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Autore: Acquiesce    28/03/2012    2 recensioni
Carpe Diem, "cogli l'attimo". Questa è la storia di un incontro tra due persone diverse ma che trovano qualcosa l'uno nell'altra capace di unirli, anche se per breve tempo. Due persone che colgono l'attimo, lasciandosi alle spalle le loro consuetudini per un po' e che si abbandonano a quell'attimo fuggente e irripetibile.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alle prime ombre della sera ci spostammo in un locale per prendere qualcosa. Eravamo uno di fronte all’altra, la sua chitarra chiusa nella custodia al suo fianco, la mia reflex sul tavolo. Parlammo delle nostre vite, o meglio, dei nostri rispettivi lavori che in un certo senso sono tutta la nostra vita. Mestieri diversi ma complementari: io immortalo le emozioni nelle foto, lui le trasmette attraverso sette note. Eravamo affascinati l’uno dal mondo dell’altra e dai diversi modi di comunicare e descrivere le stesse cose: lui trasmetteva la tristezza mettendo insieme alcuni accordi vincenti mentre io catturo gli ambienti più tetri, le luci più fievoli, i soggetti più solitari.
Quando uscimmo dal locale proseguimmo il nostro scambio di vedute facendo una passeggiata e senza che me ne accorgessi raggiungemmo casa mia. Non appena me ne resi conto ammutolii di colpo, rimanendo per un attimo interdetta. Anche lui si bloccò di colpo, un incredibile silenzio era sceso su di noi. Lo guardai e lui capì dove l’avevo inconsciamente condotto. Senza proferire una parola spinsi quel fatiscente portone e mi avviai verso le scale: speravo che mi seguisse. Era una follia, ma non potevo fare a meno di agire in quel modo: faceva parte di me, del mio modo di essere. Non sono mai stata una persona che fa le sue scelte in base a cosa sia giusto o meno, piuttosto preferisco fare ciò che sento e quella sera sentii di lanciarmi su per le scale nella speranza che quel misterioso musicista mi seguisse. E così fu: cominciai a sentire dei passi saltellare sui gradini alle mie spalle; quando arrivai sul pianerottolo quel rumore di passi si interruppe. –Magari è solo un inquilino del palazzo…- cominciai a pensare un po’ disillusa mentre giravo la chiave. Aprii la porta e mi girai di colpo nella speranza di trovarlo lì, come quei giochi che si fanno da bambini e lui era davvero lì, a pochi centimetri, vicinissimo, mi ci ero quasi scontrata. Potevo sentire il suo respiro caldo e leggermente affannoso per la corsa sul mio viso. Mi fissava negli occhi in attesa di una mia reazione. Passato lo stupore iniziale gli angoli della mia bocca si contrassero accennando appena un sorriso. Quello per lui fu il segnale: mise giù la custodia con la sua affezionata chitarra, mi prese il viso tra le mani e mi baciò; iniziando una sorta di valzer mi condusse dentro e girammo brevemente in tondo, finché non mi ritrovai appoggiata alla porta alle mie spalle appena chiusa.
Cominciai a sentirmi viva come non mai, rapita da quell’insolita situazione. Ero ancora in tempo per fermarlo, mandarlo via, se solo avessi voluto. Ma la verità era che non volevo lasciarmi scappare quell’occasione tanto insolita quanto irresistibile. Eravamo appiccicati l’uno all’altra, l’unica cosa che ci divideva, seppur parzialmente, era la mia reflex ancora appesa per la tracolla al mio collo. Mi aggrappai ai lembi del suo maglione sui fianchi e aiutandomi con il mio peso lo spinsi via facendo perno con le spalle contro la porta. Lui mi guardò confuso, non si era ancora accorto della mia espressione maliziosa. Gli presi la mano e lo sorpassai, trascinandolo prima, poi semplicemente guidandolo verso la mia camera. Lì mi fermai e mi voltai e lui ne approfittò per sfilarmi la reflex dal collo; cominciò a maneggiarla tentando di scattarmi una foto, e ci riuscì un attimo prima che riuscissi a riprendermela. Ero quasi tentata di guardare il suo scatto improvvisato, ma preferii saltargli al collo e baciarlo di sorpresa come aveva fatto lui poco prima. Misi giù la mia macchina fotografica e mi concentrai su quel misto di emozioni mai provate tutte insieme. Semplicemente mi abbandonai a quel momento, a quelle sensazioni, mi abbandonai tra le braccia di quell’uomo.
Ci esplorammo, ci unimmo, ci mischiammo pelle, anime e ossa, voracemente, come in preda al timore che da un momento all’altro qualcosa potesse separarci per sempre, come se fossimo stati convinti che quella scintilla sarebbe potuta spegnersi troppo presto. Eravamo inebriati l’uno dall’altra, era qualcosa di primitivo, qualcosa mai provato prima. Come essere in cima alle montagne russe e cadere giù di colpo. Un’esperienza unica. Fu qualcosa che mi ricordava l’erotismo negli scatti di Chip Willis, ma anche quella forza quasi esoterica nei riff di Jimmy Page. Tante cose messe insieme. Senza contare che ogni fibra del mio corpo vibrava sotto quel tocco ruvido delle dita del musicista, rovinate dalle dure corde della chitarra.
Quando quel vortice di passione si affievolì rimanemmo per un po’ in silenzio a fissare le luci della città che penetravano dalla mia finestra e si proiettavano sul soffitto della stanza, accompagnati dall’eco dei nostri respiri e dei nostri fremiti di poco prima. Non so spiegarmi perché ma d’un tratto mi allungai verso il comodino su cui giaceva la mia reflex e la afferrai. Senza dire una parola la alzai sopra le nostre teste e mi preparai a scattare una foto. Forse quello era l’unico modo in cui sapevo comunicare. Il musicista dapprima seguì i miei movimenti e guardava l’obiettivo, poi preferì sfiorarmi la guancia con le sue labbra, regalandomi un piacevole brivido proprio nel momento in cui scattai la foto. Avevo colto l’attimo ancora una volta. Cominciò ad accarezzarmi e a baciarmi e io in preda a quei fremiti misi giù la macchina fotografica con poca grazia sul pavimento. Questa volta però i suoi baci avevano un sapore diverso, mi ricordavano quel pomeriggio al parco quando lo vidi per la prima volta. Come se mi stesse dando il bacio dell’addio. In quel momento però non ci diedi troppo peso, presa com’ero da quell’atmosfera così calorosa.
Quando fu mattina mi sorpresi abbastanza nel ritrovarmi di nuovo sola nel mio letto. Come sempre. Tastai il lato vuoto del materasso ed era ancora tiepido, segno che si era alzato da poco. Mi guardai intorno ma i suoi vestiti erano spariti. Sperai che fosse sotto la doccia o in cucina alla ricerca di qualcosa di commestibile, ma rimasi delusa quando realizzai che non era in casa. Perfino la su chitarra che aveva lasciato accanto all’ingresso era sparita. Improvvisamente quella tana per topi del mio appartamento cominciò a sembrarmi enorme. Mi buttai sotto la doccia per togliermi il suo odore di dosso e per poi precipitarmi fuori da quel posto per un po’. Solo quando tornai nella mia camera con ancora il letto sfatto che mi riportava a quella notte notai che la mia macchina fotografica era stata spostata: non era sul pavimento dove ero sicura di averla lasciata, ma era appoggiata sul comodino con un foglietto strappato da un block notes infilato sotto per metà. Voleva essere sicuro che lo trovassi. Lo presi tra le mani e lo lessi: “Non posso restare, mi dispiace” tutto qui. Non un punto, non un addio, una firma, niente. Solo in quel momento mi accorsi che non conoscevo il suo nome e realizzai anche che l’addio me l’aveva dato quella notte stessa con quei baci dal sapore così strano. Mi sentii un po’ meglio sapendo che in un modo o nell’altro mi aveva salutato prima di andarsene, ma quel buco di appartamento continuava a sembrarmi fin troppo enorme, così afferrai la reflex e corsi fuori, diretta al parco. Speravo di rincontrarlo. Almeno per dargli il mio addio. Credevo. Forse avevo solo voglia di rivedere una persona che mi aveva regalato emozioni così grandi e speciali. Mi diressi verso il laghetto, ma non sentivo nessuna melodia. Quando fui abbastanza vicina vidi la panchina: vuota. Lui non c’era, se n’era andato per davvero. Decisi di raggiungere comunque la panchina e sedermi, come per aspettarlo, forse. Presi tra le mani la reflex e diedi una scorsa alle foto delle ultime due giornate. –Ecco la foto che mi ha scattato.- pensai quando vidi una foto in cui il palmo sfocato della mia mano occupava quasi tutta la scena e dietro il mio viso divertito immortalato mentre dicevo qualcosa al fotografo di ventura.  Sorrisi davanti al ricordo di quel momento ludico. Mi divertiva anche il fatto che quella foto fatta così all’improvviso e senza particolare professionalità mi sembrasse così viva: trasmetteva l’emozione di quel momento. Una foto più avanti ed ecco che salta fuori la nostra foto a letto, l’unica insieme. La mia espressione, gli occhi socchiusi comunicavano tutta l’emozione del momento, quel phatos che il musicista riusciva a regalarmi. E poi lui: solo guardando la foto mi accorsi che quel velo di tristezza era ritornato sul suo volto. Il suo attimo si stava per esaurire e quel bacio avrebbe dovuto farmelo capire.
Non rimpiango niente però. Non so cosa ci abbia spinto a vivere quell’avventura, quell’attimo fuggente nel vero senso della parola e forse non lo capirò mai ma sono felice comunque. Anche se è stato breve ho vissuto un’avventura, un attimo incredibile. Non capita a tutti e non si ha sempre la fortuna di incontrare qualcuno che ci faccia stare così bene,  che sia così in sintonia con te nonostante sia tanto diverso, aggiungerei. Anche se nel mio caso fu quello che qualcuno chiamerebbe “fuoco di paglia”. Ma non mi importa. Che sia una notte, un anno o una vita, il tempo non cambia l’importanza di un attimo, di un’emozione, e della felicità che possa dare. E io sono felice, felice come lo sono stata raramente. Come non lo ero da tempo. Felice e viva.
  
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