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Autore: Miss Fayriteil    02/04/2012    2 recensioni
Jane potrebbe essere una donna come tante, con una bella e numerosa famiglia, ma in realtà nel suo passato si nasconde un doloroso segreto...
Questa storia l'ho scritta un po' di tempo fa... spero vi piaccia!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.

 
 
Jane Thaisis era una giovane donna, australiana di trentaquattro anni. Ciò che in lei colpiva immediatamente erano i suoi occhi: verde smeraldo ed incredibilmente penetranti. Era una donna piccola e minuta, ma nessuno se ne accorgeva, quando si trovava ad avere a che fare con lei.
  Aveva sempre vissuto a Sidney, prima con i suoi genitori ed il fratello minore, Michael ed ora anche con il marito ed i loro sei figli. James Cox, che Jane aveva sposato circa sei anni prima, non era di molto più vecchio di lei e secondo quello che Jane stessa diceva, un uomo sempre molto desiderato nel suo quartiere, fin da quando non erano altro che due ragazzini di undici e quattordici anni.
  I ragazzi, invece, ai quali abbiamo fatto soltanto un accenno in precedenza, erano sei e li presentiamo qui di seguito. Nicholas, da tutti soprannominato Nicky, era il primogenito ed aveva undici anni; la seconda era Claudia di dieci anni. In seguito c’erano David e Karen, rispettivamente di nove ed otto anni; quindi Jason che aveva sette anni ed infine Julia, che con i suoi sei anni compiuti da poco, rimaneva ancora la piccola di casa, anche se in fondo non era più così piccola.
  Ciò che quella numerosa famiglia aveva di inconsueto era proprio la situazione dei bambini. Infatti, solamente due di loro, vale a dire Jason e Julia, i più piccoli, erano figli di entrambi i genitori; al contrario gli altri quattro, alcuni anni fa adottati da James, erano nati da altrettanti uomini, sparsi in giro per la città.
  Come fece Jane a finire in questa situazione? Qui, durante l’inverno australiano di dodici anni fa, inizia la nostra storia…
 
A quel tempo Jane Thaisis era una giovane studentessa di ventidue anni, ancora ingenua e poco esperta del mondo: sarebbe maturata di colpo quella stessa notte.
  È appunto una fredda sera di giugno, quella in cui comincia quest’avventura.
  Jane, in quel momento, stava attraversando velocemente la stazione insieme a sua madre, per riprendere l’auto e tornare finalmente a casa dopo una breve passeggiata in centro. La stazione in quel periodo godeva di una brutta, anzi pessima fama, perché si diceva fosse stato il teatro di tantissime sparizioni, forse rapimenti, di giovani donne, ad opera di un misterioso bandito.
  Successe tutto quanto all’improvviso, quasi che la sorte avesse deciso di accontentare quelle dicerie, vere o inventate che fossero. Quando le due donne avevano quasi raggiunto la loro macchina, qualcuno spuntò dall’oscurità e Jane sentì una mano afferrarle il braccio e stringerlo fin quasi a spezzarglielo, poi un’altra che le serrò la bocca, impedendole di respirare, quindi un forte dolore alla tempia destra e… più nulla. Venne infine trascinata insieme alla madre in una strana catapecchia non troppo lontana dalla stazione, dove si risvegliò circa un’ora dopo.
  Jane aprì lentamente gli occhi, ma, sentendosi ancora abbastanza stordita, decise quasi subito di richiuderli. La testa, poi, le pulsava dolorosamente. Alcuni istanti più tardi, la ragazza ritenne di essersi ormai ripresa abbastanza, da alzarsi in piedi ed affrontare la situazione, e così fece, scrollando la sua lunga e riccioluta chioma, rosso fiammante, come se volesse togliere la polvere che la ricopriva.
  Quando alla fine Jane si sentì di nuovo perfettamente in grado di fronteggiare qualunque tipo di pericolo le si fosse parato davanti da quel momento in poi, cominciò a studiare con estrema attenzione il luogo in cui si trovava. Era una stanza molto buia e coperta di polvere; le riuscì di distinguere un paio di sedie ed un tavolo, leggermente illuminati da qualcosa di non meglio definito, forse una vecchia lampada a petrolio, ma tutto il resto era immerso nell’ombra.
  «Jane…» sentì ad un tratto. Sorpresa, la ragazza si guardò attorno, per trovare la fonte della voce e finalmente vide sua madre, appoggiata ad una parete con l’aria sconvolta, ma senza ferite, almeno non visibili. Jane pensò che sua madre, in fondo, stava molto meglio di lei, ma ovviamente la ragazza non se la sarebbe mai presa con sua madre per un motivo di quel genere.
  Sorrise sollevata e le si avvicinò. La donna la strinse forte tra le braccia e le sussurrò in un orecchio: «Grazie al Cielo, stai bene, Jane. Oh, credevo… credevo quasi che non ti saresti risvegliata mai più».
  Jane, cercando di apparire molto più tranquilla, di quanto in realtà non fosse, rispose: «Mamma, non ti preoccupare. Ora sto bene e poi ci sei tu con me. Non ci succederà niente, vedrai». Poi riprese ad osservare la stanza e si rese conto, con sua enorme sorpresa, di conoscerla molto bene: era la stessa baracca dove andava sempre, da ragazzina insieme ai suoi amici, per scommessa. L’avevano battezzata, per ovvi motivi evidentemente, la Casa Nera. Ora, però, era notevolmente più in ordine di quanto non fosse nel periodo in cui ci veniva lei, e inoltre era abitata, anche se non si riusciva a capire con molta precisione da chi.
  Stava ancora cercando di assorbire lo stupore di ritrovarsi in quella stamberga, dopo dieci anni e con un bernoccolo sulla testa quando, proprio in quel momento, e prima che potesse in qualche modo rendersene conto, si ritrovò seduta su una vecchia sedia di legno scheggiata e con i polsi legati allo schienale. Voltandosi si rese conto che anche a sua madre era stato riservato lo stesso trattamento. Guardando nuovamente di fronte a sé, sobbalzò. Si ritrovò all’improvviso una orribile faccia barbuta, sulla quale i freddi occhi azzurri risaltavano spaventosamente, piazzata a due soli centimetri dal suo naso. Questo viso, dato che nella penombra la ragazza riusciva a vedere solo quello, si rialzò parlando con voce rauca e profonda: «Bene, bene, ma che bel bottino. Due signorine straordinariamente graziose. Per piacere, ragazzi, ammiratele!»
  Il proprietario dell’orribile faccia barbuta era un uomo tarchiato che teneva in mano una grossa pistola nera: probabilmente il capo era lui. Jane osservò lui e i suoi scagnozzi: erano cinque uomini grossi e muscolosi che le fissavano con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. La ragazza li studiò per alcuni lunghi istanti, rendendosi conto di non provare, inspiegabilmente, alcuna paura, ma soltanto rabbia e odio, verso quei banditi che tenevano ingiustamente prigioniere lei e sua madre.
  Con un coraggio che non era ancora consapevole di possedere, e che in realtà proveniva dal suo subconscio, che aveva deciso di rifiutarsi di sottostare a quella prigionia, sentì la propria voce esclamare, aspra ed intrisa di veleno: «Chi siete e che cosa volete da noi?»
  Nonostante tutta la sua buona volontà, non sortì precisamente l’effetto desiderato. Quattro degli uomini, infatti, scoppiarono a ridere ed uno di loro le fece addirittura il verso. «Ma sentitela, “chi siete e che cosa volete da noi”. Che bambina coraggiosa!» commentò, con un’altra fragorosa risata. Il capo, invece, era sempre rimasto in silenzio, come se stesse aspettando gli sviluppi, prima di intervenire personalmente.
  L’uomo che aveva appena preso in giro Jane, sembrava il più giovane ed innocente del gruppo; era anche molto attraente, nonostante l’espressione crudele che gli deformava il volto. E se Jane non fosse stata così occupata a detestarlo con tutte le sue forze (nessuno, infatti, era mai riuscito a prenderla in giro chiamandola bambina, senza poi pagarne dolorosamente le conseguenze), forse si sarebbe accorta che il suo cuore, che dopotutto non riusciva ad ignorare, batteva forte mostrandole un sentimento completamente diverso da quello che lei provava in quel momento.
  Nello stesso preciso istante il capo, che d’ora in poi chiameremo con lo pseudonimo di Number One (il nome vero resterà sempre ignoto), ruggì: «Silenzio!»
  Improvvisamente nella stanza non si sentì più volare una mosca. Number One si mise a scrutare torvo ciascuno dei presenti, come per assicurarsi che nessuno l’avrebbe più interrotto. Poi si rivolse al suo secondo e disse: «Bene, credo di essere quasi arrivato ad una conclusione» sogghignò palesemente divertito. «Ma prima di tutto devo rivolgere qualche semplice domanda alle nostre due carissime prigioniere. Non è niente di preoccupante, una pura formalità».
  Jane e sua madre si guardarono, in preda all’angoscia più tremenda: dai loro sguardi si capiva che invece c’era da preoccuparsi, eccome. Poi Number One si rivolse improvvisamente alla signora Thaisis ed abbaiò: «Tu, quanti anni hai?» La donna lo guardò, totalmente allibita; ma che razza di domanda era? Poi riuscì a fatica a ricomporre la propria espressione e si costrinse a rispondere sdegnosamente.
  «Buon uomo, penso che lei dovrebbe proprio saperlo. Non si chiede mai, e dico mai l’età ad una signora».
  Jane, che non la pensava esattamente come lei, sussurrò: «Mamma, se-se fossi in te, risponderei». Sua madre aveva appena aperto bocca per rispondere a tono, quando Number One, come Jane si aspettava, appoggiò delicatamente la grossa pistola sulla fronte della donna. La ragazza notò in quel momento che Number One aveva un piccolo anello d’oro appeso all’orecchio destro.
  «Ti ho chiesto» ripeté il bandito con voce bassa e minacciosa, «quanti anni hai. Guarda che questa pistola è carica».
  La signora Thaisis si arrese. Deglutì spaventata, poi rispose, con un filo di voce: «Ehm… ecco ho… quarantasei anni».
  «Così va meglio, molto meglio» disse Number One, soddisfatto, poi lui e i suoi uomini si guardarono l’uno con l’altro, come se in fondo si aspettassero una risposta del genere e poi cominciarono a confabulare tra loro a bassa voce. Jane sentì chiaramente uno degli uomini, con una grossa cicatrice che gli attraversava il naso, borbottare: «Naaah, è troppo vecchia. Togliamocela dai piedi. Ci teniamo solo la ragazza». Il capo annuì poi si rivolse di nuovo alle due prigioniere e ringhiò, rivolto alla signora Thaisis: «I miei uomini ed io abbiamo pensato che non sapremmo che farcene di te, quindi abbiamo decisa» le due prigioniere trattennero rumorosamente il respiro, «che puoi andartene».
  Le due donne si guardarono esterrefatte: la libertà era proprio l’ultima cosa che si sarebbero potute aspettare di ricevere! La signora Thaisis, senza osar credere alla propria fortuna, lasciò che Number One la liberasse e si alzò in piedi, poi fece segno a sua figlia di fare altrettanto.
  Jane obbedì, non troppo convinta: lei avrebbe sicuramente voluto andarsene insieme alla madre, ma aveva il vago presentimento che non l’avrebbero lasciata andare via troppo facilmente. Infatti aveva appena finito di liberarsi i polsi di nascosto e si era alzata in piedi anche lei, quando il secondo di Number One intervenne dicendo: «No, no, aspettate un attimo. Forse non siamo stati sufficientemente chiari. Abbiamo detto che soltanto tu puoi andartene, donna. Tua figlia resta qui con noi, dobbiamo farle “alcune domande”, hai capito?»
  La signora Thaisis guardò la figlia con un’espressione mista di angoscia e qualcosa che poteva essere senso di colpa. Le due si abbracciarono in silenzio, piangendo, mentre Number One attendeva con impazienza che la donna se ne andasse. Alla fine la signora Thaisis uscì dalla casetta, sempre molto riluttante a lasciare sua figlia sola insieme con quei cinque banditi. Decise che non se ne sarebbe andata via subito, ma che sarebbe rimasta a spiare da una finestra quello che sarebbe successo all’interno da un momento all’altro e nel caso sarebbe corsa immediatamente in aiuto della figlia. Purtroppo, per lei, però, Number One la scoprì all’istante.
  Andò alla finestra e la spalancò, il viso irsuto deformato dalla rabbia, abbaiando: «Sparisci, donna! Muoviti, ti ho detto che devi andartene! Non costringermi a cambiare idea sulla tua sorte!»
  La povera donna, terrorizzata, obbedì istantaneamente e scappò via. Number One marciò di nuovo al centro della stanza. Ora Jane si trovava completamente sola in mezzo ai suoi rapitori; li fissò uno ad uno, con il cuore in gola, aspettandosi tutto il peggio possibile. Quelle alcune domande di cui avevano parlato, suonavano come alcune domande molto pericolose. Decise di sottoporsi in silenzio all’interrogatorio.
  «Molto bene», disse ad un tratto Number One. «Per prima cosa devo chiederti quanti anni hai. Quindi se sarò soddisfatto della tua risposta potremo procedere».
  “È proprio fissato con l’età” pensò Jane, assolutamente perplessa, “chissà perché”.
  Mentre stava ancora decidendo che cosa rispondere, dato che non voleva dire la verità, Number One all’improvviso aggiunse: «Oh, a proposito, se hai più di venticinque anni non sei la benvenuta». Questo era perfetto per Jane, che, dopo un veloce calcolo mentale, decise finalmente che cosa avrebbe risposto e disse: «Be’, mi dispiace per voi in questo caso, perché io ho giusto ventisei anni».
  Però, non si sa in che modo, Number One capì che lei aveva mentito; forse aveva notato un riflesso colpevole nei suoi occhi, chissà, fatto sta che le disse: «No, no, tu stai mentendo e le persone che mentono a Number One possono finire molto, molto male. Avanti, ti do un’ultima possibilità, quanti anni hai? Rispondi e vedi di dire la verità questa volta, mi raccomando».
La ragazza si arrese alla minaccia e, con voce tremante, disse: «D’accordo, hai ragione, ho mentito. In… in realtà ho ventidue anni».
  A questa risposta, il bandito sogghignò: «Oh, è perfetto. Direi che hai proprio l’età giusta per me! Sono molto soddisfatto. Quindi…» finse di riflettere, poi aggiunse, «Penso… sì, si può fare. Ho deciso: ci sposeremo la prossima settimana».
  La ragazza ci mise alcuni istanti, per comprendere la terribile verità di quelle parole. Dopodiché balbettò faticosamente, con voce strozzata: «Come… com’è che hai detto? Noi… noi due ci…»
  «Sposeremo, esatto» confermò Number One, guardandola con un ghigno da lupo mannaro. «La prossima settimana. E dopo sposati tu, tesoro, mi darai un erede che sarà meglio per te che sia maschio o saranno guai seri! Hai capito?»
  Jane era talmente terrorizzata al pensiero di come si presentava il suo futuro, che non si rendeva neanche conto di quanto in realtà fosse insensata l’ultima frase di Number One e mormorò stupidamente: «Sì… sì, ho capito. D’accordo, dovrà essere maschio. Ho capito».
 
  
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