuo padre. È una Rosier, e i Rosier sono tenaci come i rovi, ricordatelo sempre.” 

“Il tuo preferito è sempre stato zio Alphard, vero?”

La domanda sembra sorprendere Walburga. Le sue mani esitano sui capelli fini della nipote. Poi le sue labbra si piegano in un sorriso. “Non parliamo di me, adesso. Oggi è il tuo giorno.”

Bellatrix ricambia il sorriso e sente che c’è qualcosa che sua zia non le sta dicendo, ma evita di fare altre domande. 

“Ti piace la tua collana, allora?”

“Sì, è bellissima. Grazie, zia Walburga.”

“L’argento è molto importante per una strega, e per una donna. E il teschio del corvo ti proteggerà.”

Bellatrix continua a sorriderle. Accarezza la collana con la punta delle dita. Ne sfiora i contorni minuti. L’argento pulsa sulla sua pelle. 

 

[ 2056 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

1. Le dalie simboleggiano eleganza e dignità.
2. Riguardo l’argento, non ho inventato nulla, ho trovato informazioni su Internet. 
3. Per la collana ho fatto riferimento a quella che Bellatrix indossa nella trasposizione cinematografica della saga. 
4. Ho idealmente collocato casa di Cygnus e Druella Black nel Buckinghamshire, precisamente a Cliveden House.
5. Anche qui, nulla di nuovo. Il corvo compare nell’emblema di famiglia dei Lestrange.

 

Nel capitolo di oggi (il più lungo scritto sinora, tra l’altro) ho cercato di mostrarvi il rapporto tra zia e nipote, che ho sempre considerato come un rapporto a sé rispetto a qualsiasi altro all’interno della famiglia Black, un po' l'antitesi di quello tra Alphard e Sirius, se vogliamo. Spero che vi sia arrivato qualcosa di quello che è il mio pensiero. Non ho potuto fare a meno di inserire qualche piccolo riferimento ai Rosier e ai Lestrange, due famiglie che amo molto — come molti di voi sanno. 

A domani ♥︎

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Capitolo 20
*** XX. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 20;
multitarian (avere molte forme ma una sola essenza);
❨ Narcissa Black ❩.

 

Ha una maschera per ogni occasione, Narcissa. 

 

Ha una maschera per sua madre, quando la chiama nel salottino per insegnarle le buone maniere, come versare correttamente il tè e servire i pasticcini alle signore, come amministrare una magione, come trattare la servitù, come essere una moglie docile e una madre attenta; quando va in camera sua e le sceglie il vestito giusto e le giuste scarpe dal suo armadio, gliele sistema sul letto e sul tappeto e le dice “metti questi, tesoro mio”; quando si complimenta con lei per essersi comportata egregiamente per tutto il tempo e averla resa fiera; quando trattiene le lacrime a stento, accucciata a terra in un angolo della sua camera da letto, le ginocchia strette al petto, e Narcissa si china per carezzarle la pelle nuda, e poi chiama Andromeda e insieme la fanno entrare nella vasca da bagno piena d’acqua dove il sangue cola via e finisce nello scarico insieme alle lacrime, e poi la mettono a letto, rimboccandole il piumone fin sotto il mento; quando guarda sua madre, improvvisamente così piccola e così indifesa, dormire stringendosi nelle sue stesse braccia per timore di sentirsi afferrata ancora una volta, le labbra che tremano. 

 

Ha una maschera per suo padre quando, alla fine di ogni anno scolastico, la prende da parte e le dice che ha fatto davvero un ottimo lavoro, a Hogwarts, e che è contento dei suoi voti; quando lo trova seduto in salotto, nella sua solita poltrona, a leggere la Gazzetta o un qualche libro dei suoi, gli occhiali sul naso, e lui se li toglie, chiedendole di continuare la lettura per lui “così almeno impari qualcosa nel mentre”; quando lo sente urlare nel cuore della notte e allora si copre le orecchie con le mani, e il mattino dopo fa finta di niente, sedendosi al tavolo della colazione come se niente fosse; quando rimprovera Andromeda per qualcosa che ha fatto (o meglio, non ha fatto) durante un ritrovo della buona società Purosangue, e Narcissa fa finta di non esistere seduta in cima alle scale; quando sa cosa sta facendo dietro una porta chiusa, con sua madre, e tutte loro cercano rifugio da qualche parte che non sia il piano di sopra, tutto ma non il piano di sopra, perché lì i colpi si sentono più forti, e Narcissa non vuole sentire, no, non vuole.

 

Ha una maschera per sua sorella Bellatrix, quando le tira i capelli o le stropiccia i vestiti appena indossati o le fa sparire i disegni, che poi magari spuntano fuori tutti pasticciati da qualche altra parte, in salotto oppure affumicati nel caminetto o in giardino durante un temporale; quando a Hogwarts non le permette di girare con lei e i suoi amici “perché sei piccola, Cissy, e noi siamo grandi”; quando la prende in giro per i suoi gioielli e i suoi modi graziosi e tranquilli da “brava bambina”; quando le sussurra che prima o poi le cose sarebbero cambiate e allora il mondo avrebbe assaggiato la potenza dei Black, e Narcissa fa finta di non ascoltare; quando si apparta con Rodolphus e la lascia sola, quando in realtà lei è stata mandata con loro per non perderli di vista, ma Narcissa vuole solo scappare e non doverli vedere sbaciucchiarsi in sua presenza, con Lestrange che le mette le mani ovunque e Bella con la sua lingua biforcuta sempre incastrata dentro la bocca di lui (a Narcissa ripugnano); quando le urla che suo marito è un “pusillanime e un buono a niente”, una vergogna per il suo casato e per la loro Causa; quando Bella muore, dopo che Narcissa ha voltato le spalle a tutti loro, e non una singola incrinatura scalfisce la sua maschera, e lei continua a stringere suo marito e suo figlio, immune alla corrente. 

 

Ha una maschera per sua sorella Andromeda, quando l’abbraccia forte dopo un incubo e “tutto andrà bene, Cissy, sta’ tranquilla”, e il suo abbraccio sa di casa e di sapone; quando gioca con lei e le sue bambole e fanno finta di bere il tè nella nursery, e ridono a crepapelle quando finiscono per versare tutto il tè (l’acqua che fingevano fosse tè) sul tappeto; quando passeggiano nel roseto e raggiungono il fondo del giardino e si fermano davanti al cespuglio di rose preferito di Andromeda, e siedono su una panchina e sua sorella le chiede di Lucius, e allora Narcissa, anche se timidamente all’inizio (e non ce n’è affatto motivo) le racconta ogni cosa (è stata la prima persona a sapere che Lucius l’ha baciata, un pomeriggio di dicembre, durante l’annuale festa di Natale a casa Rosier); quando se ne va, e Narcissa la guarda andarsene ma i suoi occhi non la vedono nemmeno, è come se Andromeda non sia neanche lì, e improvvisamente non c’è più1; quando viene a sapere della nascita di Ninfadora e tutto quello che vuole è correre da lei e abbracciarla e sapere come stia, ma il suo dannato orgoglio di Black la tiene ancorata lì, ferma e testarda, la lettera che sua madre le ha mandato per annunciarglielo (e criticare) stretta tra le mani tremanti al tavolo della colazione, mentre Lucius legge il giornale come al solito e il tè si raffredda nella tazza; quando Ted Tonks muore e Narcissa pensa a sua sorella per tutta la notte, piangendo silenziosa, singhiozzando per lei e con lei, sola in una casa vuota, con sua figlia lontana e in pericolo; quando la guerra finisce e lei trova il coraggio per andare, per cercarla e abbracciarla, e chiederle scusa, infinite volte scusa. 

 

Ha una maschera per suo marito Lucius, quando è troppo stanca per replicare; quando non ce la fa più a resistere; quando la sua testardaggine la fa diventare matta; quando si ostina a percorrere la strada scelta, anche a costo di perdere tutto; quando si affanna per essere sempre il primo, sempre in prima fila, sempre il migliore, sempre il più meritevole e il più fedele, e tutto ciò che ottiene sono solo spicci, Zellini rubati al tempo e ad una cieca fedeltà che puzza di muffa; quando è stanco e stressato e scatta per un nonnulla, e litigano furiosamente, e se ne vanno sbattendo porte, vere e astratte; quando fanno pace nel loro letto, stretti l’uno all’altra, e fanno l’amore anche se sono stanchi e i lividi di Lucius fanno male laddove la bacchetta del suo Signore ha ferito più in profondità e più duramente; quando lo culla fino al mattino, la sua testa in grembo, e piange silenziosa, ché non vuole che lui la veda e si preoccupi, deve tenere duro non solo per Lucius, ma per tutti loro, come famiglia; quando lui sconta la sua pena alla fine, e ciò che lei ha fatto lo salva forse dal trascorrere il resto della sua vita ad Azkaban, “ché il tuo aiuto non sarà dimenticato, Narcissa Malfoy”. 

 

Ha una maschera per suo figlio Draco, quando sente di doverlo proteggere da quel mondo feroce che vuole inghiottirlo e annientarlo; quando soffre e non sa come alleviare il suo dolore, ché vorrebbe solo prenderne un po’ e farlo suo, toglierglielo come si fa con una spina che ti tormenta le carni ma tu non puoi arrivarci, ma non può, Narcissa, e non sa in che modo; quando lo sente singhiozzare nella sua stanza, scosso, tremante, assediato dai suoi stessi fantasmi, ma lui non le apre, lui la lascia fuori anche se lei bussa con insistenza, e allora si siede per terra, su quel pavimento gelido, la schiena contro la parete, e piange silenziosa così che lui non la senta, mentre l’impotenza di una madre che non può aiutare il figlio la scuote; quando lo vede combattere con se stesso ed esitare, scegliere se divenire un mostro per davvero oppure se lasciare la ferocia indietro, come un mantello smesso che in realtà non gli è mai appartenuto, e che tante, troppe, persone, hanno voluto fargli indossare a ogni costo, privandolo della sua identità, solo per il nome che possiede; quando alla fine sceglie la luce, e ricambia il suo stretto abbraccio sul pavimento sporco di sangue e lacrime e polvere, e non esiste nessun altro oltre che loro; quando si sposa e Narcissa lo vede felice, felice per davvero, mentre Astoria Greengrass lo raggiunge all’altare a casa Malfoy, la pancia già arrotondata, e che scandalo sarebbe stato, se la vecchia società Purosangue fosse stata ancora in auge; quando lo vede tenere in braccio suo figlio, che è uguale a lui quand’è nato, piccolo e caldo e rosa, lana bianca in testa e occhi come i ghiacci; quando Scorpius muove i primi passi nel salotto e tutta la casa vive di nuovo, aprendosi al sole e alla gioia; quando lo vede spezzarsi un’altra volta, l’ennesima, davanti al cadavere di sua moglie adagiato nel loro letto, il corpo magro e spento, la pelle grigia dopo la lunga malattia, la mano ancora stretta in quella del marito; quando guardano la bara calare nella terra, nella tomba di famiglia dei Malfoy, e quel giorno piove e tutto il cielo piange con loro e per loro; quando gli vede tornare il sorriso in viso, un’estate all’improvviso, mentre lui e Scorpius giocano a Quidditch in giardino, e poi atterrano dalle scope, sudati ma felici, e la raggiungono per una limonata fresca. 

 

Alla fine della guerra, Narcissa scopre che tutte quelle maschere l’hanno protetta, e l’hanno aiutata a reggere in mezzo alla tempesta. Come un’armatura. Ma ora che l'oscurità è sparita, forse è finalmente libera di essere se stessa, solo se stessa, e di scoprire qual è la sua vera essenza2.  

 

Le maschere cadono. 

 

[ 1602 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


❨ note ❩

1. Avete letto qui della reazione di Narcissa alla partenza di Andromeda.
2. Questo passaggio riprende il capitolo 15, sempre su Narcissa, che trovate qui.

 

Allora, ammetto di aver scritto questo capitolo molto di corsa, ieri, tra una roba e l’altra, quindi non so effettivamente cosa ne sia venuto fuori. Credo che sia una ripresa del capitolo 15 che vi ho linkato sopra, sotto molti aspetti sono speculari, la protagonista è sempre Narcissa e si parla sempre di come lei si ritrovi ad affrontare la società che la circonda. Per praticità ho preferito soffermarmi su queste sei figure della sua vita, senza andare ad approfondire e toccare nessun altro rapporto, per evitare di allungare il brodo. Spero che anche l’aggiornamento di oggi vi sia piaciuto. Dalla regia, si barcolla ma non si molla. 

 

A domani ♥︎

Ps vi lascio il mio contatto Instagram, se vi va potete seguirmi anche lì.

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Capitolo 21
*** XXI. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 21;
noctiphobia (paura della notte, dell’oscurità);
❨ Regulus Black ❩.

 

Regulus stringe forte il cuscino. La notte è piena di ombre. La sua stanza diventa una terra straniera colma di mostri e fantasmi. Chiede a Walburga di lasciargli una candela accesa sul comodino. Sua madre annuisce e sorride, baciandogli la fronte. 

 

 

Regulus fissa la porta laddove fino ad un attimo prima stava suo fratello. Se n’è andato1. Nell’ingresso cominciano ad addensarsi le ombre. Si alza e fila in camera sua a passo lesto. Chissà se le ombre lo seguiranno fin là? Forse se chiude bene la porta non entreranno. 

 

Sente bussare mentre è già a letto. Suo padre spunta all’interno e Regulus è stupito dalla sua presenza. È sempre stato inconsistente, Orion. Non è mai stato capito, né da sua moglie né dai suoi figli. Regulus si è sempre chiesto se fosse silenzioso per scelta o perché costretto. Forse entrambe le cose. “Posso?” Chiede, e sembra quasi timido. Regulus annuisce, e suo padre viene a sedersi sul bordo del suo letto, dove l’ha visto solo poche altre volte, quand’era bambino. 

 

“Se n’è andato, quindi.”

Regulus sa benissimo di chi parla. “Già.”

“La casa sarà un po’ più vuota ora.” 

“Ho paura di sì.”

Silenzio.

“La mamma è tanto arrabbiata?”

Orion scrolla le spalle. “Le passerà. Col tempo. Forse.” Ha già più di qualche filo bianco nei capelli, Orion, e Regulus si chiede quand’è che è cominciato. 

 

“Le sei rimasto solo tu, Regulus.”

Questa consapevolezza gli schiaccia il petto e non sa nemmeno perché. Sente le ombre infittirsi tutt’intorno. 

“Non deluderla, d’accordo?”

Non può chiederglielo. Suo padre non può chiedergli tanto. Regulus non ne è certo, non può esserlo. 

Orion si alza e sospira. Sembra stanco. Regulus intravede un livido violaceo sul suo polso. Non fa domande di cui in verità ha sempre avuto una risposta. 

 

“Spengo la candela?”

Regulus scuote la testa. “No, per favore.”

“Hai ancora paura del buio?” Non c’è rimprovero, e non c’è ironia. Regulus annuisce senza parlare. 

Orion annuisce a sua volta. “Okay. Non preoccuparti. Te la lascio qui.”

Si dirige alla porta, ma si ferma poco prima di uscire. “Regulus?”

“Sì?”

“Anche io ne ho ancora paura.” Non aggiunge altro ed esce. 

 

Regulus pensa che non hanno mai parlato così tanto da tempo. 

 

 

C’è solo buio, in quella grotta. Buio, freddo, solitudine. Regulus non ha paura di ciò che sta per fare, ha paura di ciò che lo circonderà, ha paura di ciò che si annida nelle tenebre. Ha imparato a guardarci dentro, ha nuotato nelle loro profondità per anni, in quell’ammasso di ombre che era il suo mondo, la sua intera esistenza, la vita che conduceva al numero dodici, sì, ma anche fuori da esso. Non è mai stato davvero felice, Regulus. O almeno, poche volte. Sì, forse in qualche occasione, quando lui e Sirius erano piccoli e non sapevano cosa volesse dire soffrire — non sapevano cosa volesse dire vivere con quel peso addosso, con quell’ombra che ti navigava dentro, consumandoti, come una maledizione che nessuno avrebbe mai potuto spezzare. Per cui, Regulus non ha davvero paura, ha solo paura del buio, come sempre da quando era bambino e chiedeva a sua madre di lasciargli accesa una candela prima di andare. Ora è solo, e c’è solo acqua intorno, placida e pesante come olio scuro. Vede degli occhi acquattati nelle sue profondità, occhi che lo aspettano, occhi che lo cercano, mani protese ad afferrarlo e trascinarlo con sé. Sa che non c’è via d’uscita. È un viaggio di sola andata, questo. Ma continua ad andare avanti, a penetrare sempre di più nella notte nera. Ripensa a tutta la sua vita, ed è formata da tanti piccoli flash di colore: il verde delle tende del suo baldacchino in Serpeverde, ma anche il verde del campo da Quidditch, e il verde dei suoi occhi quando ogni tanto sorride; il rosso del maglione di Grifondoro quella volta che Sirius lo ha indossato al pranzo di famiglia per far arrabbiare Walburga, ma anche il rosso del sangue, e il rosso delle decorazioni di Natale in Sala Grande; il giallo dei capelli di Barty, biondo come miele, quando metteva la sua testa sul suo grembo e Regulus lo accarezzava piano e fuori pioveva, ma anche il giallo dei campi di grano in campagna, e del sole che ti batte sulla testa mentre ti bagni i piedi al ruscello; l’azzurro degli occhi di Josephine2 quando le ha fatto promettere di badare a Sirius, e di prendersi cura l’uno dell’altra, sulla porta di casa di suo fratello, quando l’ha vista l’ultima volta e lei piangeva, piangeva perché sapeva che qualcosa stava per succedere, e lei lo ha sempre capito, anche se non si sono mai amati (come potevano?), ma anche l’azzurro del cielo quando la primavera fa capolino a Hogwarts, e l’azzurro del mare della Cornovaglia a casa Greengrass3. Ora ogni luce è sparita, ogni colore è stato inghiottito dall’oscurità. C’è solo buio tutt’intorno. Regulus ha paura. E questa volta non c’è nessuna candela che rimarrà accesa sul comodino. Regulus ha paura, ma non si ferma. 

 

[ 835 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

1. Questo rimanda alla partenza di Sirius da Grimmauld Place, di cui avete letto qui, nel capitolo 6, ma anche qui, nel capitolo 14.
2. Josephine Greengrass l’avete conosciuta qui, vi ricordate?
3. Ho immaginato che i Greengrass possedessero una casa al mare in Cornovaglia e che i Black fossero spesso loro ospiti, visto e considerato l’accordo prematrimoniale tra Regulus e Josephine e le loro connessioni tra famiglie nella società Purosangue. 

 

Lo so, lo so. Per favore, non odiatemi. Secondo me sapevate che questo giorno sarebbe giunto. Dite la verità. Non ho granché da specificare in merito, tranne che ho lasciato un indizio su “qualcosa” che leggerete più avanti 👁

A domani ♥︎

 

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Capitolo 22
*** XXII. ***


Avvertenza: in questa shot compaiono dei riferimenti a “The Cursed Child”, ma nulla di incomprensible.

 



 

in the name of the Black.

 

Giorno 22;
louche (disdicevole, moralmente indubbio);
❨ Bellatrix/Voldemort ❩.

 

Bellatrix è stesa nel letto a Malfoy Manor e la notte preme dietro i vetri, ma lei la ignora. Si è appena svegliata, e qualcuno le ha messo addosso una camicia da notte pulita, e l’ha ripulita dal sangue, e ha cambiato le lenzuola. La finestra è leggermente scostata e si sente il profumo del glicine che è fiorito da poco sul muro all’esterno. Sua sorella Narcissa è seduta su una poltrona accanto al letto, la testa poggiata sul palmo della mano. Sta sonnecchiando, ma sente subito che si è risvegliata. 

“Bella?” La chiama. “Come stai?”

“Voglio vederlo,” Bellatrix esclama, tirandosi su a sedere. Le gira un po’ la testa ma non le importa. Vuole solo vedere suo figlio. “Dove sta?”

Narcissa si è alzata in piedi, intanto, e cerca di sospingerla nuovamente sui cuscini. “Tra poco, non temere. Prima facciamo entrare la Guaritrice così vediamo come stai, d’accordo?”

“Per Salazar!” Bella urla, ora. Narcissa sobbalza leggermente, come se si sia spaventata. “Basta cazzate, voglio vedere mio figlio ora. Subito.”

“Bella, ti devi calmare.” Sua sorella è stanchissima, se ne rende conto. Era con lei al momento del parto, e forse è stata con lei tutto il tempo anche dopo. Ma deve vedere suo figlio, ha bisogno di vederlo, e non gliele frega niente di Narcissa come di chiunque altro. “Sei ancora debole. E poi devi sapere una cosa, prima.”

Gli occhi di Bellatrix saettano sul viso tirato della sorella. “Cosa?” chiede. Quando dall’altra parte c’è solo silenzio, lei rincara la dose. “Narcissa… Cosa devo sapere?”

“È una femmina. È una femmina, Bella.” 

Bellatrix guarda l’altra in viso senza capire. No. Ha promesso che gli avrebbe dato un maschio, un maschio che avrebbe tramandato la sua eredità nei secoli a venire.

“Cosa… Lui lo sa?”

Narcissa annuisce. “È stato il secondo a tenerla in braccio dopo la Guaritrice. Le ha sussurrato qualcosa, non so cosa, nessuno ha udito o anche solo osato ascoltare.”

Bellatrix chiude un attimo gli occhi. Lui lo sa, allora. Bene. Non sarà lei a doverglielo dire. Si chiede dove sia. Si chiede come abbia preso la notizia. 

Prima che una delle due possa aprire bocca, la porta si spalanca. Entrambe voltano la testa di scatto: Lord Voldemort è lì, entra nella stanza a grandi passi, e tra le braccia stringe sua figlia. Bellatrix sente il cuore uscirle dalla cassa toracica. Il pensiero corre subito a Rodolphus, si chiede come stia ora che è successo, ma cerca di tenerlo fuori. È debole, e non è detto che riesca a chiudere la mente davanti al suo Signore, e non vuole che lui rintracci la presenza ingombrante di Rodolphus tra i suoi pensieri vorticanti. 

Narcissa china il capo, silenziosa e mansueta. Voldemort si ferma accanto al letto, sul viso un ghigno indecifrabile. 

“Mio signore…” inizia Bellatrix. L’involto che tiene tra le braccia sembra piccolissimo. Bella vorrebbe allungare le braccia e prenderlo, perché è curiosa, perché vuole guardare in viso il prodotto della loro unione. Non perché si senta madre, no, non è nata per esserlo e non lo sarà mai. Il suo ventre era un deserto sterile prima che Voldemort operasse le sue magie e facesse i suoi incantesimi. Magia antica, così le ha detto sua madre Druella, che ha aiutato a praticare il rito. 

“Narcissa, lasciaci.” 

Narcissa rivolge un’ultima occhiata a Bella, non guarda Voldemort negli occhi (quasi nessuno lo fa), e poi esce, chiudendosi la porta alle spalle. Ora sono soli. Le labbra di Bellatrix si distendono in un sorriso felino. 

“Vorresti tenerla, Bella? Vorresti conoscerla?” 

Annuisce. “Sì, per favore, sì.”

Voldemort sorride, ma non c’è nulla di vero in quel sorriso, che è solo un ghigno dipinto e nulla più. Le tende la bambina e Bellatrix si sporge, l’afferra e se la porta al petto. È bellissima, i suoi occhioni grigi sono spalancati e la fissano, sembrano guardarle dritto nell’animo. Bellatrix si chiede se i bambini riescano a praticare la Legilimanzia pur non essendone consapevoli.

“No,” Lui le risponde. Le ha letto nella mente, ovvio. Lei ha lasciato cadere alcune delle sue difese. “Non possono, ovviamente. Ma nostra figlia è potente, chissà quali tipi di magia, e in quali quantità, cela dentro di sé.”

Bellatrix continua a guardarla negli occhi, ma tutto ciò che vi legge è il gelo. Non c’è tenerezza, al fondo di quegli occhi, non c’è innocenza. Gli occhi di sua figlia sono lo specchio dei suoi. Riflettono la stessa lontananza e lo stesso distacco. Bellatrix è già stufa, come un bambino quando si stanca presto dell’ultimo giocattolo ricevuto in regalo, ma cerca di portare pazienza. 

“Mi dispiace,” dice quindi, tenendo lo sguardo basso. “Mi dispiace avervi deluso, Mio Signore. Speravate in un maschio, e io non sono riuscita a darvelo. Tutto ciò che sono stata in grado di dare alla luce è una femmina, un’inutile femmina che—”

“Bella,” Lui la interrompe. Suona glaciale ma infastidito. “Ti ricordo che stai pur sempre parlando di mia figlia.”

Lei china la testa ancor di più, e così facendo il suo naso sfiora la copertina con la quale è avvolta la piccola. Ne respira l’odore: sapone e fiori. Un chiaro segno del passaggio di sua sorella Narcissa. “Chiedo venia.” 

Improvvisamente, sua figlia la ripugna. Non riesce a starle vicino, non riesce a guardarla senza vedere il suo stesso fallimento, non riesce a credere che sia uscita da dentro di lei, che l’abbia tenuta in grembo per nove mesi e l’abbia nutrita con il suo stesso corpo. 

“Sei una donna, Bellatrix, eppure mi sei stata utile, in passato e ora, e sempre, eppure sei una strega potente e abile, eppure sei una tra i miei seguaci più fidati, cosa ti fa credere che mia figlia,” e rimarca quel possesso con forza, Lord Voldemort, “sia debole e ripugnante? Cosa ti fa credere che, in quanto donna, non sia degna di farmi da erede? È sangue del mio sangue, è sangue di Salazar Serpeverde, ed è sangue dei Black. Portale rispetto.”

“Sono prostrata,” Bellatrix sussurra. “Non accadrà più, ve lo giuro.”

“Sarà meglio. Non accetterò ulteriore insubordinazione da parte tua, siamo intesi? Lascio correre perché sei stanca, e la stanchezza ha parlato per te, e perché mi servi, Bellatrix Lestrange, altrimenti ti ricordo che nessuno è indispensabile, qui, tutti sono sostituibili.” 

Bellatrix annuisce. Come può aver messo in dubbio l’eredità del suo Signore? Come può aver anche solo dubitato di Lui? E di ciò che insieme hanno creato?

“Abbiamo creato qualcosa di perfetto, Bella. Da qualcosa di moralmente indubbio abbiamo creato la vita, abbiamo dato respiro a qualcosa di straordinario, colei che porterà avanti la mia eredità, colei che sarà al mio fianco quando il mio impero sarà finalmente realizzato, colei che mi riporterà indietro dovessi perdermi ancora una volta.” 

“Sono sicura che ne sarà degna, mio Signore.” 

“Ora dammela, abbiamo un sacco di cose da dirci, io e lei.”

Bellatrix allunga il fagotto che ancora teneva tra le braccia e Voldemort la prende con la sicurezza di chi reclama qualcosa che è suo, soltanto suo, e forse è davvero così. 

“Te l’ho detto, che sarebbe stato soltanto mio, Bella1. Non essere troppo sollevata, però.”

“Non sono nata per essere madre,” risponde lei, ritrovando un minimo della sua volontà e della sua sicurezza. Si aggira in territori conosciuti ora. 

“Lo so. Come mia madre.”

“E come la mia.”

Voldemort annuisce. “Anche l’unione dei tuoi genitori è qualcosa di disdicevole, Bella. Lo so cosa fa Cygnus Black quando gli invitati se ne vanno e le porte si chiudono.”

Bella sente il cuore pomparle a mille nel petto. Era ovvio che sapesse. Voldemort sa ogni cosa. 

Eppure. Eppure sei nata tu. Una strega abile e potente. Cerca di essere più paziente con chi ti ha dato alla luce, se vuoi che Delphini lo sia con te.”

Delphini? Si chiama Delphini?” Chiede, spalancando gli occhi scuri. 

Voldemort sorride un’ultima volta e, senza rispondere, lascia la stanza.  

 

[ 1314 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

1. Qui c’è un rimando assolutamente voluto alla mia flashfic sui Bellamort, “demoni”, se avete voglia di leggerla vi lascio il link qui.


Allora allora, se qualche purista della Bellamort dovesse essere giunto fin qui e dovesse aver letto questo capitolo, be’, mi spiace avervi fatto sprecare tempo. Non c’è nulla di sentimentale e/o sessuale nel rapporto tra Bellatrix e Voldemort, nel mio personale headcanon: come ho fatto intendere anche in “demoni”, che ho linkato nella nota, il loro è un accordo di interesse reciproco, e nulla più. Bella provava una fortissima ammirazione, una vera e propria adorazione, per il suo Signore, ma l’amore? No, non penso che fosse innamorata. E men che meno che lo fosse Voldemort, che per primo disprezzava l’amore in ogni sua forma. Qui leggete di un Voldemort stranamente protettivo (?) verso Delphini, ma solo perché sua figlia è cosa sua, e sappiamo quanto fosse attaccato alle sue cose. Poi voglio chiarire che ognuno è liberissimo di pensarla come vuole, ci mancherebbe, io vi sto solo illustrando il mio personale punto di vista sulla faccenda. Anche per quanto riguarda il concepimento di Delphini, vi ho proposto la mia idea, cioè che non sia avvenuto naturalmente ma attraverso un rito magico antico, e che Bellatrix fosse sterile. Ci tenevo a dirvi la mia in merito, scusate per le note lunghissime. Fatemi sapere come sempre cosa ne pensate.

 

A domani (con una piccola flash stranamente “leggera”) ♥︎

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Capitolo 23
*** XXIII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 23;
appuntamento;
❨ Narcissa/Lucius ❩.

 

Narcissa è nervosa. Si guarda e si riguarda nel lungo specchio verticale in camera sua. Analizza il suo corpo con solo addosso una sottoveste leggera, e si passa le mani sul ventre per saggiarne la piattezza, e sulle braccia per verificare che non siano né troppo grosse né troppo esili, e sul seno per controllare quanto sia pieno. Sua madre le ha sempre detto quanto fosse importante curare il proprio corpo e il proprio aspetto, per assicurarsi di trovare un buon partito tra i rampolli Purosangue prima, e per evitare di far scappare il proprio fidanzato e marito nel letto di altre poi. Druella fa bagni speciali con speciali saponi, idrata la pelle con unguenti profumati e odiosi, pettina i lunghi capelli scuri tutte le sere prima di dormire, seduta al tavolino da toilette nella sua stanza. Narcissa ha sempre cercato di sorbire quanto più poteva, e adesso, guardandosi, si sente almeno mediamente soddisfatta di ciò che vede. Non che Lucius Malfoy arriverà a tanto da spogliarla al loro primo appuntamento dopo il fidanzamento ufficiale, certo che no, è un gentiluomo, lui, ma vuole essere sicura in ogni caso. Sceglie il vestito bianco che è certa le stia bene. I capelli li lascia così, sciolti sulle spalle come una cascata d’oro. Esce a piedi scalzi. 

 

 

È al fondo del giardino con le sue sorelle quando sente la voce di sua madre. La sta chiamando, e Narcissa capisce che dev’essere arrivato Lucius. Dentro di lei si annida l’agitazione, ora. Si incammina, e Bellatrix e Andromeda le vanno dietro, ridacchiando. È un giorno d’estate e il sole si riflette sul bianco del suo vestito, spargendosi poi sull’acqua della fontana come polvere di fata. Lucius le sorride quando la vede arrivare e Narcissa ha ancora le mani sporche del succo rosso delle bacche che ha mangiato poco prima. Le nasconde dietro la schiena. Lucius è bellissimo, profuso d’oro e di un antico splendore proprio solo agli dei. Narcissa capisce di esserne innamorata, proprio lì, proprio in quel momento. Il suo sorriso è come un bel ricordo che lei vuole conservare, qualcosa che sente di voler preservare a tutti i costi. Quando rimangono soli, lui raccoglie un fiore da terra: uno dei gladioli che Andromeda ha intrecciato ai suoi capelli1

 

[ 376 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 


❨ note ❩

1. La seconda parte della flash fa riferimento alla mia “Golden Hour”, se volete leggerla vi lasco il link qui.

Come anticipato ieri, ecco qui una piccola flash stranamente leggera. Dico “stranamente” perché questa raccolta ha assunto fin da dubito contorni e sfumature noir e cupe, e qui invece c’è solo luce. Ogni tanto ci sta.

A domani e grazie a tutti voi che continuate a seguirmi ♥︎

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Capitolo 24
*** XXIV. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 24;
kaira (un grande spazio boscoso tra i fiumi);
❨ Bellatrix/Rodolphus ❩.

 

C’è uno spazio in mezzo agli alberi, tra due fiumi che scorrono paralleli, c’è uno spazio dove Bellatrix Black e Rodolphus Lestrange si fermano, respirano, esistono. Lì possono essere semplicemente Bellatrix e Rodolphus, senza orpelli, senza cognomi altisonanti di eredità pesanti, senza aspettative. Siedono con la schiena poggiata ad un tronco, e a volte parlano, parlano per ore, finché il sole comincia a calare e devono rientrare, anche se nessuno li verrà a cercare, mentre altre volte stanno in silenzio e basta, solo in silenzio, le dita intrecciate. C’è pace, lì, una pace che sanno essere effimera, una pace che stride con il fuoco che brucia dentro entrambi, ma una pace che sentono di voler rincorrere, finché ce n’è, finché dura. Nuvole nere sono alle porte, ma c’è uno spazio in mezzo agli alberi, tra due fiumi che scorrono paralleli, ed è lì che Bellatrix e Rodolphus semplicemente vivono. 

 

[ 149 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎


 

❨ note ❩

Doppia drabble velocissima, oggi. Questo prompt è uscito così, breve ma intenso. Un piccolo spaccato di ciò che Rod e Bella hanno condiviso, secondo me. 

A domani (ancora per qualche giorno) ♥︎

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Capitolo 25
*** XXV. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 25;
mazarine (un blu scuro);
❨ Andromeda/Ted ❩.

 

Blu è il cielo d’inverno il giorno del loro matrimonio. Andromeda e Ted si sposano in una piccola chiesa a Londra, una fredda domenica mattina, e anche piuttosto di corsa. Andromeda indossa un vestito (blu) che ha trovato nell’armadio, Ted un vecchio completo che era stato di suo padre, e via. Fabian Prewett1 (il testimone di Ted1) li scorta sulla sua automobile Babbana1, e non fa altro che chiacchierare seduto sul sedile anteriore, vestito di tweed, i capelli rossi spettinati, e Andromeda è nervosa, intreccia le dita in grembo e sta zitta, e ad un certo punto Ted, seduto accanto a lei, le afferra una mano e la stringe nella sua, e il sorriso che si scambiano è silenzioso ma dice tutto, come hanno sempre detto tutto tutti i loro sorrisi. Ad aspettarli in chiesa c’è Cassandra Dolohov2 che, oltre ad essere cugina di Andromeda, è soprattutto una delle sue migliori amiche, ed è bellissima, vestita di verde scuro, una veletta nera a oscurarle il viso. Ha fatto tanto venendo lì, Andromeda se ne rende conto, e quando gliel’ha chiesto già sapeva quanto sarebbe stato difficile per lei, ma Cassandra è lì, e le sorride, e le stringe la mano quando si incontrano sulle scale. La cerimonia è veloce, i “sì” vengono consumati in fretta come su richiesta degli interessati. Il bacio che gli sposi si scambiano è lieve, molto diverso dai loro soliti baci, ma ad Andromeda serve per regolarizzare il respiro e cacciare via il tumulto che sentiva dentro prima della cerimonia. Abbraccia Cassandra sulla porta, le sussurra che deve andare. “Grazie, Cass. Non lo dimenticherò mai,” sussurra Andromeda, le lacrime che premono agli angoli degli occhi.  Cassandra si alza la veletta. “Ti vorrò sempre bene, Dromeda. Sempre. Qualsiasi cosa accada, sei mia cugina, ma prima di tutto sei la mia migliore amica, ricordatelo.” Si abbracciano, e poi Cassandra scompare, scende veloce le scale e gira l’angolo, forse per Smaterializzarsi in qualche vicolo, di ritorno a casa. Ted la raggiunge e le prende la mano. “Stai bene?” Andromeda annuisce. Guarda suo marito negli occhi — sono blu. “Starò bene. Con te.” Ted la bacia di nuovo, questa volta a modo loro. 

 

[ 362 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

1. Sappiano molto poco di Fabian Prewett, quindi tutto ciò che leggete in queste poche righe è stato inventato da me.
2. Cassandra Dolohov è un personaggio di mia invenzione, figlia di Antonin Dolohov (il cui nome di battesimo è farina del mio sacco) e Daphne Rosier; anche Daphne Rosier è un personaggio di mia invenzione, è sorella maggiore di Druella, e sorella gemella di Damien, che ovviamente avete già conosciuto; il che vuol dire che Cassandra è nipote di Damien e Druella, ed è cugina di Andromeda, Bella e Narcissa. Scusate lo spiegone ma ci tenevo a farvi capire tutto.  Un giorno riuscirò a comporre un super albero genealogico LOL

Bene bene, ho poche cose da dire riguardo la flash di oggi, tranne che, come al solito, è piena zeppa di riferimenti al mio headcanon che non so manco quando vedranno la luce LOL scusate, ma è tutto talmente intricato che a volte mi scordo le cose pure io. 

AVVISO: vi anticipo una cosa, mentre sono in vena di “spiegoni”: i giorni 29-30-31 ottobre non sarò in Italia, quindi non potrò aggiornare questa raccolta, ma non temete, i capitoli arriveranno nei giorni successivi. Spero di riuscire a postare il giorno 28 in tempo, ce la metterò tutta, e vi anticipo che, nel caso in cui dovessi aver già scritto il giorno 29, lo pubblicherò insieme al 28, ma ancora non ve lo so dire, purtroppo. In ogni caso, i capitoli mancanti saranno regolarmente postati al mio ritorno, questa raccolta non rimarrà incompleta, prometto. Grazie per l’attenzione, vi aggiorno presto.

A domani ♥︎

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Capitolo 26
*** XXVI. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 26;
frammento;
❨ Sirius e James ❩.

 

L’ha appena fatta sviluppare, quella fotografia, Sirius. La tiene nella tasca dei pantaloni quando succede. James sorride con uno di quei sorrisi che ultimamente erano rari, ma che quando gli apparivano sul volto lo facevano sembrare più giovane di quanto già non fosse; Lily è seduta accanto a lui sul tappeto, i capelli rossi raccolti in un nodo scomposto dietro la nuca, il suo maglione verde preferito; Harry, piccolo e tondo, sta in mezzo a loro su un cuscino, e ride a bocca aperta perché James lo sta facendo giocare con un boccino d’oro. Sono belli, e giovani, e felici. E ignari. 

 

 

I contorni della foto sono tutti spiegazzati, ormai. I colori cominciano a sbiadire, anche se le immagini continuano a muoversi, per sempre cristallizzate in quell’istante. Ma almeno i suoi amici sono felici, almeno sono ancora vivi. Sirius può vivere nell’illusione che siano a casa, che respirino, e che vadano avanti come sempre, insieme. Si culla in quella malia che sa non essere reale, soprattutto nei giorni in cui è più lucido, ma che non può fare a meno di accettare come una vecchia amica quando giunge a offuscargli i pensieri. L’ha scattata lui, quella fotografia, e la conserva in tasca da allora. Azkaban non è luogo per i ricordi, ma sono i bei ricordi, i ricordi felici, che lo tengono vivo. È quella fotografia, anche se crepata e stropicciata e sbiadita, che gli fa credere che, un giorno, magari, quelle porte si apriranno e i muri cadranno, e lui potrà rivederli ancora. 

 

 

Non gliene rimane che un frammento, di quella fotografia, quando raggiunge la terraferma. Ha perso Lily ed Harry ma gli è rimasto James, che gli sorride ancora da quella carta ormai lacera. Dopo aver ritrovato Harry, Sirius tira fuori quel frammento, e lo guarda un’ultima volta, sorridendo. “Sta bene, amico mio. Sta bene, e finalmente siamo insieme. Ci prenderemo cura l’uno dell’altro. Te lo prometto.” Poi lascia cadere quel frammento giù dal ponte, nel Tamigi vorticante sotto una fitta pioggia estiva nel cuore della notte. Poi torna ad essere Felpato e corre via. 

 

[ 347 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

Non ho particolari note da scrivere, quest’oggi. Come avrete capito, questa breve flash si articola in tre momenti diversi, scanditi dalla presenza di una fotografia (o dei suoi frammenti): la sera della morte dei Potter, Sirius ad Azkaban, e Sirius dopo aver finalmente ritrovato Harry. Come vedete, i toni dark e malinconici sono sempre qui, onnipresenti, ormai contraddistinguono questa raccolta, ma penso lo abbiate inteso dopo tutti questi giorni. 

A domani come sempre ♥︎

 

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Capitolo 27
*** XXVII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 27;
petali;
❨ Bellatrix, Andromeda, Narcissa ❩.

 

Da quando Andromeda se n’è andata, tante cose sono cambiate. Al lungo tavolo ora siedono in quattro. Non c’è nessuno che cerca di fare conversazione durante le lunghe cene. Non si sente più quel tenue profumo di rosa quando scendi le scale. La sua spazzola non è più poggiata sul lavandino. La libreria di casa è in disordine. Nessuno rivolge più parole gentili a Trisha1, ringraziandola per il duro lavoro. Il suo posto preferito sul divano rimane vuoto, nessuno si siede neanche per sbaglio. L’ultimo libro che stava leggendo è ancora sul tavolino del salotto, il segnalibro a marcarne le pagine lette. La porta della sua stanza è chiusa, le tende alla finestra tirate. C’è un sottile strato di polvere sulla coperta ai piedi del letto, e sul comodino, e sullo scrittoio incastrato sotto la finestra. C’è ancora la sua vestaglia, dimenticata, poggiata sulla poltroncina nell’angolo, accanto alla porta. Alcuni vestiti sono rimasti appesi nell’armadio. Ci sono delle fotografie che non ha portato con sé, lasciate a sbiadire in un cassetto. C’è una lettera che ha scritto la sera prima di andarsene, e che ha lasciato sullo scrittoio, dentro una busta; fuori c’è scritto “per le mie sorelle”. Nessuna delle due l’ha ancora trovata. 

 

Anche la panchina al fondo del giardino è rimasta vuota, nessuno ci si è più seduto, nemmeno Narcissa, che era solita occuparla con Andromeda2

 

Il suo cespuglio di rose preferito ha perso tutti i petali, quel giorno. E non è più fiorito.

 

[ 246 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

1. Trisha è l’elfo domestico di casa Black che ho inventato io, l’avevo già inserita nel capitolo 18 ( link ).
2. Faccio riferimento al capitolo 20 ( link ).

Eccomi, oggi arrivo in super ritardo, ma sono stata di corsa tutto il giorno, e nel pomeriggio ho fatto alcune visite (per chi se lo sta chiedendo: tutto ok, grazie!). In ogni caso, eccomi. Vi ho proposto una piccola flash sulle sorelle Black, che vuole un pochino simboleggiare il vuoto che Andromeda si è lasciata dietro andandosene. Sapete che considero il rapporto fra le tre sorelle come qualcosa di più profondo e complicato di quello che ci ha proposto la Rowling che, continuo a dire, ha scritto dei personaggi bidimensionali, ma oltre a ciò che si legge nella saga c’è di più, e ormai avete capito che amo grattare la superficie per vedere cosa c’è sotto. 

Spero di riuscire a postare, domani! Sarà una corsa contro il tempo LOL ♥︎

 

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Capitolo 28
*** XXVIII. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 28;
toccare;
❨ Regulus/Barty ❩.

 

Tutto è iniziato con un tocco. Barty gli chiede di passargli un libro, mentre siedono in biblioteca e scrivono un tema di Pozioni uno e un tema di Trasfigurazione l’altro. Si sfiorano le dita e si guardano: gli occhi non mentono. Regulus legge le stesse cose, in quelli di Barty: attrazione, desiderio, paura. Fa i conti, viene a patti con se stesso, calcola le proporzioni, e capisce che le prime due prevalgono, e la paura perde. Sa quello che fa quando si alza dal tavolo e gli lancia un’occhiata programmata per attrarlo. Si guarda indietro ancora una volta prima di sparire dietro uno scaffale in fondo: Barty lo sta ancora guardando. Regulus attende paziente, fa finta di sfogliare un libro di cui neanche sa il titolo. Vede parole che non riesce a decifrare, non legge veramente ciò che ha davanti, a malapena sa leggere cos’ha nel cuore. Gli batte forte dentro il petto, però, quando si sente afferrare per la vita senza gentilezza. Il libro gli cade di mano, ma Barty lo afferra al volo. Lo infila nello scaffale dietro la testa di Regulus senza togliergli gli occhi di dosso. 

“Che vuoi fare, Black? Farci scoprire?” 

Regulus scuote la testa. Gli tremano le mani. 

Barty alza una delle sue e gli scosta un ricciolo di capelli scuri dalla fronte. Poi scende a toccargli le labbra, saggiandone la consistenza. Regulus sospira. 

“Posso?” Gli chiede Barty, lui che non chiede mai il permesso per fare nulla. 

Ora Regulus annuisce. Può fare solo quello. 

Quando le loro labbra si toccano è un po’ come morire. Regulus sente un ruggito salirgli da dentro, un impeto che non ha mai sentito prima gli attanaglia le viscere, e le gambe minacciano di cedergli. Barty è forte, però, Barty lo tiene, preme il suo corpo contro il suo, mentre le sue labbra non smettono di baciarlo. Regulus non sa cosa sta facendo, ma segue il flusso, segue il flusso di quel momento in cui gli sembra di morire e di volare, di salire verso cime inesplorate e insieme di cadere in abissi tetri e scuri. Si perde, sulle labbra di Barty, e dentro la bocca di Barty, quando l’altro la schiude per cercarlo, e ora i gemiti sommessi di entrambi riempiono l’aria. Regulus è sicuro che qualcuno li può sentire, ora, ma non gli importa. C’è solo Barty, e la sua lingua, e i suoi denti che lo mordono piano ma senza cerimonie. La gentilezza non è mai stata la più grande virtù di Bartemius Crouch Jr., e a Regulus sta bene così. 

Le sue mani sono intrecciate dietro il suo collo, giocherellano con i suoi capelli biondi, mentre Barty gli morde la carne tenera della spalla dopo avergli aperto la camicia. La sua  sinistra scende a toccare l’erezione che Regulus sente premere nei pantaloni, e Barty gli chiude la bocca con la destra quando lui geme più forte. Quel reparto è solitamente deserto, ma non possono permettere che qualcuno li scopra, soprattutto non in quello stato. 

“Sta’ zitto, okay? Ci sentiranno…” Barty sussurra leccandogli la clavicola. Intanto, la sua mano continua a palpeggiare Regulus attraverso la stoffa sottile dei pantaloni della divisa, su e giù, su e giù, mettendoci sempre più pressione, e Regulus sa che sta per morire. Lo sa e basta. 

“Barty…” inizia, ma non può continuare. Nasconde il viso nell’incavo del collo dell’altro, soffocando il suo piacere. Ora la mano di Barty è dentro i suoi pantaloni e circonda la sua erezione nella sua interezza, e Regulus morirà, ne è certo, morirà sotto quel tocco. Gli morde la pelle, incosciente ai lividi che appariranno, incosciente a tutto se non il piacere che lo invade. Il tocco di Barty è esperto, sa cosa fare e sa dove mettere pressione per dargli piacere. Regulus si sente tremare ora, le sue dita stringono forte dietro il collo di Barty mentre la sua mano è sempre più veloce, ha assunto un ritmo tutto suo che esplode quando Regulus raggiunge l’orgasmo, singhiozzando e gemendo nel collo di Barty, affondandogli i denti nella carne. Anche Barty geme, mentre la sua mano piano piano rallenta. 

“Reg,” inizia. “Stai bene?”

Regulus annuisce. Gli bacia il collo laddove gli ha lasciato il segno dei denti. “Scusa… Ti ho fatto male?”

Barty lo guarda ammiccando. “Mai. Anzi. Puoi rifarlo? Presto?” Ha una luce negli occhi che Regulus non gli ha mai visto: è una furia diversa da quella che lo assale quando parlano di Voldemort e dei suoi ideali, e di essere Serpeverde e Purosangue, è una furia che colpisce Regulus al basso ventre, mentre il suo orgasmo scivola via. Con un colpo di bacchetta, Barty sistema il casino dentro i pantaloni di Regulus. “Come nuovi.”

“Cos’abbiamo fatto, Barty?” 

Lo guarda appoggiarsi allo scaffale mentre, una mano dentro i pantaloni, sfoga la sua eccitazione da solo, i denti affondati nella carne tenera del labbro inferiore. Guarda Regulus per tutto il tempo, anche quando raggiunge l’orgasmo e geme in silenzio. Regulus vorrebbe toccarlo, vorrebbe allungare una mano e assaggiare, ma si trattiene. Non sa fino a che punto può osare. Dopo essersi ripulito, Barty lo fronteggia. Lo bacia lievemente sulle labbra, e Regulus è stupito da quel gesto. 

“Abbiamo fatto ciò che entrambi desideravamo da tempo.” 

Regulus sa che ha ragione. Forse si è accorto di aver desiderato Barty tutto quel tempo solo quando le loro mani si sono sfiorate. È stata come un’epifania. 

“Lo rifaremo, vero?”

Barty gli sorride furbescamente. “Certo. Tutte le volte che vuoi.”

“Voglio. Ti vorrò sempre.”

Si trovano a metà strada, si baciano senza fretta. Hanno dimenticato i temi che li attendono di là. Hanno perso importanza, se mai ne hanno avuta. 

“Mi hai, Reg. Mi hai.” Gli abbottona la camicia e lo prende per mano, trascinandolo via. Il suo tocco brucia. 

 

 

Sono stesi nel letto di Barty, a casa Crouch. Sono nudi e sudati. L’estate preme contro i vetri, calda e umida. Barty tiene la testa poggiata sul ventre di Regulus1, mentre Regulus gli accarezza i capelli biondi, che sono cresciuti durante l’ultimo mese. Ora sembra la testa di un angelo. 

“Sono contento che siamo insieme in missione,” Barty sussurra. Giocherella con le dita dell’altra mano di Regulus, contornandone le unghie dalla forma allungata, come una mandorla. “Sono più tranquillo se so che sei al mio fianco.”

Regulus sorride tra sé e sé. Le labbra gli si curvano. “Non ti facevo così, Crouch. Sei davvero innamorato di me, allora.” 

Barty gira lo sguardo, cerca gli occhi di Regulus e li trova. “Non lo sai?”

L’altro scuote la testa. Cosa non sa?

“Cosa non so?”

“Non lo sai che ti amo, Black? Pensavo fosse abbastanza chiaro…” 

Regulus deglutisce. Lo sa. È ovvio che lo sa, ma ciò che sta per fare, la portata di ciò che sta per compiere, gli ha impedito di pensarci, ché pensarci troppo avrebbe potuto distoglierlo dal suo intento, avrebbe potuto fargli cambiare idea. Barty potrebbe essere la sua unica ragione, l’unico paletto che potrebbe impedirgli di agire. L’unica persona che potrebbe trattenerlo. 

“Ti ho amato io, per primo, Crouch, non rubarmi il primato.”

“Non stiamo giocando a Quidditch, qui, puoi anche ammettere le tue sconfitte.”

“Sai che sono orgoglioso. È una cosa di famiglia, temo.”

Barty alza gli occhi al cielo. “Se non ti amassi così tanto probabilmente ne Crucerei la metà.”  

Regulus scrolla le spalle. “Hai il mio permesso, se vuoi. Non ti fermerò.”

“No, perché mi ami troppo.”

Sorride, Barty, ed è così raro vederlo sorridere, ma con lui sorride sempre, e sorride davvero. È così bello… Regulus sposta il suo sguardo sul suo corpo forte e giovane, nudo di fronte a lui. Non ne ha mai abbastanza di quel corpo. Il Marchio Nero risalta sul suo braccio, in mezzo a tutto quel bianco. È uguale al suo. 

Si china in avanti e lo bacia sulle labbra, e Barty lo afferra per il mento per approfondire quel contatto, mentre le loro lingue si allacciano furiose, e dalle loro gole sgorgano alti gemiti. Sono soli in casa, nessuno li sentirà. 

“Quello che facciamo è pericoloso,” Regulus sussurra, leccandogli il labbro inferiore. 

“Lo so.”

“Sai che nessuno lo deve sapere, vero? Finiremmo nei guai.” 

“Sta’ tranquillo, chiudo sempre la mente. Nessuno sa niente.”

Regulus sorride. Si fida di Barty. E non vuole che la sua posizione nei Mangiamorte venga messa in dubbio a causa sua. Non può permettere che Barty ci rimetta. 

“Quindi mi ami.”

“Quindi ti amo,” Barty annuisce. “Quindi mi ami.”

Regulus sorride. Quel momento puzza dannatamente di ultima volta. Ma sorride. “Quindi ti amo.”

 

[ 1423 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

1. Rimando al capitolo 21 ( link ). 

Ebbene. Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto, per quanto mi riguarda è uno dei miei preferiti: questi due sono così tragici e belli che mi fanno impazzire. Tra Regulus e Barty c’è un vero sentimento, come avete letto. Sono uno la debolezza dell’altro, e Regulus lo sa, quando pensa che Barty potrebbe essere l’unico a fermarlo, se solo sapesse cos’ha intenzione di fare. 

Scusate per le note frettolose ma sono di corsa. Non penso di riuscire a postarvi il capitolo 29 già oggi, , come speravo, visto che non l’ho ancora scritto. A questo punto ci rivediamo dopo il 31 quando completerò questa raccolta. 

A presto e grazie come sempre perché continuate a segurmi in questa pazzia ♥︎

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Capitolo 29
*** XXIX. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 29;
hukka (lupo);
❨ Sirius/Remus ❩. 

 

Sirius non sa cosa fare quando perde Remus, quando non ci sono più lividi da accarezzare e bagni da preparare e letti da occupare. Forse la sua vita era quello, e adesso è solo un po’ più vuota. Si chiede chi ora abbraccerà Remus e caccerà via gli incubi, chi gli aprirà la porta quando tornerà dopo la luna piena, chi gli sussurrerà all’orecchio “andrà tutto bene”. Quindi, quello che hanno deciso di finire non è mai iniziato davvero? Era solo frutto del momento, di un sogno che entrambi hanno condiviso ma che puzzava di illusione? Hanno confuso l’amore con quel fuoco che accendeva entrambi e che si esauriva sempre in grandi incendi? Erano solo persi, e illusi, e sciocchi1
 

 

Un altro corpo gli giace di fianco, ora, ed è così diverso, tutto diverso.  Ogni curva, ogni anfratto, ogni sporgenza. Non pensa che ciò che provava per Remus fosse amore, ciò che prova adesso lo è, ma se allora adesso ama Jo2, vuol dire che amava anche Remus. Sì, lo amava. Si chiede dove sia quel lupo tormentato, e dove stia cacciando i suoi fantasmi, in quali boschi e in quali incubi. Jo si rigira piano nel letto, le molle cigolano, e il suo calore lo raggiunge. Sirius nasconde il viso nel suo collo e respira la notte. 
 

[ 218 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

1. Rimando alla mia shot “you drew stars around my scars”.
2. Jo come Josephine Greengrass, l’avete conosciuta qui.


Ri-eccomi qui ad aggiornare questa raccolta! Scusate per l’attesa, ma come vi dicevo non ero in Italia, e ieri quando sono rientrata ero troppo stanca per riuscire ad elaborare un pensiero LOL Non sono molto convinta di questa doppia drabble, sinceramente, avevo tante aspettative su questo prompt abbinato alla Wolfstar ma non sono riuscita a metterle su carta 😔 spero di riuscire a proseguire la raccolta nei prossimi giorni, mi mancano il giorno 30 e 31, ma siccome oggi ho iniziato il nuovo lavoro, devo ancora prendere il ritmo con tutto quanto. Però non temete, la raccolta troverà una conclusione in questi giorni come promesso, niente attese 😎 

 

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Capitolo 30
*** XXX. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 30;
hiraeth (una nostalgia per un luogo perduto, o una persona, dove non si può più fare ritorno);

❨ Andromeda ❩. 

 

Clivedon House1 è spoglia. È ridotta ad un ammasso di pietre e foglie e decadenti ombre del passato. Ormai non è rimasto più nulla. Forse è già così da tempo. 

 

Andromeda alza lo sguardo sui camini e le finestre a est. La porta d’ingresso è sbarrata. Il giardino è invaso dai rovi e dalle erbacce cresciute nel corso di quell’abbandono. La tenuta è passata a Draco, il primo erede maschio, ma Draco non l’ha mai voluta. Le ha raccontato che non ha passato momenti felici lì dentro, da bambino. “Non ho intenzione di rimetterci piede, zia Andromeda,” così ha detto. Ha preso a chiamarla “zia” ad un certo punto. Andromeda non ha mai protestato. Draco ha già lasciato tutto a suo figlio Scorpius e alla moglie Rose, ma Scorpius non sembra intenzionato a voler prendere una decisione nel breve periodo. 

 

Nell’aria si sente odore di bruciato, probabilmente qualche contadino Babbano sta bruciando delle sterpaglie poco lontano. La campagna profuma di umidità e autunno. Il terreno sotto i suoi piedi è scivoloso, e Andromeda stringe più forte il bastone. Si è fatta accompagnare nel Buckinghamshire dai suoi bis-nipoti, che ora attendono seduti su una panchina lì vicino, abbastanza scostati da lasciarle un po’ di privacy, ma a portata d’orecchio nel caso abbia bisogno di loro. Andromeda2, che è stata chiamata così per lei, indossa un grazioso baschetto sulla testa bionda, e un paio di calze a rete e degli anfibi che le ricordano Dora, e mastica una gomma con la stessa tenacia; il suo gemello Arthur2, che però tutti in famiglia chiamano semplicemente Artie, ha gli stessi capelli ricci di suo padre Teddy, e gli occhi buoni del nonno che non ha mai conosciuto. L’aspettano pazienti. Sono molti cari, con lei. 

 

Andromeda non avrebbe mai immaginato di arrivare a 90 anni ed essere ancora così lucida. Certo, ha i suoi momenti di confusione, com’è naturale, ma ricorda ancora tutto — o almeno, quasi tutto. Non torna a Clivedon House da così tanto tempo… Sembra ieri che ha raccolto la sua roba ed è uscita da quella porta. Ricorda ancora gli occhi di suo padre Cygnus che le bucavano la schiena, e le lacrime di sua sorella Bella che la pregavano silenziosamente di non andare. Ricorda ancora tutto, Andromeda, ma sceglie di non pensarci, non ora. 

 

Un rumore di passi la riscuote. Si volta. Sorride. I capelli biondi di Narcissa sono completamente bianchi da anni. Proprio come i suoi. Ora si assomigliano, finalmente. Ogni differenza tra loro sembra essersi annullata. Scorpius spinge la sedia a rotelle sulla quale siede sua nonna, magra ma sempre nobile, aggraziata come una colomba, le unghie perfette e troppe rughe intorno alle labbra. È bellissima, com’è sempre stata. 

“Vi posso lasciare da sole?” Chiede Scorpius, bellissimo tutto vestito di scuro, la barba che gli copre le mascelle e il mento. 

Devi lasciarci da sole,” interviene Narcissa. “Siamo troppo vecchie, e i nostri discorsi sono troppo barbosi per voi giovani.” 

“Allora vado a scroccare una sigaretta a Meda e Artie.” Scorpius si incammina, non ha fretta, e perché dovrebbe averne? Ha tutto il tempo del mondo, davanti. 

 

“Come stai, sorella? Cosa ti hanno detto al San Mungo?” 

“Cosa vuoi che mi abbiano detto…” Narcissa risponde ridacchiando. “Che sono vecchia. Durerò finché riesco.” 

Andromeda alza gli occhi al cielo ma non replica nulla in merito. Hanno fatto pace da anni, loro due. Quando vedi così tanta gente morire intorno a te, capisci quant’è stupido tenere lontana una delle poche persone rimaste che per te significa “famiglia”. Comprendi il vero valore delle cose, di ciò che hai ancora e di ciò che hai perso per sempre. E nessuna delle due voleva perdersi. 

“Sono passati quarantacinque anni da quand’è morta.”

Andromeda capisce subito di cosa — o meglio, di chi — sua sorella stia parlando. Sospira. “Ti manca?”

“Nonostante tutto?” 

Andromeda si volta a guardarla. Scrolla le spalle. “Nonostante tutto.”

“Un po’ sì. Sì, a volte mi sembra di sentirla ridere, sai come rideva, ma rideva davvero, intendo. Gli occhi le diventavano piccoli e tutto il suo viso si apriva, e aveva dei denti così piccoli… Era bella ma discreta. Era altro ad urlare forte, in lei.” 

“Ha sempre assomigliato così tanto a nostra madre…”

“Tu dici?” Esclama Narcissa. “Io ho sempre pensato che tu assomigliassi a mamma più di tutte noi.” 

Io?” Andromeda è stupita. 

“Sì. Soprattutto per la Vista3.”

Andromeda ha raccontato a sua sorella tutto quanto. Non sembrano avere più segreti ormai, un po’ come quando erano piccole e Narcissa faceva un brutto sogno e Andromeda era lì accanto a lei a farla riaddormentare. 

“Penso che fosse l’unica cosa che ci rendesse simili. Una volta sparita anche quella…”

“Nostra madre era complicata. Non era una donna facile.”

“Ne ha passate tante, Cissy. Troppe per una sola vita. L’ho perdonata solo di recente, sai? Con l’età ho capito molte cose.” 

“Nostro padre…” Narcissa sospira. Cerca qualcosa nella piccola borsetta in pelle bordeaux che tiene poggiata sulle gambe. Ne tira fuori un fazzoletto ricamato e si asciuga qualche lacrima. Con l’età è diventata sentimentale. 

“Nostro padre era un bastardo,” commenta Andromeda senza lasciarle il tempo di aggiungere altro.

Narcissa annuisce, soffiandosi il naso con pacatezza. Sa essere elegante in tutte le circostanze. 

“Scorpius ha deciso cosa farne?” Chiede, indicando la casa. 

“Non ancora. È un periodo incasinato al San Mungo, e ha tanto da lavorare… Ha detto che ci sta pensando.” 

“Non c’è fretta. Clivedon House non è caduta finora, resisterà ancora.” 

“Sono solo mura e spettri, Dromeda.” 

Scuote la testa. “Forse sì, forse no. Le case sono lo specchio di chi le ha abitate, Cissy. E questa casa è lo specchio della nostra famiglia al pari di Grimmauld Place. I muri trasudano disperazione. Non penso che qualcuno possa volerci vivere.” 

“Nessuno di noi potrebbe.”

“Scorpius dovrebbe venderla. Sono sicura che qualche Babbano facoltoso l’adorerebbe.” 

Narcissa ridacchia. “Oh, certo. Ne sono sicura anche io.”

“Ti dispiacerebbe? Dovesse venderla, intendo.”

“Un pochino, forse. Ma non ci sono tornata per tutti questi anni… Non ci ho più messo piede. Ho persino chiuso il Manor quando Lucius è mancato, lo sai, era solo per lui che ancora tenevamo in piedi quell’ammasso di putrefazione. Non c’è nulla che mi trattenga, sorella. Le case sono solo case.” 

“Sono le persone a farle.”

Le due donne si sorridono. Narcissa tende una mano e Andromeda gliela stringe. Si tengono per mano per un po’, finché non comincia a fare freddo. 

 

Meda le raggiunge, si stringe nel giubbotto di pelle che era stato di Dora e che Andromeda ha trovato da qualche parte a casa, tra le vecchie cose di sua figlia. “Che ne dite di levare le tende? Ci si gela il culo, qui fuori.” 

“Linguaggio, Meda,” la corregge lei.

La ragazza chiede scusa borbottando, e Andromeda scuote la testa. Non riesce a rimproverarla troppo a lungo, in fondo, proprio come accadeva con Dora.

“Possiamo andare, Cissy?”

Narcissa annuisce. “Possiamo andare.”

Meda osserva Clivedon House per un attimo, gli occhi ridotti a due fessure. “Mi pare di averla già vista da qualche parte…” 

Andromeda aggrotta le sopracciglia. “Impossibile. Tua madre e tuo padre non ti ci hanno mai portata.” 

La ragazza scrolla le spalle. “Devo averla sognata, forse… Non importa. Mi verrà in mente.”

Si mette dietro la sedia a rotelle e comincia a spingere Narcissa lungo il viale coperto delle foglie cadute dagli alberi. Andromeda si scambia uno sguardo con sua sorella e sa esattamente cosa stia pensando l’altra: Meda potrebbe aver ereditato la vista da lei, e da Druella a sua volta. Andromeda non vuole pensarci, ora. Non può. Osserva la bis-nipote in tralice, e Meda sembra tranquilla. Fischietta un motivo che Andromeda non conosce, e quando sente i suoi occhi addosso, si gira e le sorride. Ha lo stesso sorriso di sua madre Victoire. 

 

Andromeda si gira un’ultima volta ad osservare il profilo di Clivedon House, ora semi-immerso nella sera che comincia a calare. L’ultima luce del sole si riflette sulle finestre ad est e sembra quasi che una candela bruci all’interno. Ma poi il momento passa, e tutto torna buio. Andromeda le volta la schiena e continua a camminare.
 

[ 1356 parole ]

 

⭐︎⭐︎

 

❨ note ❩

1. Come già specificato in passato, ho idealmente collocato casa di Cygnus e Druella Black nel Buckinghamshire.
2. Andromeda e Arthur Lupin: figli di Victoire Weasley e Teddy Lupin; personaggi di mia invenzione. 
3. Vi ricordate il mio headcanon sulla Vista? Ne ho scritto nel capitolo tre (link) e nel capitolo diciotto (link). 

 

Ciao, lo so cosa state pensando. Sono imperdonabile. Scusate per la lunga assenza, come sapete ho iniziato a lavorare, e i nuovi impegni mi hanno catturata più di quanto pensassi. Eccomi qui però con un nuovo aggiornamento, il penultimo di questa raccolta. Ho condensato parecchie cosette, qui dentro. Prima di tutto vorrei dire che mi sono liberamente ispirata a questo capitolo della mia amica Fede, nella sua raccolta su Teddy e Vic, dove Teddy eredita casa Black e si reca sul posto con sua nonna Andromeda. Qui ovviamente parecchie cose sono diverse, ma vorrei ringraziarla per avermi dato una mezza ispirazione, anche perché l’idea di questo capitolo era solo imbastita, e ora sono riuscita a darle una forma. Se ancora non avete letto la sua raccolta, ve la consiglio. Detto ciò, ho inserito i figli di Teddy e Victoire, che ovviamente sono stati inventati da me. Scorpius è sposato con Rose, invece. Andromeda e Narcissa hanno fatto pace, e Lucius è morto anni prima di questo incontro. Ho pensato di far loro ricordare Bellatrix, ma la Bella bambina/ragazza che loro hanno amato entrambe, e che solo loro ormai possono ricordare. 

Mi sembra di avervi detto tutto, scusate per le note lunghissime ma ci tenevo a specificare alcune cose. 

Spero di riuscire a mettermi presto al lavoro sul capitolo XXXI che, vi anticipo, sarà su Sirius.

A presto ♥︎

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Capitolo 31
*** XXXI. ***


in the name of the Black.

 

Giorno 31;
sciaphilia (l’amore per le ombre);

❨ Sirius ❩.

 

Sei tu, il volto nello specchio? 
È lui, il volto nello specchio?
Sirius Black.

 

Chi è, Sirius Black?
Chi sei, tu?
Sei il figlio maggiore di Orion e Walburga Black. Regulus è tuo fratello.
No. 
Sì.
Davvero?

 

Tutti ti dicono che hai le sopracciglia di tuo padre e il sorriso di tua madre. Tu non credi, Walburga non sorride mai, e di sicuro non a te. Tutti ti dicono che Regulus si muove come te, avete le stesse membra allungate e magre, gli stessi capelli scuri, ma tu pensi che negli occhi — diversi — alberghi una luce opposta e contraria. 
Davvero?

 

“Non siete poi così diversi, tu e Regulus,” ti ha detto Jo una volta. Te l’ha sputato in faccia, o almeno così ti è parso. Il tono che percepisci negli altri non è sempre il giusto riflesso della loro vera volontà, ricordi? Chi te lo aveva detto? Forse lo zio Alphard. Quindi magari per lei non era uno sputo ma una carezza. E per te? “Nah, cazzate. Io sono un Grifondoro, lui un Serpeverde. E sai anche cos’altro, o te lo devo ricordare io? C’è tutta la differenza del mondo, tra noi.” 
Davvero?
Sei sicuro, Sirius?
Non è sicuro, Sirius.

 

Sei tu, il volto nello specchio? 
È lui, il volto nello specchio?
Sirius Black.

 

Chi sei, Sirius Black?

 

Sei un’altra delle tante ombre che affollano quel non-luogo, sei un cono di luce che stenta a mantenersi a galla, sei uno spettro di ciò che sei stato, una proiezione del tuo animo, un ricordo del Sirius che ha camminato sulla terra e che ora non è più. Te ne sei reso conto? Ti sei reso conto che quando provi a toccare lo specchio ti dissolvi come una nube? Ti sei reso conto che non respiri più, e ormai è solo un riflesso involontario ché smettere di credere di esistere fa peggio della morte stessa? Ti sei reso conto che questo è ciò che sarai per il resto di quell’unità di tempo terrificante chiamata eternità? Sei sicuro, Sirius? Non è sicuro, Sirius.

 

Si guarda in quello specchio e non vede che ombre, ombre annidate dietro la sua schiena, ombre accovacciate al fondo dei suoi occhi, ombre acquattate nei recessi della sua anima, pronte a balzare e azzannarlo. Quindi chi sei? Chi è Sirius Black? Lo sai cosa si dice della famiglia Black, no? L’hai sempre saputo. Non ci si salva, da una maledizione di quel tipo. Non c’è scampo, anche se ci si prova, anche se si lotta per essere buoni. Quindi chi sei? Lo sai chi sei?

 

Sei il figlio maggiore di Orion e Walburga Black. Regulus è tuo fratello.
No. 
Sì.
.
Davvero?
Davvero.

 

Allora lo vedi? 
Lo vede, Sirius?
Lo vede che le ombre sono parte di lui, che le ombre sono lui? 
Lo vedi, Sirius?
Puoi scappare finché vuoi, puoi ripeterti parole di conforto come un mantra, o una ninnananna prima di dormire quando sei nel tuo letto e ti bei della tua bontà, ma non puoi scappare dalle ombre, non puoi scappare dall’oscurità. 

 

Quindi, quando pensi di essere intrinsecamente buono, quando pensi di esserlo solo per aver scelto “la parte giusta”, il giusto dormitorio, i giusti amici, il giusto credo, chiediti se tutto ciò che hai fatto sia stato intrinsecamente buono, e limpido, e scevro di ogni mala intenzione. E giusto. 

 

Senza ombre.
Te lo chiedi mai? 
Non te lo chiedi perché lo sai, dentro di te lo sai, Sirius Black, che quell’oscurità dalla quale sei sempre fuggito te la portavi dentro. Celata dietro nobili azioni, e parole vestite di coraggio, e sfide ad un sistema che ti ostinavi a voler cambiare, ma era , è sempre stata lì. Con te. Non era solo un nome e un blasone, Sirius. L’oscurità si mischiava alla luce, e tu eri pieno di crepe, una notte venata dalle stelle fredde di un firmamento troppo vasto. Ti ci perdevi, là dentro. 

 

Sei perso anche ora. 
Si è perso, Sirius. 
Ha oltrepassato una soglia dalla quale non c’è ritorno, e ci sono solo ombre ormai, tutt’intorno e ovunque, gli premono addosso ma senza fare male, come a spingerlo verso il centro — il centro di se stesso? Il centro di un’essenza e un nome, di un’eredità che non ha mai voluto raccogliere e che sulle sue mani puzzava di pregiudizio e ideali ai quali non voleva accostarsi. 

 

Forse le ombre premono perché vogliono vederti crollare, Sirius. Vogliono che tu lo ammetta, che sei un Black, e che sarai sempre un Black. E, quando ti guardi allo specchio e non riconosci il tuo riflesso, e indugi, allora è perché è un Black, quello che vedi, non è solo Sirius, è Sirius Black. Come sei nato Black, ai Black sei ritornato. 

 

Chi è, Sirius Black?
Chi sei, tu?

 

“Sei mio fratello.” La voce di Regulus è calda. Vicina. Ti accoglie e ti riempie. Colma le crepe. “Sei a casa.” 

 

Regulus ti tende una mano ed è ancora il ragazzo che ricordavi, vestito di scuro, ma il suo volto è bello e morbido, è sempre tutto angoli, eh, ma sorride come non ha mai sorriso prima. “Sei a casa,” ripete. Gli prendi la mano perché sei stanco, tanto stanco, senti dentro una stanchezza che ti prende all’improvviso, e non hai più voglia di resistere. E poi per chi? Sei solo, lì. James non c’è, non lo trovi, lo hai chiamato tante volte ma non è arrivato, e allora pensi che sia passato oltre, che sia in pace da qualche parte con Lily, e chi sei tu per pretendere? E Regulus ti è mancato, ti è mancato anche se non lo vuoi ammettere, e ora vuoi solo tornare ad essere un bambino e giocare di nuovo a rincorrersi per le scale di Grimmauld Place, quando le ombre vi navigavano accanto ma voi le evitavate senza sforzo. Circumnavigavate la vostra stessa oscurità. 

 

Il tocco di Regulus è caldo. Vicino. Ti accoglie e ti riempie. Colma le crepe. 

 

Chi è, Sirius Black?
Chi sei, tu?

 

“Sono un Black. Sono a casa.” 

 

[ 1003 parole ]

 

⭐︎☆⭐︎

 

❨ note ❩

Ciao! Eccomi qui (FINALMENTE) con l’ultimo capitolo di questa fatica. Mi scuso ancora una volta con voi per il ritardo, davvero. Però alla fine ce l’abbiamo fatta, avevo promesso che avrei portato a termine questa raccolta che giuro, mi ha prosciugata. 

Due parole prima su quest’ultimo capitolo: è un macello. Sì, è un casino. Casino nel senso che c’è tanto, troppo, forse, c’è molto di quel Sirius che io immagino eternamente combattuto, in bilico tra luce e ombra, ché sapete ormai quanto mi piaccia scavare sotto la superficie dei personaggi e portare a galla “qualcos’altro”, qualcosa che la Rowling non ci ha dato e che penso renda tridimensionali i personaggi, che permetta loro di uscire dalla carta e arrivare a noi. Molto spesso ci si limita a pensare ai personaggi come a qualcosa di definito: c’è quello buono, c’è quello cattivo; c’è quello antipatico e quello che ti fa ridere; c’è il campione di Quidditch e c’è il professore. Ovviamente non è tutto qui, non tutto si riduce ad una definizione, no? Quindi chi è Sirius Black? Bella domanda. Sirius è tante cose insieme, Sirius è un pg rotto, è spaccato, è pieno di crepe (o cicatrici). Non c’è solo luce, in lui, e lo abbiamo visto tante volte. L’ombra è presente, almeno per come la vedo io, e questo lo rende un pg interessantissimo ma altrettanto complesso da trattare. Non si può ridurre ad una macchietta, bisogna andare oltre, bisogna scavargli dentro. Per questo scrivere di lui mi prosciuga sempre. Qui ho tentato di farvi capire cosa io vedo dentro di lui, come io vedo Sirius Black. Non ho l’arroganza di pensare che sia universalmente così, si tratta di un mio pensiero e una mia personale visione. Liberi di leggere, prendere atto e passare avanti. Se però vi andasse di farmi sapere che ne pensate, sapete che i feedback sono sempre ben accolti. Ah, dimenticavo! Giusto per chiarire, la narrazione alterna volutamente la seconda e la terza persona singolare.

Concludo queste note lunghissime con un bel GRAZIE. Grazie perché non avrei mai immaginato che questa raccolta potesse interessarvi così tanto, e appassionarvi così tanto, anche. Sono nate coppie, e ho riscoperto personaggi che mai avrei pensato di poter amare così. Alcune cose rimarranno qui, ma tante altre spero che troveranno un ulteriore svolgimento altrove. C’è tanto di me, qui dentro, e del mio headcanon, e vedere che il tutto vi è piaciuto così tanto mi ha solo resa molto felice ed estremamente fiera del mio lavoro. 

Vorrei ringraziare un attimino in modo particolare mia sorella Alice, che ha letto tutto in anteprima e mi ha dato ottimi consigli (come sempre) e mi ha sopportata (anche qui, come sempre), e la mia amica Fede, che ho già citato numerose altre volte, e che mi ha spinta a partecipare a questa folle iniziativa, senza di lei questa raccolta non sarebbe qui, quindi grazie per avermi trascinata in questo caos, amica. 

Vi lascio perché vi starete annoiando tantissimo. Lo so, lo so. A presto con altre storie, allora, e ancora grazie ♥︎
 

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