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Autore: Whatadaph    03/04/2012    3 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 3

“Dovreste conoscervi”

Beta: Unbreakable Vow

Atene, 18 giugno 1899

Mio caro Albus,

il viaggio è cominciato bene, sebbene la tua assenza sia un fardello pesante da sopportare. Mi sento immensamente egoista a scrivere parole simili, poiché il tuo di fardello è di certo più gravoso del mio.

Sebbene sia acuto e persistente il dolore provocato dalla nostalgia del mio più caro amico, sono rimasto a tal punto affascinato dalla capitale della Grecia che non posso non descriverti tutte le pittoresche e arcane sensazioni che questo luogo sprigiona.

L’Acropoli di Atene è indubbiamente lo spettacolo più fulgido e immenso su cui io abbia ma posato gli occhi. Fa uno strano effetto, sai, perché sono stati i Babbani a costruire tutti questi edifici splendidi che stanno resistendo per secoli e secoli, sebbene ne siano arrivati a noi solamente i ruderi. Ruderi incredibilmente belli, però, ed è qualcosa di incantevole il contrasto fra il candore abbagliante del marmo e l’azzurro poderoso del cielo.

Nell’aria si avvertono aromi di miele e profumo di rosmarino, e di altre piante tipiche del bacino Mediterraneo. Sono aromi pungenti, questi, a tratti aspri, colmi di una dolcezza selvaggia e sfuggente che riesce difficile catturare con le parole. Riesco a vederti con l’occhio della mente, Albus, in piedi in mezzo agli arbusti. Con gli occhi chiusi, la pelle un poco arrossata dal sole, qualche ciocca color del rame che cade sul tuo volto.

Sei sempre stato bello, Albus. Lo sai? E io mi sono sempre meravigliato di non provare alcuna invidia nei tuoi confronti, sebbene tu possieda tutto ciò che io non ho. Perché, forse, ero consapevole di avere il tuo affetto, che per me vale più di ogni altra cosa.

Sull’Acropoli sorgono i bianchi resti di molti edifici. C’è il Partenone, naturalmente, il più grande e più famoso tempio dell’antichità, dedicato alla dea Atena Parthénos. Si racconta che nei tempi antichi fosse stata posta al suo interno un’immensa statua della dea, costruita con legno ricoperto di oro e avorio. Le sue colonne doriche sono qualcosa di immenso, pare che sia stato un gigante a porle lì dove stanno da tantissimo tempo. Passando fra di loro, si viene immediatamente avvolti da un’ombrosa frescura, refrigerio inaspettato per la pelle della nuca e del volto e delle braccia e di qualunque altra parte del corpo sia libera dai vestiti. Qui il sole picchia forte, Albus, come fosse eternamente mezzodì.

Superata l’ombra delle colonne, il sole arde di nuovo. Ho camminato fino al centro esatto del tempio, amico mio, l’ho fatto a passi esitanti, quasi trattenendo il fiato. Temevo... temevo di risvegliare qualcosa di arcano, di arcano e misterioso, qualcosa che non desiderava essere disturbato dalla sua quiete. Mi pareva quasi di udire il respiro di quella creatura dalle molte spire, quella creatura che chiama a sé chiunque sia passato lì. Quella creatura, Albus, si chiama Storia.

Ho chiuso gli occhi, e ho immaginato un tetto sopra di me, il piedistallo della statua di Atena Parthénos sotto il mio sguardo. Ho immaginato... ho immaginato di percorrere l’Agorà a placidi passi, nelle orecchie il chiacchiericcio soffuso di tutti coloro che si soffermavano nella piazza a conversare. Tutti quegli uomini dall’aria placida e saggia, che sorreggevano il mantello con una mano e con l’altra gesticolavano con energia, presi a spiegare qualcosa di incredibilmente interessante.

Sarebbe stato interessante vivere in quel periodo, non credi?

Ma come sono egoista, mio caro Albus. Ti racconto tutte queste cose che avrei dovuto vivere assieme a te, quando tu sei costretto in quel villaggio abbandonato da Dio.

Mi duole il cuore.

Come procede la tua vita? Mi piacerebbe ricevere una tua lettera.

Con immenso affetto,

 Elphias

****

Stizzito, Albus infilò la lettera di Elphias in un cassetto, celandola alla propria vista. Non si era mai sentito abbandonato dalla fortuna fino a quel punto. Non erano passati che una decina di giorni da quando lui e il fratello erano tornati a Godric’s Hollow, ma gli pareva fosse trascorsa una vita. Una vita molto lunga e noiosa.

“Smettila di piangerti addosso,” gli aveva detto Aberforth il giorno prima, con la solita delicatezza. “Ariana se ne rende conto, capisci? Lo sente.”

“Sono perfettamente in grado di badare ad Ariana,” era stata la sua secca replica alle parole del fratello.

Le sopracciglia di Aberforth si erano inarcate. “Oh, non ho dubbi in merito,” aveva convenuto. “Ma per quanto tempo?”

Per quanto tempo, avrebbe voluto ribattere Albus, per quanto tempo rimpiangerò il futuro che ho perduto?

Ma aveva taciuto.

Tutto sommato, se si metteva da parte il discorso relativo alla noia, le cose procedevano abbastanza bene in casa Dumbledore. Ariana non aveva avuto momenti di crisi, ma Albus si rendeva conto di trattarla con i guanti, neanche fosse una bomba a orologeria sul punto di esplodere. Abe, naturalmente, non si era lasciato sfuggire l’occasione di rimbrottarlo ancora. Lui aveva rimesso il fratello minore al suo posto con un abbondante uso di secca retorica. Non era stato particolarmente gentile, ma d’altra parte esserlo non era nelle sue intenzioni.

Il problema vero era un altro: Albus aveva già letto ogni libro presente in casa. Sebbene nei primi giorni fosse stato intenzionato a lasciarsi morire di noia – si era già immaginato come un martire osannato dalle generazioni future –, aveva finito per desistere da tale proposito. Si era quindi ingegnato per procurarsene di nuovi, ma Aberforth si rifiutava di uscire per acquistarne alla libreria più vicina. Di lasciare Ariana alle cure del fratello non se ne parlava: doveva dimostrare al quel ragazzino arrogante che aveva torto, mentre la ragione era dalla sua parte.

Quando gli fu chiaro che il fratello non avrebbe svolto per lui alcuna commissione che non riguardasse l’ordinaria amministrazione della casa – sebbene in realtà Albus considerasse i libri facenti parte di tale categoria – aveva ponderato se non fosse poi una così cattiva idea mandare degli ordini via gufo. Peccato che la civetta di casa si fosse fatta male a un’ala l’ultima volta che era uscita per andare a caccia. Albus aveva dovuto rinunciare anche a questa seconda opzione.

Sembra che la sorte mi sia contraria.

Come se tutto ciò non bastasse a rendere pessimo il suo umore, anche Elphias ci si metteva in mezzo. Davvero, Albus non sapeva come per il Buon Incantatore gli fosse saltato in testa di scrivergli una lettera del genere. Era contro tutte le buone norme della diplomazia.

Si chiese come mai fosse capitato proprio a lui. C’erano tante persone al mondo prive di talento, abiette e meschine, insulse... Non avrebbero perso nulla, se fosse accaduto loro qualcosa di simile, poiché il loro futuro si prospettava inutilmente piccolo e meschino esattamente come loro. Albus Dumbledore, invece, con tutti i talenti del quale era stato dotato, era di certo stato destinato a qualcosa di grande. O, per meglio dire, qualcosa di grande era stato certamente destinato a lui.

Che cosa era andato storto, nei grandi disegni del Destino? Quale ruota della sorte si era infine inceppata? Quale tessera aveva ceduto per prima, conducendo con sé nel baratro tutte le altre?

E soprattutto, chi aveva voluto tutto ciò?

Una risata riecheggiò improvvisamente per il corridoio, distogliendolo dai suoi pensieri. Si alzò dallo scrittoio, avendo cura che la sedia strusciando sulle assi di legno del pavimento non facesse troppo rumore. A passi felpati, seguì l’eco di quella risata fino a giungere nei pressi di una porta socchiusa, dove gli era possibile udire meglio le voci dei fratelli. Non si manifestò, preferendo restare dietro la porta.

“Questo cos’è, Abe?”

La voce di Ariana era un pigolio da uccellino, quasi fosse ancora una bambina. Ma Albus sapeva bene quanto sapesse diventare furiosa quella voce, nelle occasioni un cui la sorella diveniva preda di una delle sue crisi. Quelle note acute si tingevano di rabbia e terrore, il suo bel volto si trasmutava una maschera contratta. L’aspetto mite di sua sorella diveniva in qualcosa di spaventoso.

“Questo, Ariana?” le stava domandando Aberforth, in quel tono dolce che riservava solo a lei.

“Sì, Abe. Questo qui. Eccolo.”

Si udì un fruscio.

“Questo... questo è un calderone, tesoro mio. Si usa per preparare le pozioni.”

“Ah,” fece Ariana. “Ho capito. Come quelle che mi dà mamma. Vero?”

“Sì... proprio quelle lì.”

“Sembra un po’ una pentola.”

Aberforth ridacchiò con affetto. “Sai che ti dico? Hai proprio ragione. Sembra un po’ una pentola.”

Anche Ariana rise, come una cascata di campanellini argentati.

Albus si lasciò scivolare lungo il muro, finché non fu seduto in terra. Per qualche strana ragione, sentiva il cuore colmo di una sofferenza amara. Lì per lì la attribuì alla noia e alla solitudine, ma molti anni dopo l’avrebbe saputa chiamare col suo vero nome: invidia.

****

Quando qualcuno bussò alla porta, fu Albus ad andare ad aprire. Riconobbe immediatamente l’esile figura femminile che si stagliava sulla soglia.

“Oh,” sorrise. “Salve, Bathilda.”

“Albus,” la donna lo guardò con occhi dolci, un po’ tristi. “Come stai? Sei pallido.”

Con sgomento, il giovane realizzò di non aver messo il naso fuori di casa per settimane. Si scansò dalla porta, permettendo alla signorina Bagshot di entrare.

“Venga dentro, Bathilda,” le disse. “Si accomodi.”

“Oh, Albus,” rise. “Non c’è bisogno di trattarmi come una vecchia signora. Dammi pure del tu.”

“Va bene,” Albus annuì educatamente. “Come preferisci.”

Lei lo seguì all’interno dell’abitazione. Oltre l’ingresso, fino al comodo, fresco salotto. Ariana e Aberforth erano seduti sullo spesso tappeto che era posto di fronte al caminetto spento, impegnati a giocare a scacchi. Era un gioco che divertiva molto la sorella: le piaceva dare i comandi con quella sua voce pigolante e vedere i pezzi spostarsi autonomamente sulla scacchiera. Il bello del gioco, per lei, era proprio quello. Provava una gran pena nel vedere i personaggi tramortire brutalmente gli avversari catturati, perciò Aberforth con molta pazienza calibrava le proprie mosse affinché i pezzi bianchi e quelli neri non si scontrassero mai.

Albus fece accomodare Bathilda.

“Vuole – ehm, gradiresti un tè o qualcos’altro?” le domandò.

Lei sorrise dolcemente e scosse la testa. “No, grazie,” rispose in tono educato.

Il ragazzo si lasciò cadere meccanicamente sul divano, di fronte alla poltrona dove sedeva la donna. Lo sguardo gli cadde sulla scacchiera con la quale giocavano i fratelli minori. I pezzi facevano su e giù per la quadrettatura nera e bianca senza mai scontrarsi, a un ritmo quasi ipnotico.

“Come va, Albus?”

La voce di Bathilda lo riscosse. Sorrise automaticamente.

“Bene,” rispose. “Le- Tu?”

“Oh, molto bene,” lo guardò fisso. “Albus, seriamente,” abbassò la voce, “hai mai messo il naso fuori casa, in queste due settimane? Sei pallido e hai l’aria smunta. Dovresti passare un po’ di tempo all’aria aperta. Lo dico sempre anche a Gellert.”

Albus inarcò le sopracciglia, boccheggiando. “A... Chi?”

Bathilda sorrise astutamente. “Un mio nipote che sta trascorrendo un periodo da me. Andreste d’accordo: ha più o meno la tua età ed è un ragazzo molto brillante.”

Il ragazzo annuì.

La donna parve sovrappensiero. “Dovreste conoscervi,” propose.

Albus annuì di nuovo.

“E non capisco come mai tu non sia mai uscito di casa, in queste due settimane.”

Lui gettò un’occhiata eloquente alla sorella minore, occupata a dare indicazioni al suo alfiere con mille moine.

Bathilda alzò gli occhi al cielo, gesto che irritò parecchio Albus.

“Suvvia,” gli disse a bassa voce. “Sai bene che Aberforth è perfettamente in grado di badare da solo ad Ariana per qualche ora. Guarda com’è serena, adesso che giocano assieme.”

“Ma Aberforth è ancora minorenne,” sussurrò Albus di rimando. “Sono entrambi sotto la mia responsabilità.”

Il fratello, seduto a gambe incrociate sul tappeto, aveva levato su di loro gli occhi azzurri e penetranti. Li osservava con le sopracciglia aggrottate, colmo di sospetto ma al tempo stesso speranzoso.

“Fidati, Albus,” insistette la signorina Bagshot. “Non le accadrà nulla di male, se c’è Abe Dumbledore a prendersi cura di lei.”

Si era allungata dalla poltrona, tendendo la mano per scompigliare i capelli rossicci di Aberforth. Il ragazzino la lasciò fare con malgrazia, scoccando al fratello maggiore uno sguardo trionfante.

Bathilda si rivolse nuovamente ad Albus. “Vienimi a trovare, mi raccomando. Devi conoscere Gellert Grindelwald.”

Il giovane Dumbledore annuì, sconfitto. “Va bene,” concesse. “Verrò do-”

Ma le sue parole furono interrotte da un gran fracasso. Coinvolto nella conversazione, Aberforth aveva prestato meno attenzione alla scacchiera, e l’alfiere di Ariana aveva catturato il suo cavallo, sbattendolo con violenza e trascinandolo via.

La ragazzina scoppiò in lacrime, disperata.

****

Delfi, 20 giugno 1899

Mio caro Albus,

mi trovo a Delfi, dove aveva sede il più celebre oracolo del dio Apollo, il luogo dove – così si dice – è stata ideata la magia utilizzata per il leggendario Specchio delle Brame. Anticamente, sul frontone del tempio vi era una frase: “Conosci te stesso”. E a cosa servirebbe secondo leggenda lo Specchio delle Brame, se non a conoscere i nostri più reconditi desideri? Quelli che nascondiamo persino a noi stessi?

Ho preso alloggio in una modesta locanda, situata in un piccolo, delizioso villaggio Babbano che si trova a poca distanza dalle rovine dell’antica Delfi, alle pendici del monte Parnaso. Ti assicuro, Albus, che è la cittadina più graziosamente rustica che io abbia mai visto. Spalancando le imposte della stanza in cui dormo, posso vedere un orticello ben curato, diviso dall’aia tramite uno steccato, oltre il quale i polli e il tacchino becchettano placidamente il terreno. C’è anche una vecchia capra, legata alla staccionata. Stamane è stato il suo belato ad accompagnare il mio risveglio assieme al canto del gallo.

Sono poi salito a visitare i ruderi della città, un luogo davvero suggestivo. Non è dotato della maestosità pura ed evidente dell’Acropoli, né dell’aspro e inequivocabile fascino delle Meteore (si tratta di un luogo che ho visitato prima di Atene: monasteri Babbani e magici arroccati in cima alle montagne, con enormi biblioteche e splendidi mosaici in stile bizantino). Delfi ha un sapore di bellezza, di profumo di miele e di sole, di arcano e di fresco al tempo stesso. Un ronzio d’api sulla pelle squamosa della Storia. Ha una velata malinconia, quella strana e inspiegabile nostalgia che pervade i luoghi in cui la gente passata sembra camminare ancora.

Mi sono ritrovato a pensare a quante persone fossero passate di lì prima di me. A quanto tempo sia passato.

Vorrei davvero che tu fossi qui, Albus. Sento molto la tua mancanza.

Con affetto,

 Elphias

****

Albus aprì il cassetto dello scrittoio e vi pose la lettera di Elphias, esattamente sopra alla precedente. Si voltò poi verso la finestra, tentando di scacciare il sordo mal di capo che lo attanagliava – e che probabilmente era dovuto a quelle due settimane trascorse al chiuso. Oltre i vetri, brillava un limpido cielo azzurro.

In Inghilterra raramente il cielo era sereno. Ma quando brillava il sole, non ve ne erano di più belli al mondo. Sospirò, ormai deciso di non rassegnarsi alla noia. L’indomani, Bathilda Bagshot gli avrebbe presentato quel Gellert Grindelwald.

Note dell’Autrice

Beh, la noia è una brutta bestia (o era l’invidia?).

Da adesso in poi, gli aggiornamenti saranno ogni due settimane. Perciò, arrivederci a lunedì 16 aprile!

Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento!

Grazie a Tefnut, Wynne, Pensieve, Erodiade e Silv__ per aver recensito, e un grazie speciale (un grazie violetto) a Sbarauau per avermi fatto notare l’imprecisione del capitolo precedente!

E grazie a Giulia, ovviamente, la mia beta dai giusti consigli

Baci, Daph

   
 
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